Giordano Bruno e Tommaso Campanella: Opere
La figura di Giordano Bruno è - oltre alla potenza e originalità della sua mente - così tragica, che la coscienza italiana non riesce a staccarne lo sguardo: come potè accadere una tragedia simile? come qualcuno potè volerla? come un'età e una nazione poterono lasciarla avvenire? La coscienza italiana è stata presa - a un dipresso dal Risorgimento in poi - dallo sgomento di quella morte tra le fiamme; molti non hanno esitato - quasi a riaprire il conto tragicamente chiuso il 17 febbraio 1600 - a parteggiare per l'ucciso contro gli uccisori. Le forze che violentemente spinsero il Bruno fuori della vita terrena, una parte della coscienza italiana le ha ripudiate, scacciandole fuori della propria vita spirituale, e cercando di organizzarsi una vita mentale e morale senza quelle forze e contro quelle forze. Questo impeto della coscienza italiana - che poi fa parte di tutto un movimento e rivolgimento, a un dipresso, da centocinquant'anni in qua - ha lo slancio di una protesta morale: discuterne le ragioni e i fondamenti è difficile e increscioso, perché la serenità d'un'indagine teorica può già sembrare un'offesa, qualunque potessero essere le ragioni dell'uno e degli altri. Si cammina - se ci si avventura per questa via, poiché se ne ha il dovere - si cammina, dunque, per ignes, se si cerca di ritornare con lucidità d'esame su una così tragica vicenda. Chi scrive ha, da vent'anni, tentato quest'indagine, serena nonostante il dolore appassionato di tanta parte della coscienza italiana al riguardo. Se, dopo vent'anni di studi bruniani di simile indirizzo, gli è stata affidata la presente scelta di testi bruniani, egli può forse invitare il lettore a fare con lui una disamina del seguente tenore.
Immaginiamo per un po' di fermare la vita del Bruno alla primavera del 1591, prima del suo ritorno in Italia. Sarà dovere di lealtà prender poi in esame quei tragici dieci anni ultimi del Bruno, e studiare, se pur rapidamente, il significato di quel lunghissimo carcere e di quell'orribile morte; ma niente proibisce di studiare il Bruno avanti il ritorno in Italia, a parte dal tragico destino che matura per lui solo dopo il ritorno e non sarebbe maturato se egli fosse rimasto in terra luterana, come, quasi sempre, dal passaggio dalla Francia in Germania, cioè dal giugno 1586 in poi. Del resto il Bruno accusava di non star bene; aveva, quando ritornò in Italia, solo quarantatré anni, ma la vita agitatissima e quel suo modo precipitoso di scrivere, di dettare, di concepire lo avevano logorato non poco: se fosse morto di morte naturale in Germania, prima di ritornare in Italia, egli sarebbe pur sempre l'esule - l'uomo costretto all'esilio da un paese dove non si riconosceva libertà di pensiero speculativo e di vita conforme soltanto a quel pensiero - ma non sarebbe l'ucciso, l'arso vivo. La coscienza italiana compiangerebbe l'esule: ancora parteggerebbe per l'esiliato contro gli esilianti, ma non sarebbe così acutamente punta dal dolore d'aver lasciato uccidere quel suo figlio e dal desiderio di fare, almeno ora, quanto può per condannare moralmente gli uccisori e circondare di un vindice amore l'ucciso.
Prendiamo, dunque, l'esule, e studiamo quale ci appare la sua figura. Fu detto che dappertutto egli era un reietto: non è esatto, perché da Ginevra in poi - i viaggi, e i brevi soggiorni nell'Italia del nord dopo la fuga da Roma, son tentativi che il Bruno fa di trovare una nuova via, non volendo ritornare nei conventi domenicani ed esservi processato d'eresia, ma, durante quei viaggi e soggiorni, un po' lascia, un po' riprende l'abito, e non si separa dallo scapolare, tanto è ancora incerto su quel che gli conviene fare o tentare - da Ginevra in poi, dunque, adattatosi o risoltosi a cercar appoggio nelle chiese protestanti a costo d'iscrivervisi e vivere, se necessario, nella loro disciplina, il Bruno non è reietto dalle comunità a cui chiede di partecipare. Esse lo accolgono, spesso ammettendolo a studiar teologia secondo l'insegnamento riformato. Quando il Bruno entra nelle comunità protestanti, il suo atteggiamento non è deciso: come non era deciso quando viveva nei conventi domenicani, «celebrando messa e li divini offizi», ma dando molto ascolto alle idee protestanti che sapevano giungere anche lì, e d'altra parte elaborando una propria «filosofia» nella quale il cristianesimo, riformato o no, era contato come un semplice momento della verità universalmente razionale. Non era deciso l'atteggiamento del Bruno nelle comunità protestanti, perché, da una parte, tra il cattolicesimo che lo processava e il protestantesimo che gli permetteva di cominciar vita nuova, egli stava senz'altro per «i più riformati riti»; ma, dall'altra parte, se egli era uscito di convento, l'aveva fatto con la mente e l'animo alla «nolana filosofia»: alla quale, di nuovo, o il cristianesimo protestante s'affrettava ad adattarsi, o il Bruno lasciava la Riforma tal quale come aveva lasciato la Chiesa cattolica.
Che l'adesione alle confessioni protestanti fosse, da parte del Bruno, un sincero preferirle alla Chiesa cattolica, ma fosse accompagnata da un'altrettanto sincera richiesta e rivendicazione di libertà di pensiero filosofico pur in seno alle comunità riformate, non meno che, un tempo, nella Chiesa cattolica, questo, di solito, non tardava a chiarirsi, tanto nella coscienza del Bruno stesso quanto nella consapevolezza dei capi delle Chiese protestanti a cui il Bruno s'era iscritto. E da parte del Bruno si delineava già di fronte ai pastori riformati l'atteggiamento che fu poi il suo nell'ultimo e tragico scontro con la Chiesa cattolica: egli, cioè, non solo riteneva e affermava d'aver ragione lui, non i pastori; ma asseriva che erano i pastori - come, poi, i teologi del Santo Uffizio - gli ignoranti incapaci di comprendere il vero e profondo significato del cristianesimo, quindi il suo accordo con la «nolana filosofia». Mentre il Bruno, accusato, insisteva nell'accusare, e criticare aspramente, i suoi accusatori e giudici, questi si rendevano chiaro conto dell'incompatibilità della posizione di lui con la vita della comunità riformata che, a sua domanda, lo aveva accolto: e l'esule riprendeva le sue peregrinazioni, non tanto «reietto» da coloro a cui aveva chiesto appoggio, quanto piuttosto messosi da sé in condizione di non poter convivere più oltre con loro.
Quando lasciava una comunità protestante, era naturale che non si rivolgesse immediatamente a un'altra. Ai soggiorni in terra protestante s'alternano così quelli in terra cattolica. Ivi vedeva spesso frati e preti, per cercare una via che gli permettesse di tornar a vivere nella Chiesa, purché da prete secolare; si rivolgeva ad ambasciatori di nazioni cattolicissime, sperando nell'efficacia d'un loro intervento; aveva in animo di supplicare direttamente il Papa, che lo riammettesse, dandogli modo di vivere insegnando. Mentre così tentava, e sperava sinceramente, un riaccostamento alla Chiesa cattolica, salva, s'intende, la sua libertà di filosofo in cose non riguardanti la teologia, il Bruno seguitava a vivere - né avrebbe potuto far altrimenti, essendo scomunicato - da «uomo sanza religione»: il che non tardava a guastare la sua condizione - pur concessagli in terra cattolica non meno a Tolosa che poi a Parigi - di professore in quelle università. I professori avevano doveri religiosi: egli non poteva prendervi parte.
