gioco
Attività strutturata e liberamente scelta, svolta individualmente o in gruppo unicamente in vista di sé stessa e non per altri fini o necessità immediati. Per queste sue caratteristiche Aristotele distingueva il g. dal lavoro, equiparandolo alla felicità e alla virtù, anch’esse connotate dall’autosufficienza e dalla libertà, ossia dalla mancanza di necessità. Le osservazioni di Aristotele vennero riprese da Kant, che sulla base di questi elementi associò strettamente il g. all’attività estetica, e più precisamente al giudizio di gusto, basato sul «libero gioco delle nostre facoltà conoscitive», ossia l’immaginazione e l’intelletto. Kant, tuttavia, non mancò di sottolineare anche la funzione biologica del g. quale fondamentale forma di apprendimento che ha un ruolo importante nel processo di sviluppo dell’uomo come di molte specie animali. Sulla base di questo nucleo essenziale di determinazioni concettuali si svilupperà la riflessione filosofica successiva, che nei suoi vari approcci analizzerà il g. sia in chiave pedagogica e psicologica, come strumento educativo e come manifestazione dello sviluppo cognitivo, sia come fenomeno antropologico e socioculturale, sia come forma di comportamento governata da regole concordate, sia, infine, nell’ambito della filosofia ermeneutica contemporanea, come nozione paradigmatica per definire l’esperienza artistica e la natura del linguaggio.
L’idea già espressa da Kant, secondo cui il gioco avrebbe la funzione biologica di addestrare alle attività che garantiscono la conservazione dell’organismo, diventerà una sorta di luogo comune nella pedagogia e nella filosofia del 19° sec., e sarà ripresa e ulteriormente sviluppata in partic. dalla psicologia cognitiva. Essa è alla base della teoria dell’educazione di ispirazione schellinghiana formulata da Fröbel, secondo il quale la tendenza spontanea all’attività creatrice dell’uomo si manifesta essenzialmente nel g.: l’attività ludica non è intesa qui come puro divertimento, o inutile perdita di tempo, ma come un vero e proprio «lavoro», addirittura come «arte», come un’attività «seria», dunque, di fondamentale importanza per lo sviluppo. Analogamente, all’inizio del 20° sec., in pieno clima culturale evoluzionistico, Groos ipotizzò che negli animali superiori, alla nascita immaturi, il gioco serva a mettere alla prova capacità utili all’adattamento ambientale. Più tardi K. Lorenz, avendo osservato le specie animali in ambiente naturale, sottolineò come la specie umana, caratterizzata da comportamenti non specializzati e particolarmente flessibili, abbia bisogno di esercitare la tendenza a esplorare realtà sempre nuove estraendone le caratteristiche distintive. Il g., praticato dagli esseri umani soprattutto nella giovinezza, serve dunque a esperire situazioni nuove in nuovi ambienti in cerca di soluzioni ottimali. Secondo lo studioso dello sviluppo cognitivo J. Bruner, il g. crea una relazione fondamentale fra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Dalla trasformazione simbolica del reale, insita nel g., discendono importanti conseguenze: il g. può insegnare la natura delle convenzioni e diventare così un vero e proprio apprendimento di competenze utili al raggiungimento della maturità. Sul ruolo fondamentale del g. nello sviluppo cognitivo e intellettuale si è soffermato in partic. J. Piaget. Partendo dal presupposto che il g. è la «più spontanea abitudine del pensiero infantile», egli distingue tre fasi del comportamento ludico: quella dei g. di esercizio, in cui il bambino si impegna, di solito da solo, nella ripetizione di schemi senso-motori, autonomizzandoli però dal fine pratico per cui sono stati originariamente concepiti e appresi; la fase del g. simbolico, che si protrae più o meno fino ai sette anni, in cui il bambino definisce, da solo o in gruppo, un contesto non-referenziale per la propria attività ludica (situazione immaginaria), e infine la fase dei g. di regole, che insorgono di solito dopo i sette anni e sopravvivono anche nell’età adulta, in cui l’attività ludica, ormai sistematicamente sociale, è governata da regole astratte ed è frutto di accordo convenzionale.
