Vedi Giordania dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Noto fino alla prima metà del Novecento col nome di Transgiordania, il regno hashemita di Giordania ha una storia relativamente recente. Ottenuta l’indipendenza dal mandato britannico nel 1946, divenne una monarchia costituzionale retta dalla dinastia hashemita. Dopo la morte di re Hussein, considerato il padre dello stato giordano contemporaneo, dal 1999 è governata da re Abdullah II, monarca apprezzato dalla comunità internazionale per le sue abili doti di mediatore e per la sua politica filo-occidentale. Per posizione geografica, assetto politico e retaggio storico, nel corso degli anni la Giordania si è trovata a offrire rifugio ai popoli degli stati limitrofi, frequentemente coinvolti in conflitti interni e internazionali. Questo spiega la varietà demografica, caratterizzata dalla rilevante presenza di palestinesi, iracheni e, ultimamente, siriani. La storia giordana è fortemente connessa alle dinamiche regionali e in particolare alla questione palestinese, specialmente in conseguenza dell’elevato numero di profughi scampati ai conflitti arabo-israeliani del 1948 e del 1967, e rifugiatisi nel paese. A tutt’oggi i rifugiati palestinesi in Giordania sono quasi due milioni, e si stima che ben più di metà della popolazione abbia le stesse origini. La crescente presenza di palestinesi è sempre stata vissuta dai cittadini giordani come una minaccia e ha provocato l’insorgere di disagi sociali e rivendicazioni nazionaliste. Anche per questo i palestinesi giordani hanno sempre lamentato una discriminazione a livello di diritti civili e di rappresentanza politica. A tal proposito, la guerra a Gaza del luglio-agosto 2014 ha rappresentato una nuova fonte di preoccupazione per Amman a causa del timore che la violenza sinora confinata nella Striscia potesse diffondersi anche in Cisgiordania, provocando una nuova ondata di profughi palestinesi verso la Giordania e alimentando vecchie tensioni mai sopite tra le due comunità residenti nel regno. Nel contesto mediorientale la Giordania è, con l’Egitto, l’unico paese arabo ad avere firmato un trattato di pace con Israele (26 ottobre 1994), che ha normalizzato le relazioni tra i due paesi. Fin dalla sua nascita, il paese ha intrattenuto rapporti privilegiati con il mondo occidentale: in un primo momento con il Regno Unito e, negli ultimi decenni, con gli Stati Uniti, per i quali rappresenta uno degli interlocutori più affidabili nell’area – circostanza suffragata dall’inserimento del paese, nel 1996, tra i maggiori ‘alleati non-Nato’ degli Usa. Un’alleanza strategica, quella con gli Stati Uniti, rafforzata anche dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico (Is), che ha posto il territorio hashemita, insieme a Libano, Sinai e Israele, come uno dei territori sul quale estendere il califfato islamico proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi. Ad alimentare i timori di Amman circa la tenuta della propria sicurezza vi sono più fattori direttamente connessi tra loro, come la significativa presenza di cellule salafite sul suolo giordano, il numero sempre più rilevante di rifugiati siriani – ora anche iracheni – e il diffuso malcontento popolare nelle zone più depresse del paese. Questi fattori potrebbero essere sfruttati dagli jihadisti per fare proselitismo e per destabilizzare un territorio strategico negli equilibri della regione. Al fine di evitare un effetto spillover, il governo ha avviato una serie di operazioni sia sul fronte interno – leggi anti-terrorismo più restrittive e un attento pattugliamento delle frontiere – sia su quello esterno. In particolare sul versante internazionale, la monarchia hashemita ha deciso di giocare il proprio ruolo regionale al fianco dell’Occidente, prendendo parte, limitatamente agli aspetti di intelligence e di supporto, alla coalizione anti-Is guidata dagli Stati Uniti. Anche al fine di creare un fronte di stabilità il più ampio possibile in Medio Oriente contro le minacce che giungono dal corridoio siro-iracheno, la Giordania ha tessuto rapporti privilegiati con i paesi del Golfo, ai quali si è avvicinata dopo l’inizio delle Primavere arabe. Il timore che l’ondata di proteste contro i regimi totalitari giungesse anche nella Penisola Arabica ha portato, infatti, a un processo di rafforzamento delle identità monarchiche nel mondo arabo, in cui è stata coinvolta anche la Giordania. Il piccolo paese hashemita è, per questo, beneficiario di ingenti flussi di denaro (provenienti soprattutto dall’Arabia Saudita), destinati a contenere le proteste popolari e a gestire le ripercussioni della crisi siriana. Nel 2011, la Giordania era stata invitata con il Marocco a far parte del Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc).