A ciò s'aggiunga un'altra manifestazione del disagio interiore ed esteriore in cui si trovava. La «nolana filosofia» - che tuttavia, dalla cattedra, egli non insegnava direttamente, perché, tra l'altro, in quei tempi insegnare era leggere testi classici e commentarli, non parlare di propria autorità - la «nolana filosofia», dunque, pur repressa, più o meno, nell'animo, accendeva tale fuoco sotto i testi aristotelici letti per dovere d'ufficio, che presto si creava una situazione insostenibile tra il Bruno e gli scolari, e tra il Bruno e gli altri professori e le autorità accademiche. Il Bruno, poi, quanto era impetuoso (e forse intemperante) nell'attaccar Aristotele e i suoi seguaci e sostenitori, tanto si perdeva d'animo quando si trattava di resistere ai contrattacchi di coloro che aveva egli stesso attaccati. Pungolato dal suo umore ombroso, perennemente desideroso d'evasione e di novità, piuttosto che resistere e cercar di consolidare la posizione presente il Bruno «risolveva di partire». Così ai soggiorni in terra cattolica seguivano nuovi tentativi d'aprirsi la via d'una nuova esistenza in altre terre riformate.
L'anglicanesimo del tempo d'Elisabetta poteva magari essere il più adatto al Bruno; e la società inglese aveva amore, allora, per gli Italiani; e il Bruno ottenne d'insegnare a Oxford. Ma, mentre chiedeva aiuto, voleva poi trattar da ignoranti coloro stessi ai quali chiedeva aiuto, e voleva insegnar loro: «tu ipse doceto». Quale contrasto ne nascesse, il lettore vedrà da sé leggendo la Cena de le ceneri: e che la «nolana filosofia» fosse una generosa visione dell'universo tutto animato - una visione degna d'attrarre nobili menti, come difatti molte ne attrasse in Inghilterra, sùbito e più tardi, quando le opere italiane, stampate a Londra, furono, in parte, tradotte in inglese, in tempi in cui il resto dell'Europa aveva pressoché dimenticato fin il nome del Bruno - e che, d'altra parte, la satira bruniana della società inglese, specialmente colta, sia tra le cose più sapide della nostra letteratura, ciò non toglie che, in quella disposizione di spirito verso i dotti del paese, il Bruno non potesse né prosperare né durar a vivere in Inghilterra. Vi lasciò il seme di quei Dialoghi italiani, in parte, bellissimi: e, fra Sei e Settecento, il deismo inglese farà fruttificare quel seme; ma a lui Bruno non restò che tornarsene in Francia.
Nuovo breve tentativo di vivere, insegnare, far conoscere e apprezzare il proprio pensiero novatore, a Parigi. Fuga velocissima in Germania, dopo «li tumulti» causati da una disputa imprudentemente provocata e poi non sostenuta, in uno di quegli scoramenti totali che facevano del Bruno un cencio e gli mettevano le ali ai piedi. Giacché nell'immagine che di solito si ha del Bruno non si mette che egli dipinge se stesso perseguitato e oppresso dal disfavore delle plebi: ora queste «plebi» - poiché i suoi disegni, o sogni, di rinnovamento politico di tutta Europa rimanevano in lui allo stato di idee molto vaghe, senza impulsi a dar loro una realizzazione, vicina o lontana, che noi) fosse la diffusione delle nuove idee, perché queste, a loro volta, preparassero la nuova realtà politica e religiosa - le «plebi», dunque, sono le masse di scolari, un po' attratti dalla novità della visione cantata, piuttosto che insegnata, dal Bruno, ma, assai più che attratti, urtati dal suo disdegno e disprezzo del sapere tramandato, che era poi il sapere degli altri professori, e di loro stessi, discepoli di università ricche di tradizioni gloriose e non disposte a tollerare d'esser trattate come sedi d'ignoranza vana e stoltamente superba.
Fuga, dunque, in Germania: a Wittenberg, la patria di Lutero. Esaltazione lirica della figura del riformatore; rappresentazione - con i colori cari agli umanisti che prepararono, accompagnarono, difesero la Riforma - della tirannide romana, che costrinse lui Bruno all'esilio. Insegnamento nell'università di Wittenberg; ma, a un certo momento, da parte dell'università, disagio, a dir poco, per le novità filosofiche che diffondeva, e restrizione dell'insegnamento alle sole lezioni private, toltegli le pubbliche (l'ordinamento delle università tedesche è noto). Il Bruno dice addio anche all'università di Wittenberg - dove la sua passione lulliana ha lasciato freddi quegli umanisti - e passa a Helmstàdt.
Mentre a Wittenberg non risulta ch'egli si sia iscritto alla Chiesa luterana della città, a Helmstàdt tentò la via d'iscriversi regolarmente e presentarsi quale buon luterano, con tutte le forti e umanistiche parole antiromane che erano d'obbligo e, del resto, nell'uso della Germania luterana. A Helmstàdt insegnò; dettò ai famuli - ammiratissimi dell'ingegno portentosamente pronto e fertile del Dominus doctor - gran numero d'opere diversissime, tutte di gran significato; preparò, e in larga parte scrisse, i poemi latini, monumento insigne della sua maturità; ma il pastore maggiore di Helmstàdt lo scomunicò, come l'aveva scomunicato il Concistoro di Ginevra.
Già il Bruno aveva tentato se mai potesse trovar fortuna presso l'imperatore, cattolico ma tollerantissimo, Rodolfo II; e gli aveva dedicato una sua Geometria, che un matematico di buona osservanza direbbe tutta fantastica; e aveva cercato d'accostarsi e, se possibile, unirsi al movimento della nuova astronomia (Ticone Brahe ecc.). Ma il Bruno, al solito, voleva, più che imparare, insegnare; e che cosa propriamente assodassero le osservazioni e scoperte della nuova astronomia, gli importava molto, ma a conferma della propria visione dell'universo. Così restava, inevitabilmente, isolato.
A Francoforte stampò i poemi latini. Lì ebbe contatto coi librai veneziani che gli portarono l'invito del Mocenigo; lì maturò il suo destino tragico. Ma dicevamo di volere studiar l'esule, staccandolo mentalmente dall'immagine della fine raccapricciante. Ora l'esule era un uomo inabitato da una visione dell'universo da veggente e da poeta: e c'è poesia, grande poesia lucreziana, nella sua immagine dell'universo, che «gli aggrandisce l'animo e gli magnifica l'intelletto», prima che nei poemi, in ogni pagina che egli scrive.
Che quella visione fosse scienza, non potrebbe asserirsi oggi da chi ha nozione di quel che sia scienza; né potevano giudicarla scienza allora i nuovi scienziati, matematici o astronomi, impegnati proprio nello sforzo d'un rigore direttamente contrario alle visioni, per quanto generose: che quella visione fosse condannata parimenti dagli Aristotelici delle varie università, ciò non significa che essa fosse altro che una visione, per quanto bella e grandiosa: anche se l'aristotelismo di quegli Aristotelici aveva scarso, o men che scarso, valore; anche se di Aristotele il Bruno aveva conoscenza più lucida, più profonda e, soprattutto, più intelligente di quegli aristotelici (com'è provato dalle esposizioni bruniane d'Aristotele, spesso addirittura eccellenti); e anche se nella visione, che pure resta tale, ci siano intuizioni, non tutte riportabili al Cusano e al generale platonismo quattro e cinquecentesco, di qualcuna delle quali potè ricordarsi perfino Keplero in una lettera a Galileo, tanto c'era di buono e di scientificamente utilizzabile anche in quel veggente e poeta.
