Vedi Giordania dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Noto fino alla prima metà del Novecento col nome di Transgiordania, il Regno Hashemita di Giordania ha una storia nazionale relativamente recente, che risale alla fine della Seconda guerra mondiale. Ottenuta l’indipendenza dal mandato britannico nel 1946, divenne una monarchia costituzionale retta dalla dinastia Hashemita e, attualmente, è governata da re Abdullah II, apprezzato dalla comunità internazionale per le sue abili doti di mediatore e per la sua politica filoccidentale.
Per posizione geografica, assetto politico e retaggio storico, nel corso degli anni la Giordania si è trovata a offrire rifugio ai popoli degli stati limitrofi, frequentemente coinvolti in conflitti interni e internazionali. Questo spiega la varietà demografica, caratterizzata dalla rilevante presenza di palestinesi, iracheni e, ultimamente, siriani.
La storia giordana è legata alle dinamiche della questione palestinese, specialmente in conseguenza dell’elevato numero di profughi scampati ai conflitti arabo-israeliani del 1948 e del 1967, e rifugiatisi nel paese. A tutt’oggi i rifugiati palestinesi in Giordania sono quasi due milioni, e si stima che ben più di metà della popolazione abbia le stesse origini. La crescente presenza di palestinesi è stata sempre più vissuta come una minaccia dagli originari cittadini giordani e ha provocato l’insorgere di disagi sociali e rivendicazioni nazionaliste. Anche per questo, i palestinesi giordani hanno sempre lamentato una discriminazione a livello di diritti civili e di rappresentanza politica.
Lo scoppio della Seconda guerra del Golfo nel 2003 ha portato inoltre in Giordania circa 450.500 rifugiati dall’Iraq. Dall’inizio della crisi in Siria, invece, si sono contati (stando alle stime ufficiali) più di mezzo milione di rifugiati siriani.
Nel contesto del Medio Oriente, la Giordania è, con l’Egitto, l’unico paese arabo ad aver firmato un trattato di pace con Israele (26 ottobre 1994), che ha normalizzato le relazioni tra i due paesi. Fin dalla sua nascita, il paese ha intrattenuto rapporti privilegiati con il mondo occidentale: in un primo momento con la Gran Bretagna e, negli ultimi decenni, con gli Stati Uniti, per i quali rappresenta uno degli interlocutori più affidabili nell’area – circostanza suffragata dall’inserimento del paese, nel 1996, tra i maggiori ‘alleati non-Nato’ degli Usa. Anche sulla base di tale atteggiamento, la Giordania ha ripetutamente tentato di fungere da perno delle mediazioni diplomatiche in Medio Oriente, soprattutto nel conflitto arabo-israeliano e, più recentemente, in quello siriano. I rapporti con i vicini arabi sono quindi relativamente buoni, soprattutto con l’Iraq, da cui la Giordania importa petrolio a prezzi vantaggiosi, e con i paesi del Golfo, ai quali si è particolarmente avvicinata dopo l’inizio delle Primavere arabe. Il timore che l’ondata di proteste contro i regimi totalitari giungesse anche nella Penisola Arabica o in Marocco ha portato, infatti, ad un processo di rafforzamento delle identità monarchiche nel mondo arabo, in cui è stata coinvolta anche la Giordania. Il piccolo paese hashemita è, per questo, beneficiario di ingenti flussi di denaro (provenienti soprattutto dall’Arabia Saudita), destinati a contenere le proteste popolari e a gestire le ripercussioni della crisi siriana. Nel 2011, inoltre, la Giordania (assieme al Marocco) è stata invitata a far parte del Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc).