Dal punto di vista interno, il potere politico è saldamente nelle mani del re, anche in virtù del legame tribale che lo unisce alla componente transgiordana, maggiore bacino di consenso della famiglia reale. Re Abdullah II beneficia inoltre del sostegno dell’esercito e delle forze di sicurezza giordane. Dal 2011, anche la Giordania è stata teatro di manifestazioni popolari, seppure sempre contenute e mai finalizzate a provocare un rovesciamento di regime. In risposta a ciò, il re ha avviato un programma di riforme destinato soprattutto a indebolire l’opposizione costituita dal Fronte d’azione islamica (Iaf, braccio politico della Fratellanza musulmana), che dal 1997 boicotta le elezioni. La monarchia non è però riuscita a ridurre il diffuso malcontento popolare dovuto soprattutto agli alti livelli di disoccupazione, all’aumento dei prezzi e all’altissima corruzione che domina nel settore pubblico.
Il fallimento di ripetuti tentativi di riforma ha portato al cambiamento di numerosi primi ministri da parte del re: il più recente è avvenuto nell’ottobre 2012, con la nomina di Abdullah Ensour, che è stato tra l’altro confermato, per la prima volta nella storia del paese, dal parlamento (e non dal re) formatosi in seguito alle ultime elezioni del gennaio 2013. Il parlamento è composto da una Camera bassa, quella dei deputati, eletta con suffragio universale e che, a seguito della riforma elettorale del giugno 2012, è passata da 120 a 150 membri – 27 dei quali eletti per la prima volta su base nazionale attraverso liste bloccate e 15 riservati a donne, segnando così un incremento della precedente quota femminile che si attestava sui i dodici seggi. La seconda è la Camera alta, costituita da 75 membri e interamente nominata dal re, che ha anche il potere di sciogliere il parlamento e indire le elezioni.
Più di ogni altro paese arabo, la Giordania è caratterizzata dalla massiccia presenza di palestinesi, che costituiscono circa la metà della popolazione totale e influiscono sul mantenimento di un tasso di crescita demografica abbastanza alto, oltre il 2%. La Giordania ha sviluppato negli anni un programma statale d’istruzione che ne fa uno dei paesi con il tasso di alfabetizzazione più alto di tutto il Medio Oriente. Anche l’apparato sanitario è in grado di offrire servizi di qualità, grazie agli alti investimenti pubblici. Le strutture sanitarie accolgono ogni anno pazienti provenienti dai vicini paesi mediorientali.
Le libertà civili e politiche non sono ancora garantite in modo sufficiente benché la Giordania sia ritenuta uno degli stati più democratici dell’area mediorientale. Il recente inasprimento delle leggi anti-terrorismo e sulle telecomunicazioni, con l’aggiunta di alcuni emendamenti più restrittivi, giustificato dal governo come necessario a combattere il terrorismo, ha tuttavia attirato le proteste degli attivisti per i diritti umani che temevano un’applicazione delle norme volta a punire in maniera eccessiva gli oppositori politici al regime. Infatti, gli arresti di oppositori e giornalisti accusati di mettere in cattiva luce la casa reale e il governo, non sono infrequenti; i mezzi di stampa e le televisioni, inoltre, sono controllati in gran parte dallo stato. La stessa revisione della legge elettorale, approvata nel 2012, è ritenuta insufficiente ad assicurare la rappresentatività delle istanze politiche presenti nel paese dall’opposizione.
Come ricordato in precedenza, in parlamento è previsto infine che 15 seggi vengano riservati alle donne. Allo stesso tempo, anche grazie all’impegno della regina Rania, la situazione dell’uguaglianza di genere sta migliorando, anche se la questione dei crimini d’onore continua a scuotere la società giordana. Per quanto concerne la minoranza religiosa cristiana, circa il 4% della popolazione, può godere di una libertà di culto superiore rispetto agli altri paesi arabi musulmani.
A differenza della quasi totalità degli attori arabi che la circondano, la Giordania non possiede risorse significative di petrolio e gas. Questa circostanza, sommata a un apparato industriale non particolarmente sviluppato, ha generato uno squilibrio nella bilancia commerciale.