Se non era scienza, era «filosofìa» la visione bruniana dell'universo? «Filosofia» - si sa - è concetto più elastico di «scienza» (che pur non può esser inteso, per tutti i tempi, così rigidamente come oggi). «Filosofia», è, tra l'altro, impulso, spinta, eccitazione a filosofare: un excubitor - come disse di sé Francesco Bacone, spirito, per tanti rispetti, vicino all'immenso ottimismo onnirinnovatore del Bruno e degli altri nostri filosofi-poeti cinquecenteschi - è «filosofo» in senso diverso, ma forse non minore, d'un teorizzatore sistematico. Del resto, il Bruno è un sistematico, e, in certo senso, non è che tale: un sistematore, fin imprudente, della propria visione del mondo, allargata a teoria onnicomprensiva e onniesplicativa di tutti gli eventi e fenomeni dell'universo. E son favole che egli abbia proposto via via filosofie diverse: ne aveva, e ne professò sempre, una sola, quel suo pitagorismo dell'universale animazione e intelligenza d'ogni cosa: e se, come potè, continuò sempre a studiare e a riflettere, le inserzioni di nuovi temi e nuove conoscenze servivano, nella sua idea, a confermare e migliorare la sua visione, non a mutarla.
Quel naturalismo così gagliardo e aperto al senso di quanto è divino nella vita dell'universo, avrebbe fatto dell'esule nolano, veggente-poeta, uno dei nostri generosi pensatori cinquecenteschi, prima che nuove esigenze di rigore mettessero la scienza, da un lato, e la filosofia, da un altro lato o da quello medesimo della scienza, per la via del controllato razionalismo ond'è insigne il Seicento. Intervenne il Santo Uffizio: il Bruno non rinnegò quella sua visione: morì per testimoniarla. Così - io scrissi altra volta - egli si presenta morto a chiedere che la sua filosofia viva. In questo modo, egli ha sporto appello: il suo giudizio s'è riaperto: la coscienza italiana ha ripreso, in appello, il processo; e anzitutto ha incriminato coloro che l'uccisero.
Qui - come dicevo - si incede per ignes: perché il dolore d'una nazione che quasi si rimorde di non aver saputo salvare, allora, quel suo figlio generoso, è sacro; e, d'altra parte, siamo oggi così lontani dai tempi in cui la libertà di pensiero era considerata delitto d'opinione e sanzionata penalmente, che stentiamo a capacitarci si sia potuto imprigionare un uomo - e tanti altri prima e dopo di lui, e non solo in terra cattolica, bensì anche in paesi riformati - per le idee professate: e non parliamo poi dell'orrore per tempi in cui la coscienza giuridica era così rudimentale che, nonostante la pur tentata e asserita distinzione tra sacro e profano, il potere politico si credeva in dovere di dar morte a chi il potere religioso avesse condannato, né il potere religioso sentiva l'impulso di trattenere il potere politico da quel tragico zelo, e anzi, almeno di fatto, si comportava come se lo approvasse e gradisse.
Ciò detto e chiarito, la passione vendicatrice non deve dolersi se persone insospettabili di servilità verso il Santo Uffìzio hanno messo in luce che la ragione di così lungo carcere fu che gli inquisitori cercavano il modo di risparmiare il Bruno, purché egli facesse dichiarazioni nette e chiare, adatte a tranquillizzare la coscienza dei giudici, sicché potessero o assolverlo o, in base alla sua ritrattazione e pentimento, dargli pena minore e, in ogni caso, non la morte.
Se il Bruno avesse detto di professare una filosofia diversa, anzi opposta al dogma, e di ritenere d'avere il diritto di filosofare secondo ragione nonostante l'opposizione al dogma, e di questa opposizione, francamente ammessa, si fosse gloriato, la cosa si sarebbe sùbito decisa, purtroppo, nella maniera tragica che non fu evitata più tardi. Ma il Bruno diceva - e io mi rifiuto di credere che sempre mentisse in carcere, e avesse mentito così per tutta la vita, in convento e fuori, nei paesi cattolici e nei protestanti, quando tentava di riaccostarsi alla Chiesa cattolica e quando le rivolgeva le umanistiche contumelie che il lettore troverà nelle due orazioni latine riportate nel presente volume - il Bruno diceva che la sua filosofia era un'ardita, ma non dissonante, interpretazione del dogma: e, d'altra parte, protestava il suo amore - che io mi ostino a ritenere non del tutto mentito, ché le anime sono talora più sincere che coerenti - per la Chiesa cattolica, e la sua risoluzione a rientrare in essa. Così gli inquisitori - i quali avevano una lor coscienza religiosa a cui obbedire - indugiavano; e il Bruno restava nel carcere del Santo Uffizio, che non era certo un carcere modello all'americana, perché in quei tempi non c'erano carceri modello, ma non risulta fosse peggiore delle altre prigioni dell'epoca. Premurato a dichiararsi, il Bruno presentava memoriali, nei quali ripeteva la propria dottrina, sostenendo di nuovo l'accordo di essa col dogma. Infine gli inquisitori fecero quello che noi, forse, avremmo fatto dal principio: si procurarono le opere stampate e le lessero. Come mai ne ricavarono solo le poche proposizioni che gli imputarono? Comunque, gli domandarono se le ritrattasse. Il Bruno rispose di non sapere che cosa mai dovesse ritrattare, perché quelle proposizioni, con tutta la dottrina di cui facevano parte, s'accordavano col dogma, e, se i teologi giudici non lo capivano, eran essi gli ignoranti, e lui Bruno s'appellava al Papa, o perfino al Concilio. Così fu che gli indugi furono troncati e la tragedia avvenne.
La tragedia, tuttavia, ebbe due momenti: e il primo, incruento, è, per un sacerdote che vien dissacrato, gravissimo; ma non si può negare alla Chiesa, che l'aveva fatto sacerdote, il diritto e - aggiunsi altra volta - il dovere di dichiarare estraneo alla Chiesa chi in quella Chiesa voleva bensì rimanere, ma tentando d'inporle idee che essa Chiesa non riteneva di poter ammettere (e che, a parte tutto, non avevano spirito o sentimento cristiano, comunque il Bruno s'illudesse al riguardo, visto che egli stemperava cristianesimo e ogni altro credo storico nell'unica verità universale filosofica). Che poi all'esclusione dalla Chiesa seguisse l'intervento del braccio secolare, questo pesa su la coscienza di chi ciò fece e di chi ciò lasciò fare e approvò. Ciascuno porti le responsabilità che si assume.
Presentandosi morto a chiedere che il suo pensiero viva, il Bruno è diventato carissimo alla coscienza italiana: il luogo dove fu arso è luogo d'una perpetua ideale fiorita: popolo cavaliere, il sentimento italiano è per l'ucciso. Il quale era un triste inquieto agitato uomo, sospinto dalla propria inquietudine di paese in paese, esule prima da se stesso che dalla «Campania felice», perché sollevato, nel cielo bellissimo da lui «visto», da quella appassionata immaginazione che tanto rapiva lui e tanto attrae noi lettori, spinti dal suo generoso impeto speculativo a filosofare, sebbene in un modo che non può essere letteralmente il suo, eredi come siamo delle esigenze di rigore chiaritesi dopo il Bruno, dal Seicento ad oggi.
Poetava il Bruno quella sua visione magnanima in un italiano originalissimo, che può straordinariamente interessare lo storico della lingua italiana, perché l'italiano del Bruno è un approssimativo toscano, saturo di forme latine introdotte tali quali nel discorso volgare, e pur lasciate tutt'altro che grezze, perché latino e toscano, con gli spagnolismi e i dialettalismi schietti che non mancano, son fusi in una pronunzia cordialmente napoletana di quel parlare misto, ma - per la napoletanità totale del profferimento - non composito, sibbene originalissimo. Sicché si rinnova - se non erro - il prodigio greco d'uno scrittore in dialetto, nonostante la complessa massa umanistica della cultura immessa in quel fiume, e la varietà delle forme d'ogni genere e origine spregiudicatamente accolte e rifuse.