Dal punto di vista interno, il potere politico è saldamente nelle mani del re, anche in virtù del legame tribale che lo unisce ai beduini, maggiore bacino di consenso della famiglia reale. Re Abdullah II beneficia inoltre del sostegno dell’esercito e delle forze di sicurezza giordane. A partire dal 2011, anche la Giordania è stata teatro di rivolte popolari, seppure sempre contenute e mai finalizzate a provocare un rovesciamento di regime. In risposta ad esse, il re ha avviato un programma di riforme – destinato soprattutto a indebolire l’opposizione costituita dal Fronte d’azione islamica, Iaf (braccio politico della Fratellanza musulmana), che dal 1997 boicotta le elezioni. La monarchia non è però riuscita a ridurre il diffuso malcontento popolare dovuto soprattutto agli alti livelli di disoccupazione, all’aumento dei prezzi e all’altissima corruzione che domina nel settore pubblico. Il fallimento di ripetuti tentativi di riforma ha portato al cambiamento di numerosi primi ministri da parte del re: il più recente è avvenuto nell’ottobre 2012, con la nomina di un veterano della politica, Abdullah Ensour, che è stato tra l’altro confermato, per la prima volta nella storia del paese, dal parlamento (e non dal re) formatosi in seguito alle ultime elezioni del gennaio 2013. Il parlamento è composto da una Camera bassa, quella dei deputati, eletta con suffragio universale e che, a seguito della riforma elettorale del giugno 2012, è passata da 120 a 150 membri – 27 dei quali eletti per la prima volta su base nazionale attraverso liste bloccate. La seconda è la Camera alta, costituita da 60 membri e interamente nominata dal re, che ha anche il potere di sciogliere il parlamento e indire le elezioni.
Più di ogni altro paese arabo, la Giordania è caratterizzata dalla massiccia presenza di palestinesi, che costituiscono la gran parte della popolazione e influiscono sul mantenimento di un tasso di crescita demografica abbastanza alto, oltre il 2%. La Giordania ha sviluppato negli anni un programma statale d’istruzione che ne fa uno dei paesi con il tasso di alfabetizzazione più alto di tutto il Medio Oriente. Anche l’apparato sanitario è in grado di offrire servizi di qualità, grazie agli alti investimenti pubblici. Le strutture sanitarie accolgono ogni anno pazienti provenienti dai vicini paesi mediorientali.
Le libertà civili e politiche non sono ancora garantite in modo sufficiente benché la Giordania sia ritenuta uno degli stati più democratici dell’area mediorientale. Gli arresti di oppositori politici e giornalisti, accusati di mettere in cattiva luce la casa reale e il governo, non sono infrequenti; i mezzi di stampa e le televisioni, inoltre, sono controllate in gran parte dallo stato. La stessa revisione della legge elettorale approvata nel 2012 è ritenuta dall’opposizione, e in particolare dallo Iaf, insufficiente ad assicurare la rappresentatività delle istanze politiche presenti nel paese.
In parlamento è previsto che 15 seggi vengano riservati alle donne e l’uguaglianza di genere, anche grazie all’impegno della regina Rania, sta migliorando. Allo stesso modo la minoranza religiosa cristiana, circa il 4% della popolazione, gode di una libertà di culto superiore rispetto agli altri paesi arabi musulmani.
A differenza della quasi totalità degli attori arabi che la circondano, la Giordania non possiede risorse significative di petrolio e gas. Questa circostanza, sommata a un apparato industriale non particolarmente sviluppato, ha generato uno squilibrio di bilancia commerciale.
L’economia del paese si basa soprattutto sul settore terziario e ruota intorno alla capitale e alla zona del porto di Aqaba. Attratto dai ricchissimi siti archeologici di epoca preromana e romana (basta pensare all’antica città di Petra, catalogata tra le meraviglie del mondo), il turismo rappresenta un settore sempre più importante, ma risente pesantemente dell’instabilità della regione. L’erompere delle Primavere arabe, per esempio, ha fatto registrare nel 2011 una flessione del 35% di presenze rispetto all’anno precedente, con una perdita stimata per le casse statali di circa un miliardo di dollari. Tale problema, unito al calo delle esportazioni e alla diminuzione dei consumi, ha comportato, nel 2012, un rallentamento della crescita del pil reale, che nel 2013 è stata del 3,3% circa.