L’economia del paese si basa soprattutto sul settore terziario e ruota intorno alla capitale e alla zona economica speciale del porto di Aqaba. Attratto dai ricchi siti archeologici di epoca preromana e romana (basti pensare all’antica città di Petra, catalogata tra le meraviglie del mondo), il turismo rappresenta un settore sempre più importante dell’economia giordana (contribuisce al 13% del pil) ma risente pesantemente dell’instabilità della regione. L’erompere delle Primavere arabe, per esempio, ha fatto registrare nel 2011 una flessione del 35% di presenze rispetto all’anno precedente, con una perdita stimata per le casse statali di circa un miliardo di dollari. Tale problema, unito al calo delle esportazioni e alla diminuzione dei consumi, ha comportato, a partire dal 2012, un rallentamento della crescita del pil reale, che nel 2015 è stata del 2,9% circa. Oltre alle incertezze legate all’instabilità regionale, a determinare la lenta crescita economica hanno influito le debolezze del mercato del lavoro, il rallentamento nelle operazioni di costruzione di grandi opere infrastrutturali e il calo dell’export, in particolare verso l’Iraq, che rappresentava quasi il 18% delle esportazioni giordane. Con il tracollo della Siria, inoltre, la Giordania ha subito ripercussioni anche sul piano commerciale poiché ha perso l’accesso al suo principale punto di scambio, il porto siriano di Latakia, dal quale giungevano beni troppo costosi da importare attraverso il Mar Rosso. Le relazioni commerciali della Giordania rimangono comunque, nel complesso, buone. Divenuta membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2000, Amman ha concluso numerosi accordi di libero scambio con i paesi confinanti, tra cui spiccano l’accordo di Agadir, siglato nel 2004 con Egitto, Marocco e Tunisia, e quello stipulato nel 2010 con Siria, Libano e Turchia. Negoziati sono infine in corso per la creazione di un accordo di un’area di libero scambio approfondito (Deep and Comprehensive Free Trade Area) con l’Unione Europea per consentire un accesso agevolato dei prodotti giordani in area Eu. Per fronteggiare l’afflusso di rifugiati dalla Siria, la Giordania ha ricevuto inoltre ingenti somme di denaro, soprattutto dagli Stati Uniti (per un totale di un miliardo di dollari), dall’Arabia Saudita (che all’inizio del 2013 aveva annunciato una donazione di 10 miliardi di dollari).
La Giordania è un forte importatore di energia. La principale risorsa energetica importata è costituita dal petrolio, che proviene soprattutto dall’Arabia Saudita e dall’Iraq. A questo si aggiunge il gas naturale che arriva dall’Egitto. In compenso sul territorio giordano si trova circa il 2% delle riserve mondiali di uranio: di conseguenza, il paese sta mettendo a punto un piano per la costruzione di un reattore nucleare, finanziato dalla Corea del Sud, per conquistare una maggiore indipendenza in campo energetico. Crescono anche gli investimenti nazionali e esteri nelle energie rinnovabili.
Con soli 145 metri cubi di acqua pro capite l’anno – a fronte di una soglia di ‘penuria d’acqua’ internazionalmente fissata a mille metri cubi – la Giordania è uno dei paesi più poveri di acqua al mondo. Per far fronte a una mancanza strategica, il governo giordano sta procedendo alla costruzione di impianti di desalinizzazione e di canali dal Mar Rosso che implicheranno una condivisione delle risorse idriche con Israele. Quest’ultima vertenza si rivela abbastanza delicata, poiché la gestione dell’acqua rappresenta uno dei nodi principali della competizione legata al conflitto arabo-israeliano. Lo dimostra, tra l’altro, la notevole riduzione d’acqua del flusso del Giordano causata dalla costruzione di una diga da parte di Israele.
La Giordania costituisce l’unica area stabile tra paesi che negli ultimi anni sono stati testimoni di violenze intestine e regionali, come l’Iraq, la Siria, il Libano, i Territori Palestinesi e Israele. Le ondate di protesta delle Primavere arabe hanno avuto ripercussioni, sebbene marginali, anche sulla Giordania, un campanello di allarme per il regime. Dinanzi alle manifestazioni anti-governative la Giordania ha accettato l’invito del Gcc a fare domanda d’ingresso nell’organizzazione, percepita come garanzia della stabilità interna. Il paese ha progressivamente sviluppato una propria industria della difesa sin dalla creazione del ‘King Abdullah Design and Development Bureau’ (Kaddb). Predisposto nel 1999, il Bureau punta ad assicurare l’autosufficienza nel settore e, potenzialmente, la sua trasformazione da importatore a fornitore di armi per gli altri paesi mediorientali.Nonostante l’esercito sia numericamente piuttosto ridotto – e concentrato nelle forze di terra – le truppe giordane partecipano a molte operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. La Giordania è uno dei primi paesi al mondo per numero di soldati impegnati in missioni internazionali.