Non meno originale il latino bruniano, che allo storico del latino umanistico presenta un interesse tutt'altro che esiguo. La prosa latina è varia. Sovraccaricamente barocca quella dei primi scritti parigini, qui non riprodotti. Scabra, non sempre sufficientemente curata, ma appunto perciò arricchentesi di freschezze nuove, biblicamente ispirate, quella di certi passi delle Orazioni, qui riprodotte, le quali, in altri passi, dondolano un'opulenza ciceroniana, più sorniona che di scuola nell'accettazione .della ricca, ampia, solo un po' convenzionale armonia della magnificenza oratoria.
Una parola a parte è da dire dei versi latini dei poemi. Che il Bruno avesse studiato poesia latina, non meno che prosa latina, fin da ragazzo, è evidente: e, del resto, era nell'uso dell'istruzione d'allora e di più tardi. Versi latini si trovano negli scritti parigini del 1582-3. Ma, messosi ai poemi, il Bruno ha una grande ambizione: non vuole scriver versi che siano centoni di quelli d'altri poeti, pur grandi; e nemmeno vuole scriver versi che restino nel mondo della poesia d'un altro, neppur di Lucrezio, che è colui al quale più desidera esser vicino: egli vuol fare una poesia nuova, che sorga insieme con la visione speculativa nuova che intende cantare; e poiché non c'è poesia nuova se non provvede essa stessa a inventarsi una lingua di sapore nuovo, per tramandati che siano i materiali di cui originalmente si serve, ecco il Bruno pensare in un latino nuovo una poesia nuova, non inchinandosi a gusti umanistici già esistenti e blandendoli e proseguendoli, bensì chiedendo al lettore colto - che deve saper di latino per poterlo leggere, eppure il Bruno gli domanda di prescindere dai gusti poetici ai quali possa esser avvezzo - chiedendo, dunque, al lettore colto di seguirlo animosamente nella sua fabbricazione ex novo d'una poesia nuova in una lingua poetica nuova.
Come riuscì il tentativo? Inegualmente: ci son versi bellissimi, squarci sollevati da un'onda poetica magnifica; e ci son versi aspri e chiocci in quantità, e squarci che son «tirate», la cui originalità è più stranezza - di cui molto il Bruno si compiaceva, ammirandosi non poco nella propria singolarità, tanto diversa dagli altri - che non poesia schietta.
Del resto, lo scontro col pubblico colto - che, insisto, doveva esser umanista per poter leggere, e intanto veniva preso a scudisciate nel suo gusto d'un poetare latino tornito e classicamente levigato ed elegante - riuscì come, di solito, gli scontri del Bruno con la gente alla quale pur rivolgeva il discorso. L'impressione fu che il suo latino non si capisse. Egli rispose, quando stampò il De monade alcuni mesi dopo il De minimo, con le parole sdegnose che prediligeva:
…Porro veri species
quaesita, inventa, et patefacta me efferat;
et si nullus intelligat,
si cum natura sapio et sub numine,
id vere plusquam satis est.
Che son parole assai più chiare di molte che s'incontrano negli esametri dei «capitoli» onde i suoi poemi constano. E tuttavia quell'oscurità ostinata ha qualcosa di potente che molti ha affascinato, sia nella Germania dotta che, tra Settecento e Ottocento, riprese tra le mani Bruno e così lo rimise nelle mani nostre e di tutta Europa, sia tra gli studiosi italiani, dalla generazione dello Spaventa e del Fiorentino a quella presente del Troilo, che ha tradotto il De minimo, ed è un peccato non abbia potuto pubblicarlo, insieme con gli altri due poemi, nell'edizione che aveva progettata.
Qui s'è voluto dare nient'altro che uno specimen di atteggiamenti vari che il Bruno assume nel maggiore dei tre poemi, il De immenso. Il lettore vi troverà motivo, forse, più di curiosità che d'una costante ammirazione.
La presente collezione esigeva che al latino fosse stampato a fronte un italiano che, il più possibile, gli corrispondesse. Tradurre quei versi è stata un'ardua fatica: perché il Bruno, pensando direttamente in quei versi latini, piegava e forzava a suo modo la lingua tramandata, non arretrando dinanzi a nessuna specie di licenza, anzi avendo l'aria di beffardamente vantarsi di così spregiudicata libertà d'uso del latino. A ciò s'aggiunga che, non umanista nei gusti, ma umanista nella cultura classica (e universale) adunata a gran braccia, bisogna indovinare a che cosa pensa, e che cosa tenta di dire in quel suo linguaggio roccioso, per trovar l'imbocco del corridoio per il quale egli ha camminato e il lettore deve saper seguirlo.
Del resto, il Bruno tentò, a volte, di tradurre se stesso: anzi, non è escluso che nel primo progetto del De immenso - al quale il De monade fa da prologo e il De minimo da preprologo, secondo il solito metodo di lavoro del Bruno, dal nocciolo alla corteccia - egli pensasse di molto tradurre dai Dialoghi italiani nei nuovi versi latini. Dopo un po', non aveva più pazienza, e scriveva ex novo. Del resto, è ben significativo (e sorprendente) che quando, scritti gli Eroici furori. egli volle darne, in pagine introduttorie, un'interpretazione autentica, pensò a un significato, per certe parti, nuovo e diverso, che non potrebbe essere reintrodotto nel testo senza sconvolgerne il senso. In una situazione simile, ci son volte in cui si sente sùbito quali parole italiane intendeva rendere quando coniava ardite parole composte latine (le «succiflua labia» sono le labbra succhiose che dice sempre in italiano); altre volte si resta in dubbio: che voleva dire? come son da leggere quelle parole da puzzle perché diano senso?
Quando l'interprete è nelle pene, il lettore gli indulga; e non gli dispiaccia d'aver accostato, se prima ne aveva avuto scarsa occasione, il Bruno latino, che è più assai dei due terzi di quel che possediamo di lui: né la sua figura di fastidito, «in tristitia hilaris, in hilaritate tristis», assumerebbe, dinanzi al lettore, lo stesso rilievo, se fosse da ricavare solo dai, pur bellissimi, Dialoghi italiani.
Quei lettori che desiderino esser guidati più da vicino nella lettura della scelta di opere bruniane contenuta nel presente volume, gradiranno forse indicazioni più particolareggiate sui singoli scritti del Bruno.
Nel decennio abbondante che passò nei conventi domenicani di Napoli e dintorni, il Bruno lesse di tutto, e si formò quella cultura strana e immensa: cultura, forse, da uomo del Quattrocento, piuttosto che da uomo del tardo Cinquecento. Cominciò anche a scrivere? Non è dato affermarlo, ma non c'è motivo d'escluderlo. Certo scrisse durante i viaggi attraverso l'Italia settentrionale, e un libretto - perduto - stampò a Venezia. Ma la prima esplosione della sua attività di scrittore è parigina: sono del 1582 il Candelaio e un gruppo di scritti latini, il De umbris idearum e il Cantus circaeus, proseguiti più tardi in altre scritture.