Con il tracollo della Siria, inoltre, la Giordania ha subito ripercussioni anche sul piano commerciale, poiché ha perso l’accesso al suo principale punto di scambio, il porto siriano di Latakia, dal quale giungevano beni che sarebbe troppo costoso importare attraverso il Mar Rosso. Le relazioni commerciali della Giordania rimangono comunque, nel complesso, buone. Divenuta membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2000, ha concluso da allora numerosi accordi di libero scambio con i paesi confinanti, tra cui spiccano l’Accordo di Agadir, siglato nel 2004 con Egitto, Marocco e Tunisia, e quello stipulato nel 2010 con Siria, Libano e Turchia. Negoziati sono infine in corso per la creazione di un accordo di libero scambio approfondito (Deep and Comprehensive Free Trade Area) con l’Unione Europea per consentire un accesso agevolato dei prodotti giordani in area Eu che, con un valore di scambio totale pari a 3,5 miliardi di euro, rappresenta il secondo partner commerciale dopo l’Arabia Saudita.
Per fronteggiare l’afflusso di rifugiati dalla Siria, la Giordania ha ricevuto inoltre ingenti somme di denaro, soprattutto dagli Stati Uniti (per un totale di un miliardo di dollari) e dall’Arabia Saudita (che a inizio 2013 ha annunciato una donazione di 10 miliardi di dollari).
La Giordania è un forte importatore di energia. La principale risorsa energetica importata è costituita dal petrolio, che proviene principalmente dall’Arabia Saudita e dall’Iraq. A questo si aggiunge il gas naturale, che arriva dall’Egitto. In compenso sul territorio giordano si trova circa il 2% delle riserve mondiali di uranio: per questo, il paese sta mettendo a punto un piano per la costruzione di un reattore nucleare, finanziato dalla Corea del Sud, per conquistare una maggiore indipendenza in campo energetico.
Con soli 145 metri cubi di acqua pro capite l’anno – a fronte di una soglia di ‘penuria d’acqua’ internazionalmente fissata a mille metri cubi – la Giordania è uno dei paesi più poveri di acqua al mondo. Per far fronte a tale mancanza, il governo giordano sta procedendo alla costruzione di impianti di desalinizzazione e di canali dal Mar Rosso che implicheranno una condivisione delle risorse idriche con Israele. Quest’ultima vertenza si rivela abbastanza delicata, poiché la gestione dell’acqua rappresenta uno dei nodi principali della competizione legata al conflitto arabo-israeliano. Lo dimostra, tra l’altro, la notevole riduzione d’acqua del flusso del Giordano causata dalla costruzione di una diga da parte di Israele.
La Giordania costituisce l’unica area di stabilità interna continuativa tra paesi che negli ultimi anni sono stati testimoni di violenze intestine e regionali, come l’Iraq, la Siria, il Libano, i Territori Palestinesi e Israele. Le ondate di protesta delle Primavere arabe hanno avuto ripercussioni, sebbene marginali, anche sulla Giordania, fungendo da campanello di allarme per il regime. Non è un caso che innanzi alle manifestazioni antigovernative – che hanno provocato anche alcune vittime – la Giordania abbia accettato l’invito del Gcc di fare domanda d’ingresso nell’organizzazione, percepita come garanzia e protezione della stabilità interna. Il paese è andato progressivamente sviluppando una propria industria della difesa sin dalla creazione del ‘King Abdullah Design and Development Bureau’ (Kaddb). Predisposto nel 1999, il Bureau punta ad assicurare alla Giordania l’autosufficienza nel settore della difesa e, potenzialmente, la sua trasformazione da importatore a fornitore di armi per gli altri paesi mediorientali.
Nonostante l’esercito sia numericamente piuttosto ridotto – e concentrato nelle forze di terra – le truppe giordane partecipano a molte operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. La Giordania è il nono paese al mondo per numero di soldati impegnati. Truppe giordane partecipano alla missione in Afghanistan della Nato, alla quale Amman ha offerto il proprio sostegno anche in occasione dell’intervento in Libia del 2011.