Un fondamentale tentativo di definizione circoscritta e sistematica del g. è offerta dallo storico e filosofo olandese Huizinga, il cui volume Homo ludens (1938; trad. it.) operò una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio al tema del gioco. Per Huizinga il g. è il centro di propulsione di tutte le attività umane, una sorta di big bang primordiale nella cui forma nascono i ‘pianeti’ arte, letteratura, teatro, diritto, scienza, religione, filosofia e quanto è possibile contemplare nelle civiltà umane: «La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata [...]. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme sovrabiologiche che le conferiscono maggior valore». Nella interpretazione di Huizinga il g. è un’attività in un certo senso fisiologica che riesce però a travalicare, anche nel mondo animale, i limiti dell’attività biologica, in quanto non si connette a finalità di sopravvivenza o di sussistenza. Il g. è una attività libera, cui l’individuo aderisce per propria scelta; capace di instaurare una consapevole realtà fittizia diversa da quella della vita ordinaria; disinteressata, in quanto non congiunta a interessi materiali o di sopravvivenza; dotata di una precisa dimensione spazio-temporale nella quale l’individuo compie azioni particolari sotto l’egida di un ordine perfetto, assoluto e temporaneo; è articolata secondo un sistema di regole specifiche, artificiali e inderogabili cui il giocatore si assoggetta sempre per libera scelta. Tale assoggettamento riflette l’essenza dell’«in-lusio», l’essere nel g.: la trasgressione palese delle regole comporta il crollo dell’intero mondo provvisorio. Le indicazioni teoriche e il tentativo di definizione di Huizinga costituiscono il punto di partenza del fondamentale contributo di R. Caillois, che nel suo volume Les jeux et les hommes (1958; trad. it. I giochi e gli uomini), propone una classificazione ‘sintattica’ dei g. sulla base di quattro categorie, quattro ‘ludemi’ irriducibili, principi di base che caratterizzano tanto i g. quanto la disposizione del giocatore: l’agon, o competizione, l’alea o caso (chance), la mimicry o imitazione/simulacro, l’ilinx o gorgo, vertigine. In queste categorie, anche associate binariamente tra di loro, rientrano di fatto tutti i g. possibili. Secondo Callois, inoltre, i g. si muovono lungo due piani fondamentali e diversi di tensione, due modi di giocare: la paidia (senza regola) e il ludus (con regola). La paidia si esprime in una «libertà prima, originaria» che però rimane in misura variabile come motore indispensabile del g. anche nelle sue forme più complesse e rigorosamente organizzate come, per es., le competizioni sportive.
La valenza ludica del concetto di g. recede in secondo piano o scompare del tutto nelle teorizzazioni in cui viene inteso come modello di comportamento o di azione strutturato e governato da regole prestabilite, che devono essere osservate affinché il g. funzioni o abbia un determinato esito. In questa accezione la nozione di g. ha un ruolo centrale nel pensiero del ‘secondo Wittgenstein’, nella fattispecie nella teoria dei ‘g. linguistici’. L’espressione ‘g. linguistico’, lungi dall’avere per Wittgenstein un’accezione ludica, sottolinea sia il carattere sociale-culturale dell’agire linguistico, sia il fatto che questo è soggetto a regole che costituiscono uno schema di riferimento. Il g. linguistico è un’attività che si svolge seguendo determinate regole, che hanno un carattere convenzionale, ed è definibile e reso tale proprio dalla presenza delle regole che, pur non essendo rigide e spesso sfumate, permettono di capire cosa è ‘dentro’ e cosa è ‘fuori’ dal gioco. Sul concetto di g. come azione strutturata da regole si impernia anche la teoria dei g. (➔) proposta da J. von Neumann e da O. Morgenstern: un modello matematico per lo studio delle ‘situazioni competitive’, in cui cioè sono presenti più persone (o gruppi di persone, od organizzazioni) dette appunto ‘giocatori’, con autonoma capacità di decisione e con interessi contrastanti; tale modello ha trovato applicazione principalmente in economia e nell’ambito della teoria delle decisioni, o della scelta razionale.
Schiettamente filosofico è invece l’approccio alla nozione di g. proposto da Gadamer, che assume il g. come modello ermeneutico per caratterizzare l’esperienza artistica e la natura del linguaggio. Il g., per Gadamer, ha un’essenza propria, indipendente dalla coscienza dei giocatori, che lo avvertono come una realtà che li trascende: esso si produce attraverso i giocatori che partecipano al g., sicché ogni giocare è al tempo stesso un esser-giocati. «È il gioco che ha in sua balia il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco». Anche l’opera d’arte, secondo Gadamer, è g. e, quindi, un evento che non è separabile dalla sua rappresentazione: il modo di essere dell’opera d’arte è g., che si compie solo temporalmente con la fruizione e comprensione degli spettatori. Attraverso la nozione di g. Gadamer caratterizza anche l’essenza del linguaggio, il quale implica sempre una sorta di rapimento ‘ludico’ che trascende la volontà del singolo. Di qui l’idea del g. come metafora del rapporto uomo/mondo, e del mondo stesso, inteso come ‘g. infinito’, ossia come autorappresentazione o automanifestazione.