Il Candelaio è opera nota, di cui è generalmente ammessa l'importanza, e studiata l'originale fisionomia, molto oltre la cerchia ristretta degli intenditori di filosofia. Commedia, anzitutto, urnanistica, perché la figura del pedante che parla latino è al centro della beffa implacabile che ne fa la gente che lo circonda: gente dai sensi gagliardi, immersa nella vita, a tutto scorno dell'uomo perduto nel vagheggiamento di squisitezze imparate sui libri. Poi commedia di caratteri, perché lo studio dei personaggi delinea tipi che il teatro, anzitutto francese, non dimenticherà. Ma non son tipi che abbiano avuto tempo di diventar convenzionali: qui l'osservazione della gente viva ha messo capo a figure che, quando diventano personaggi da teatro, non cessano d'essere persone vive della società a cui appartengono. Giacché proprio la società della Napoli cinquecentesca è studiata con una freschezza di sguardo, che si ritroverà poi in certe scene di vita spicciola delle famiglie di Nola richiamate nello Spaccio de la bestia trionfante. In quella società, gli eterni sentimenti dell'uomo e, fra tutti, l'amore. C'è nel Candelaio un erotismo irruente: ma chi avesse l'impressione, lungo molte scene della commedia, che l'impeto bestiale del Candelaio trovi la sanzione dovuta a tanta bestialità, e tutto si rassereni nella sanità di impulsi accesi ma innocenti, dovrebbe poi mutare la propria interpretazione quando Carubina, la correttrice di quella bestialità, cede a sua volta all'amore del pittore: e non gli cede solo per debolezza o perché s'invaghisca di lui, ma perché le sue esitazioni e scrupoli religiosi e morali sono dal pittore gettati, pur a mezza voce, nel niente, e Carubina si persuade che non hanno ragion d'essere e non contrasta più alla vittoria d'amore su tutti, anche su chi era prima sensibile a pudore e onore. Così la bestialità del Candelaio esce dalla commedia riprovata perché eccessiva, non perché evasione dal talamo: come si legge poi nello Spaccio che la moderazione è da pregiare, pur mentre l'astinenza è derisa e condannata, e che, in nome d'una fecondità universale da raccomandare e da promuovere, una poligamia, o addirittura pangamia universale, sarebbe giustificabile: tanto i limiti d'un amore raccolto nel definito àmbito d'una famiglia non dicono nulla al frate assetato, ai cui occhi si giustifica la propagazione intensa della specie umana, più assai che non il raccoglimento e l'ethos d'una vita familiare.
Contemporanei del Candelaio, gli scritti latini del 1582, da una parte trattano di mnemotecnica, dall'altra espongono la concezione propriamente bruniana della realtà in uno stile sovrabbondante e sovraccarico, che offrirebbe molto interesse a uno storico dello stile e della prosa latina, ma poco, forse, a lettori non dediti particolarmente a tali studi. Interesse universale, e universalmente riconosciuto, destano invece le opere italiane, sorte dalla seconda esplosione del genio bruniano: quella londinese del 1583-4. È notissimo il disegno delle due trilogie di dialoghi: la prima, trilogia vera; la seconda, artificiosa, perché comprendente scritti di concezione e fattura disparate. La prima trilogia include la Cena de le ceneri, il De la causa, principio e uno e il De l'infinito, universo e mondi: dialoghi di interesse letterario assai diverso, perché il De l'infinito, universo e mondi - una delle opere di maggior impegno e maggior serietà dell'intera produzione bruniana - è un trattato di filosofia in forma dialogica; il De la causa è ancora un mimo filosofico letterariamente vivace e qua e là felicissimo; ma la Cena è una commedia filosofica, dove non poche sono le pagine che s'appesantiscono in esposizioni dottrinali, sùbito riscattate, peraltro, dal ritorno di una verve frizzante e coloritissima. Il De la causa è, da oltre trent'anni, ritornato a far parte delle letture comuni; ma anche la Cena si riproduce per intero nel presente volume, perché potrebbe andar su le scene e interessare e divertire ogni specie di pubblico, tanto è fresca e, insieme, sapida.
Dopo la Cena de le ceneri, l'opera che immediatamente la segue, il De la causa, principio e uno, per un verso ne è addirittura la continuazione, per un altro piega in direzione d'una ricerca differente.
È il seguito della Cena, non solo per il primo dialogo, che alla Cena direttamente si riferisce nel tentativo di spiegare e, se possibile, giustificare il precedente scritto, che tanto rumore aveva suscitato nell'ambiente londinese, spietatamente ritratto nei suoi difetti; ma soprattutto perché la vena del mimo filosofico è nel nuovo scritto ancora abbondante, spontanea e felice, e ancora certe figure e certe situazioni, come il contrasto tra il pedante e chi lo deride, prolungano temi caratteristici della commedia (e si son visti nel Candelaio).
La ricerca piega, invece, in direzione differente, perché, in attesa che il De l'infinito, universo e mondi riprenda allarghi e sistemi la cosmologia della Cena (con l'astronomia che le è connessa), il De la causa approfondisce e mette in luce la metafisica che il Bruno pone alla base della sua cosmologia. È la famosa dimostrazione che forma e materia, quindi anima e corpo, spiritualità e materialità, sono inscindibili: è, insomma, la dottrina che conoscono del Bruno anche coloro che non ne sanno molto altro, ed è il nucleo teorico illustrato anche in opere non dedicate particolarmente alla filosofìa, come, più alta di tutte, la Storia della letteratura italiana del De Sanctis, con le sue mirabili pagine sul Bruno, e massime su la metafisica del De la causa.
Del resto, s'intende come, davanti agli occhi dei lettori, il De la causa abbia finito per emergere, solo o quasi solo, dal complesso delle opere bruniane: perché, se la cosmologia bruniana ha molto d'una visione entusiastica, attraentissima, ma ingiustificabile, la metafisica lavora sui grandi concetti, centrali in ogni filosofia, dei quali propone un assetto così importante, che nessuno può confutarlo e respingerlo se prima non ha riconosciuto il germe vitale che pur contiene. Così il De la causa è la lettura bruniana più familiare a ogni sorta di lettori: i quali potranno gradire di trovarlo riprodotto per intero nel presente volume.
A chiusura della trilogia dei Dialoghi che il Gentile chiamò «metafisici» per distinguerli dai «morali», il Bruno pone il De l'infinito, lo scritto suo, fra gli italiani, più serio, più meditato, più sistematico, più criticamente fondato con una confutazione impegnatissima degli opposti argomenti d'Aristotele in favore d'un universo finito e meccanico. Quando il Bruno vorrà tentare di nuovo un'esposizione totale e fondamentale del suo pensiero nel terzo dei poemi latini, il De immenso. egli comincerà col tradurre alcune pagine del De l'infinito: poi il disegno gli si allargherà, e i progressi frattanto intervenuti dell'astronomia lo attireranno in discussioni nuove: ma la rispondenza fra il massimo dialogo dottrinale italiano e il massimo poema latino rimane. Onde è molto utile che il lettore prenda conoscenza, anche se rapida, di questo grande sforzo sistematico compiuto dal Bruno, almeno nelle pagine meglio atte a dar nette le linee della sua concezione cosmologica.
La seconda trilogia di Dialoghi italiani è - dicevamo - artificiosa, perché ciascuna delle tre opere ha carattere diverso. La prima e la terza sono molto lunghe; la seconda è costituita da due brevi schizzi, o piuttosto scherzi.