Con l’espulsione dei gruppi armati palestinesi dal territorio giordano e dopo l’accordo di pace con Israele, le maggiori sfide alla stabilità e alla sicurezza nazionale provengono dall’islamismo radicale, la cui minaccia è diventata ancor più viva da quando la guerra in Siria e la presenza di Is in Iraq hanno portato nell’area numerosi gruppi jihadisti.
La Giordania infatti teme il ripetersi di una stagione terroristica: nel novembre 2005, Amman fu teatro di un triplice attentato attribuito a movimenti vicini ad al-Qaida, che provocò la morte di circa una sessantina di persone in tre alberghi della capitale.
All’alba del quinto anniversario del conflitto siriano, la Giordania ha aperto il suo confine a oltre 630.000 rifugiati. Questo, almeno, è il dato parziale registrato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr, l’organo che, assieme ad altre onlus, si occupa dell’accoglienza dei rifugiati). Fonti governative, però, hanno stimato cifre superiori al milione. Tra tante e crescenti difficoltà il Regno di Giordania ha dimostrato il suo sostegno al popolo siriano e iracheno, lasciando libero accesso sul proprio territorio e offrendo assistenza e sicurezza ai rifugiati dislocati nei campo profughi a nord del paese di Zaatari, Mrajeeb al-Fhood e Azraq. Il campo di Zaatari, nel desertico governatorato di Mafraq, è diventato in poco tempo il secondo campo più grande al mondo: secondo l’Unhcr ospita 120.000 sfollati, soprattutto donne, bambini e anziani. I problemi sociali più gravi generati dalla presenza siriana in Giordania non sono sorti nei campi ma nelle comunità, laddove la maggior parte dei siriani ha provato a insediarsi per cercare lavoro. La Giordania soffre di un alto tasso di disoccupazione cronico che riguarda circa il 12% del totale della popolazione e il 33,7% dei giovani. Il timore di molti giordani si sostanzia nel fatto che molti siriani potrebbero sottrarre posti di lavoro ai locali esaurendo così preziose risorse assistenziali a loro riservate, tanto da spingere parlamentari e alti funzionari a chiedere al governo di chiudere le frontiere con la Siria. Le preoccupazioni giordane sono basate sul timore che gli arrivi in massa di siriani possano procurare una nuova minaccia all’identità nazionale. Una situazione, questa, che è stata già vissuta in passato da Amman con l’afflusso di palestinesi giunti dalla West Bank. Per far fronte alle esigenze dei rifugiati ed evitare che la crisi siriana valichi i confini, Amman è ricorsa soprattutto agli aiuti esteri.
Dopo l’instaurazione del califfato da parte dello Stato islamico, la Giordania si trova a essere particolarmente vulnerabile alla minaccia islamista. Un livello di allerta elevato giustificato dalle proteste e dalle manifestazioni che si stanno moltiplicando dall’estate 2014 nelle città giordane di Maan, Rusaifa e Zarqa, centri principali dove sta progredendo il sostegno al jihadismo militante e in particolare all’Is. Una situazione esplosiva che ha allarmato le autorità di Amman tanto da spingerle, da un lato, a monitorare attraverso l’intelligence nazionale le dinamiche in fieri nelle dirette periferie del regno, dall’altro, a prendere precauzioni contro il potenziale sconfinamento delle truppe jihadiste sul suolo giordano. A fronte di tali preoccupazioni, la risposta del governo è stata immediata e ferma: oltre al rafforzamento delle truppe giordane al confine con l’Iraq e all’arresto di diverse centinaia di salafiti dissidenti e jihadisti di ritorno dal conflitto siriano, sono state emanate nuove leggi anti-terrorismo e sulle telecomunicazioni che prevedono sanzioni più severe e l’estensione della lista dei reati classificabili come azioni terroristiche. Misure che si sono rese necessarie e che hanno trovato una sponda politica anche nello storico alleato statunitense. Amman teme, infatti, che l’Is stia creando una propria cellula nel paese mirata a rovesciare il regno di Abdullah II.