Con l’espulsione dei gruppi armati palestinesi dal territorio giordano e dopo l’accordo di pace con Israele, le maggiori sfide alla stabilità e alla sicurezza nazionale provengono dall’islamismo radicale, la cui minaccia è diventata ancor più viva da quando la guerra in Siria ha portato nell’area numerosi gruppi jihadisti. I timori giordani di un attacco terroristico si fondano su un episodio del novembre 2005: Amman fu teatro di un triplice attentato attribuito a movimenti vicini ad al-Qaida, che provocò la morte di circa 60 persone in tre alberghi della capitale.
All’alba del terzo anniversario del conflitto siriano, la Giordania ha aperto il suo confine a oltre 540.000 siriani. Questo, almeno, è il dato relativo ai rifugiati che sono stati registrati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite (l’organo che, assieme ad altre onlus, si occupa dell’accoglienza dei rifugiati). Fonti governative, però, hanno menzionato cifre superiori al milione. Tra tante e crescenti difficoltà il Regno di Giordania ha dimostrato il suo sostegno al popolo siriano, lasciando libero accesso sul proprio territorio e offrendo assistenza e sicurezza. Il campo profughi di Zaatari, nel desertico governatorato di Mafraq, è diventato in poco tempo il secondo campo più grande al mondo: ospita 115.000 sfollati, soprattutto donne, bambini e anziani.
I problemi sociali più gravi generati dalla presenza siriana in Giordania non sono sorti tuttavia nei campi, ma nelle comunità, laddove la maggior parte dei siriani ha provato a insediarsi per cercare lavoro. La convivenza tra i due popoli ha innescato presso gli autoctoni preoccupanti sentimenti xenofobi. La Giordania soffre di un alto tasso di disoccupazione cronico che riguarda circa il 12% del totale della popolazione e il 30% dei giovani. La paura che i rifugiati siriani abbiano sottratto posti di lavoro ai giordani ed esaurito le risorse nazionali ha persino spinto parlamentari e alti funzionari a chiedere al governo di chiudere le frontiere con la Siria. Le preoccupazioni circa la potenziale destabilizzazione che l’arrivo dei siriani può avere procurato riguardano - oltre che il timore di una dispersione di cellule jihadiste nel paese - anche una nuova minaccia all’identità nazionale, già avvertita in pericolo da molti giordani per l’ormai perenne presenza dei palestinesi.
Per far fronte alle esigenze dei rifugiati ed evitare che la crisi siriana valichi i confini, Amman è ricorsa soprattutto agli aiuti esteri.
La presenza di una grande comunità palestinese in territorio giordano ha comportato rilevanti difficoltà per Amman, soprattutto verso la fine degli anni Sessanta, allorquando nel paese si costituì il quartier generale della guerriglia armata palestinese, allora guidata dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat. Scontri tra i guerriglieri palestinesi, abili a sfuggire al controllo governativo, e le forze di sicurezza giordane erano assai frequenti; inoltre, le periodiche incursioni dei guerriglieri in Israele provocavano la reazione delle truppe israeliane, che si spingevano fin dentro il territorio giordano nelle loro controffensive contro i ribelli, talvolta causando vittime tra i civili giordani.
Nel settembre del 1970, in quello che successivamente sarebbe passato alla storia come ‘Settembre nero’, a seguito del dirottamento da parte dei ribelli palestinesi di quattro aerei occidentali e del tentativo di assassinio dell’allora re Hussein, la monarchia giordana decise di intervenire direttamente. I combattimenti tra le truppe regolari di Amman e i guerriglieri armati palestinesi causarono circa 5000 vittime, tra cui molti civili.
A seguito di quegli avvenimenti, le organizzazioni palestinesi furono espulse dal territorio della Giordania e si dispersero tra il Libano e la Siria, paesi in cui ancora oggi vivono più di due milioni di rifugiati palestinesi.