Viene anzitutto il celebre Spaccio de la bestia trionfante. dove Sofia racconta a Saulino - la madre del Bruno aveva questo cognome Savolino - il gran mutamento che avviene in cielo: gli dèi sono invecchiati e, su proposta di Giove che li raduna a consiglio, vogliono fare gran pentimento e riforma della loro condotta; anche esteriormente vogliono cancellare i segni dei loro trascorsi, che sono tutte quelle bestie - l'Orsa, il Capricorno, l'Aquila ecc. - messe in cielo a ricordo di tante imprese di gioventù: sia dato «spaccio» a codeste bestie, e messe al loro posto in cielo la Verità, la Giustizia e tutte le virtù. Saulino ascolta, punteggiando di rapide osservazioni quel che ode; chi parla è Sofia, personificazione della sapienza terrestre; per breve tratto parla Mercurio, messaggero celeste a Sofia. Sofia e Mercurio raccontano quel che sta avvenendo in cielo: descrivono gli dèi, riferiscono le loro parole: così parlano del cielo dalla terra, e l'esperienza terrena accompagna il racconto celeste, sicché l'una fa da sfondo all'altro. La descrizione del concilio degli dèi è una commedia mitologica a volte saporosissima; gli squarci di vita vissuta aggiungono un altro e diverso pimento alle pagine; la rassegna dei vizi, di cui bisogna far penitenza e cancellare il segno dal cielo, e la considerazione delle virtù da esaltare al loro posto, forniscono occasione a una larghissima dipintura della vita umana, dove il «moralista» - nel senso che questa parola assumerà, di conoscitore dei costumi e loro analizzatore - e l'autore di commedie di caratteri quale il Candelaio lavorano insieme. L'umore bizzarro e paradossale, l'ingegno vivacissimo, lo sguardo pronto del Bruno fanno prodigi d'osservazione e di descrizione; ma a niente quanto alla vis comica nuocciono la prolissità e la monotonia. Giacché i vizi sono sì diversi l'uno dall'altro, ma son sempre vizi; e così le virtù; e l'esperienza della vita umana, per quanto larga, dà pur sempre lo stesso tono; e la satira degli dèi invecchiati e presi da pentimento, anche: la «situazione» rimane statica, il tema uno solo, e i «sali» riescono bensì a suggerire una moltitudine di significati che non sempre hanno davvero, ma l'interesse, in una così lunga lettura, spesso ristagna.
Dopo lo Spaccio, la Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico: celebre satira della semplicità umana, considerata da tutta una letteratura, diffusissima nell'ambiente umanistico cinquecentesco. La semplicità - tanto più aperta all'ispirazione divina, quanto meno ardita di aspirare a un valore proprio dell'uomo - è tenuta dal Bruno per «stoltizia ed asinitade», ed egli ne distingue i modi.
Gli Eroici furori sono un'opera molto vasta, fatta di versi (del Bruno e d'altri) e di larghi commenti in prosa. La simmetria esteriore è che cinque dialoghi conti la prima parte e cinque la seconda; ma i nuclei intorno a cui l'opera si raccoglie sfuggono a tale simmetria. Vengono anzitutto i sonetti dell'eroico amore, che è l'amore intellettuale per il divino oggetto della mente. Un lunghissimo sviluppo (tre dialoghi interi) è poi dedicato all'illustrazione delle insegne recate dai vari «furiosi». Essi portano scudi e cimieri, con scritte dichiarative latine brevissime e, accanto, tabelle con sonetti italiani. Alla lunghissima illustrazione delle «imprese», segue un breve «Contrasto degli occhi e del core». Gli Eroici furori si chiudono con una «Cecarìa», che occupa gli ultimi due dialoghi e si ispira alla tragicommedia di Marco Antonio Epicuro, Dialogo dì tre ciechi. Qui i ciechi sono nove e dicono, ciascuno in un sonetto, la cagione della propria cecità. Infine essi potranno riacquistare la vista.
Ritornato in Francia, il Bruno si preoccupò di dimostrare che la sua conoscenza d'Aristotele era più estesa e più profonda di quella dei ripetitori e difensori di Aristotele ad ogni costo, e pubblicò una seria e organica esposizione della fisica aristotelica, la Figuratio Aristotelici Physici Auditus. Opera espositiva, non critica, essa fu seguita da una critica a fondo, formulata in Centurn et viginti articuli de Natura et Mundo adversus Peripateticos pubblicati perché servissero di base a una pubblica disputa, che difatti si tenne a Parigi il 28 e 29 maggio 1586. Ma l'esito fu per il Bruno così disastroso che egli lasciò Parigi e la Francia, passando in Germania, a Wittenberg.
Wittenberg era un po' la capitale, un po' la città santa del luteranesimo: il Bruno andò a vederla coi suoi occhi, e a vedere quali possibilità ci fossero per lui. A Wittenberg, dunque, egli ritrovò un protestante italiano illustre: «uno dottore» come poi disse nei Costituti veneti «che si chiamava Alberigo Gentile marchegiano, il qual» aveva «conosciuto in Inghilterra professor di legge, che» lo «favorì e» lo «introdusse a legger una lezione dell'Organo di Aristotile; la qual» lesse «con altre lezioni di filosofia dui anni». I corsi che fece sono stampati: e poiché rientrano nel piano d'una vastissima e, nell'intenzione, completa enciclopedia delle scienze (le sette arti, come si diceva allora), si è parlato da alcuni studiosi di un Bruno essoterico, che espone egregiamente il sapere generalmente accettato, diverso dal Bruno esoterico, che dice a chiare note il proprio pensiero, traendo eccitamento dalla stessa sua opposizione alla filosofìa corrente o, com'egli diceva, «volgare». Senonché, di questa distinzione di un Bruno essoterico da un Bruno esoterico c'è di vero solo il forte interesse del Bruno per l'elaborazione di un sistema completo delle sette arti, e un vigoroso impegno di comprender a fondo il sapere recato dalla tradizione, senza turbare la comprensione con le proprie riserve o dissensi, anzi mettendosi dal punto di vista altrui in buona fede e con tal vigore d'intelligenza da poter poi giustificare a sé e ai lettori la critica scaturente dall'interno dello stesso sapere tradizionale, e la dottrina nuova elaborata a soddisfazione di quella critica.
In realtà, il Bruno, di solito, anche alle «arti» dava, se non altro, una «veste» sua originale, e spesso era non solo una veste, ma una maniera di trattazione tutta sua. Per esempio, dell'Organo aristotelico avendo scelto la Topica, la espose in forma di caccia, dove il cacciatore può essere un teologo, un filosofo, un avvocato, i cani sono il levriere dell'induzione e il molosso del sillogismo, e la fiera è il problema, e tutta l'operetta porta il titolo De progressu et lampade venatoria logica. Poi il Bruno espose la Retorica, e chiamò l'esposizione Artificium perorandi. In queste esposizioni l'interesse per la combinazione dei concetti, cioè l'interesse lulliano, costante nel Bruno dai primissimi fino agli ultimi suoi scritti, accompagna e spesso soverchia l'interesse per la materia esposta: così anche nel De lampade combinatoria lulliana, alla quale il Bruno premise una lettera al Rettore e al Senato dell'Accademia della città, donde si ricava gran luce sia su la posizione del Bruno nella città e nell'università di Wittenberg, sia sull'animo suo a loro riguardo.
Parecchie pagine della lettera sono spese a manifestare gratitudine per essere stato accolto - lui ignoto, sfuggito ai tumulti di Francia, non appoggiato da raccomandazioni di principi, non insignito d'esterni ornamenti - senz'esser interrogato sul dogma della religione professata nella città, ma solo per il suo spirito di generale filantropia e per la sua professione filosofica. Né gli fu concesso di far lezione solo privatamente, o in cerchie ristrette; bensì conobbe veramente l'università, come conviene alla germanica Atene. E quando, trasportato da troppo forte amore delle sue idee (secondo il costume dell'indole sua), fece, in quelle lezioni pubbliche, dichiarazioni atte a convellere la filosofìa ricevuta da molti secoli e quasi in tutta la terra, il Senato dell'Accademia, non proponendosi soprattutto di filosofare, anzi accettando solo quella specie di fìsica e di matematica che suol essere congiunta con la teologia e più appare favorevole alla pietà e cristiana semplicità, e non volendo che i giovani troppo indugiassero negli atrii della filosofia prima d'entrare nel tempio della teologia, tuttavia non storse il naso (al modo di certi altri luoghi), non acuì le zanne, non gonfiò la bocca, non incitò contro il professore ospite il furore scolastico: si limitò, conservando illibata la libertà filosofica e non macchiando il candore dell'ospitalità, a fargli fare lezioni private anziché pubbliche, sì che potesse ancora respingere le ingiurie della povertà. Il Bruno sa bene che l'interesse per l'arte combinatoria lulliana non è partecipato dai professori wittenberghesi, che sono la più parte umanisti innamorati della forma: ma proprio questa opposizione di gusti lo eccita (al solito) a dedicare il suo scritto lulliano a quei maestri, largamente lodati e ritratti e descritti con evidenza maliziosissima, ma anche richiamati a quel lullismo che per il Bruno era (ahimè) la chiave dell'intero sapere.
Quand'ebbe deciso di partire da Wittenberg - e già la fervida fantasia l'incitava ad andar a conoscere da vicino l'ambiente della corte dell'imperatore Rodolfo II a Praga, dove gli scienziati erano benignamente accolti- il Bruno «intimò la valedizione», cioè stabilì un giorno e un'ora per tenere il discorso d'addio, la lezione di commiato ai giovani studenti dell'università. Intervenne invece l'intero corpo accademico, e il saluto riuscì solenne.
L'Oratio valedictoria fu carissima agli studiosi affezionati del Bruno: Francesco Fiorentino cominciò con essa l'edizione nazionale delle opere latine del Nolano: ed è infatti opera singolare, dove tutto Bruno è presente, sicché essa ha, per un verso, un'individualità stilistica tutta propria, che ne ha consigliato la riproduzione integrale nel presente volume, mentre per un altro verso è una composizione dove tutti i temi bruniani ritornano con assoluta spontaneità, una specie di «Viaggio di Siegfried sul Reno» rispetto alla tetralogia wagneriana.
Sia pure solo come pretesto introduttivo, una favola mitologica - Paride che ha da scegliere fra le tre dee - riproduce le movenze da commedia mitologica che il lettore conosce dallo Spaccio: e c'è sempre Bruno che, mentre descrive la scena immaginata, implicitamente la commenta ridendo. Ma lui Bruno non ha scelto Venere: ha scelto Minerva, la sapienza: e anche questo della sapienza, di Sofia, è tema dello Spaccio, dalla prima pagina all'ultima. L'amore per la sapienza è amore eroico, eroico furore: e tornano le immagini di chi per questo eroico amore ha affrontato ogni durezza nella vita e tutto è pronto a sacrificargli. La sapienza poi è triplice: qual è in se stessa; quale riluce nella natura; quale riaffiora nella mente dell'uomo: e questa triplicità è, si può dire, l'intavolatura stessa del pensiero bruniano, da che egli ne ha uno. L'uomo non può accedere alla Luce: egli è posto in un'ombra di luce: come Bruno ha detto fin dalle primissime opere parigine e come dirà immutatamente sempre. Le meraviglie dell'universo sensibile sono per il Bruno anzitutto le meraviglie dei mondi infiniti: la visione che tanto lo commuove ed esalta. Ma ora c'è per l'Europa tutto un fervore di ricerche astronomiche nuove: il Bruno ne è informato: andrà a vedere, partendo per Praga.
Lo scritto, presentando via via figure mitologiche e illustrandole, riprende l'andatura da opus prolixum propria dei dialoghi dedicati alle «imprese» negli Eroici furori. D'altra parte, esso riesce simile a un'altra scrittura certamente cominciata nel periodo wittenberghese, la Lampas triginta staiuarum, e a quella che sarà l'ultima opera pubblicata dal Bruno prima del ritorno in Italia, il De imaginum compositione, o - com'egli stesso lo chiama - Liber imaginum, dove le figure degli dèi son presentate e illustrate con un sorriso, al solito, saporosissimo.
La ripresa di tutti i temi bruniani è anche una ripresa, perfettamente spontanea, quindi perfettamente fusa, di tutti gli stili bruniani. Il ricchissimo sovraccarico fogliame dei primi scritti latini riappare; ma gradatamente, attraverso le pagine stesse dell'Orazione, si viene via via alleggerendo e come aerando. Come nelle opere italiane, soprattutto Spaccio ed Eroici furori. anche qui, la mitologia non è ricondotta ai suoi significati perennemente umani, senza che spontaneamente le si intrecci la poesia altissima d'un altro mondo di civiltà, dal fascino acuto insieme e opulento, prettamente orientale: i Salmi, e massime il Cantico dei cantici; i libri sapienzali; Giobbe. Chi ha visto la poesia degli Eroici furori toccare il più alto punto della sua spiritualità quando al platonismo della sua ispirazione s'è naturalmente congiunto il biblicismo del «passero solitario»; chi sa quel che è fluito di freschezza e di profondità nella coscienza occidentale quando essa ha lasciato cantare in sé la poesia della Bibbia: può cogliere il sapore nuovo di questo classicismo che s'è aperto all'Oriente e se n'è lasciato vivificare.
Partito per Praga con grandi idee e grandi speranze, il Bruno non dovè trovare alla corte dell'imperatore Rodolfo II l'accoglienza che se n'aspettava; né a porlo in buona luce presso gli scienziati della città potè aiutarlo il genere di lavoro che egli presentò: una Geometria completa, ma breve - una sessantina di pagine, seguite da una quarantina di figure -, di intonazione fortemente polemica contro la matematica del tempo.
Questa matematica bruniana è stata giudicata anche più severamente della sua fisica e della sua cosmologia: e difatti, avversissima, da una parte, alla trigonometria, dall'altra al movimento che poi condusse al calcolo infinitesimale, essa urtava i matematici del tempo e urta gli storici della matematica e, in genere, delle scienze, i quali non possono trovare nulla di interessante in «fantasie matematiche» che non ebbero né chi le proseguisse né chi si curasse di confutarle, tanto apparivano gratuite e arbitrarie. Del resto, se il punto di partenza era la matematica cusaniana, la ripresa che ne faceva il Bruno era ancora più oscura, e riusciva assai meno tollerabile dopo lo sviluppo matematico cinquecentesco. Eppure è proprio la spregiata matematica bruniana quella che sta a base del De triplici minimo et mensura, che è il primo dei poemi francofortesi e il fondamento di tutto quell'edificio dottrinale: sicché il lettore, dovendo decidersi o per una miglior considerazione della Geometria bruniana, in omaggio ai poemi francofortesi che la presuppongono e la ripetono, o per un'attenuazione degli entusiasmi per i poemi, vista la forte discutibilità del loro fondamento matematico, si comporterà ragionevolmente se si guarderà dagli entusiasmi e, d'altra parte, se baderà, nella Geometria, non tanto a quello che il Bruno dice, quanto alla ragione per cui lo dice, che è la sua concezione che si potrebbe dire biologica e organica della realtà.
Da Praga il Bruno passò a Helmstàdt, dove rimase poco, ma lavorando intensissimamente, sicché l'anno di Helmstàdt è uno dei più fecondi per gli scritti che il Bruno condusse o a termine o a buon punto. A Helmstàdt c'era una fiorente accademia, che il suo fondatore, il duca Giulio di Brunswick, luteranizzatore del paese, aveva chiamato, dal proprio nome, Accademia Giulia. Il Bruno era da poco nella città quando il duca Giulio venne a morte e gli furono fatte esequie grandiose. Ci fu chi consigliò al Bruno di prendere anche lui la parola: era il modo di farsi meglio gradire da tutti, e massime dal nuovo duca, Enrico Giulio. Quanta parte ebbe nel discorso l'improvvisazione, quanta una preparazione molto sommaria, e quanta una qualche revisione, anche assai affrettata, prima della stampa, non si saprebbe dire. Certo l’Oratio consolatoria è un esempio - meritevole d'essere largamente conosciuto - di come scriveva o parlava il Bruno quando faceva presto e si trattava d'arrivare a un fine, e tutto stava a cavarsi d'impaccio il meglio possibile. Giacché d'uno scrittore così importante e la cui figura ha tanto influito su la storia italiana non fosse che degli ultimi centocinquant'anni, giova conoscere non solo a quali altezze si levava nelle ore di grandezza, ma anche come si comportava nei momenti o usuali o meno felici. In questo discorso, che mira a uno scopo ben determinato, il Bruno presenta stati d'animo, argomenti, valutazioni in forma estremamente semplificata: donde una facilità voluta, quindi una genericità evidente, in tutto quel che dice. Il morto duca Giulio? Aveva tutte le virtù, quante ne reca il catalogo comune. Di personale, il merito d'aver luteranizzato il ducato. E anche la religione riformata - lodata in blocco, tutta quanta -, la cattolica vituperata parimenti in blocco, con le accuse tipiche che dalla letteratura dei riformatori erano passate, tali quali, già nella Oratio valedictoria. E come nella contrapposizione di luteranesimo e cattolicesimo son adoperati due soli colori, bianco e nero, così è semplificata la coloritura delle altre figure o istituzioni o ceti. Il nuovo duca? Anche a lui è attribuito, in blocco, l'intero catalogo delle virtù. Con due particolari biografici, tuttavia: il non inebriarsi alle grandi cacce, ma esser tutto scuola e chiesa; e l'aver disputato valentemente nell'Accademia su questioni di diritto. Estremamente semplificata è anche la presentazione che il Bruno fa di sé: è ispido, incolto, rude; patì molte traversie, e tutte per la malvagità del cattolicesimo; non desidera né chiede se non di rimanere nascosto; ma ora è stato accolto liberalmente e benignamente, lui che non può paragonarsi se non a un Fauno o altro dio boschereccio, mentre tutti a Helmstàdt sono piuttosto da assomigliare a divinità superiori. Il duca Giulio, come il Dafni dell'Egloga, ricevuti gli omaggi migliori, non deve spregiare i più rozzi. Né questo è il solo ricordo mitologico: il Bruno snocciola di nuovo l'elenco delle divinità maggiori e minori, coi loro significati: come ha già fatto, si può dire, in tutti gli scritti precedenti, e farà ancora nei successivi. E tutte queste figure divine son presentate come scolpite o dipinte, sì da dar luogo all'interpretazione delle immagini offerte: come, appunto, il Bruno ha già fatto e farà molte volte. Né manca il solito elenco delle costellazioni, quelle che indicano virtù e quelle che indicano vizi. Tutto ciò, come molte volte è stato dal Bruno detto e ripetuto in altre occasioni, così è diventato per lui un motivo molto facile per alimentare il discorso. Qui la disinvoltura è tanta, che provoca altrettanta disinvoltura e «facilità» stilistica. Grandi periodi a regola d'arte retorica, d'una musica che è la solita del ciceronianismo a buon mercato; ma anche periodi che non tornano, frasi troppo lunghe, che restano tronche o sospese: e giunte e riprese maldestre, sicché gli epiteti che rivolge a se stesso di «crassissimo» scrittore non sono sempre un semplice vezzo d'umiltà letteraria. Tutto semplificato: tra l'altro, l'adesione al cristianesimo riformato. Il Bruno parla per pagine e pagine da buon cristiano: l'immortalità di cui parla a proposito del duca defunto è l'immortalità cristiana, per cui il principe, dal cielo, guarda e sorveglia l'andamento terreno del suo ducato e di quell'altra sua figlia che è Giulia, l'Accademia: non è l'immortalità bruniana, che è semplice non annichilamento perché trasformazione in nuovi esseri. Neppure un accenno a una riserva, a un'interpretazione ardita e personale: il Bruno «fa» il buon cristiano riformato, il buon suddito del nuovo duca, il buon ammiratore dell'Accademia. Che il Bruno, quando lo riteneva opportuno, si semplificasse così, è cosa che permette al lettore di conoscere anche il limite inferiore che egli a volte toccava: e che limite fosse, si comprende meglio se si fa attenzione alla notizia, che il Bruno, così buon riformato il 1 luglio '89, già nello stesso anno era scomunicato dal pastore maggiore di Helmstàdt: tante complicazioni e complessità di pensiero e d'atteggiamento erano in lui, nel suo profondo, mentre egli, alla superficie, si presentava da sé così semplice, o bianco o nero, senza gradazioni né sfumature né passaggi.
L'anno di Helmstàdt fu - dicevamo - fecondissimo: non si può ascrivere che ad esso l'ultima mano - che per larghi tratti potè anche essere, precipitosissimamente, la prima - dei poemi che nel luglio del '90 il Bruno cominciò a stampare a Francoforte. E a Helmstàdt il Bruno dettò gran parte degli scritti magici, rimasti lungamente inediti. Ora gli scritti magici sono tutt'altro che marginali nell'opera e nel pensiero del Bruno: chi preferisse sorvolare su di essi si troverebbe poi molto imbarazzato a spiegare non solo un poema come il De monade, che pur tramezza tra il De minimo e l'estesissimo De immenso. ma addirittura il celebre monismo naturale bruniano. Senonché, quanto la magia è importante per comprendere che cosa veramente intendeva il Bruno col suo monismo e dinamismo e psichismo universale, tanto gli scritti propriamente magici sono, letterariamente, poco più che abbozzi o appunti. Nel presente volume, dovrà bastar questo cenno.
Preme, invece, arrivare a quella che, nella vita del Bruno, fu la seconda delle sue massime fatiche: e c'è chi, quanto a precisione di pensiero e a una più ponderata presa di posizione rispetto alla scienza contemporanea, preferisce di molto i poemi francofortesi ai dialoghi londinesi. Del resto, la fortuna rispettiva delle opere italiane da una parte e, dall'altra, di quelle latine, tra cui campeggiano o addirittura torreggiano i tre poemi, è stata varia. Ma che il Bruno intendesse propriamente riscrivere e ripresentare il suo sistema, oltre che in «lingua universale», come allora si chiamava giustamente il latino, anche in una forma sistematica più rigorosa e in un'elaborazione portata, almeno nell'intenzione e secondo la misura delle capacità, a uno stadio più avanzato, è evidente da tutto. Manifesto ed esplicito è il programma di sostituire alla trilogia, fondamentale, dei dialoghi metafisici, come li chiamò il Gentile, o fisici come disse il Troilo - i dialoghi, in larghissimo senso, morali sono a parte: il sistema è quello metafisico, o fisico, insomma il ciclo Cena, De la causa, De l'infinito - una nuova trilogia, ancora più fondamentale, che si rivolgesse, nella lingua dotta di tutti, all'intero mondo colto, con un'esposizione che traesse il più alto carattere di nobiltà dal rifarsi direttamente alla tradizione dei grandi poemi di pensiero dell'antichità, e massime da Lucrezio, e intanto provvedesse, nel più sciolto stile delle abbondanti prose intercalate ai capitoli in versi, non soltanto al commento e alla dilucidazione, ma anche alla fondazione e giustificazione critica delle affermazioni fatte nei versi.
Lasciamo dunque da parte la domanda se più contino e più valgano i Dialoghi italiani o i poemi latini, paragone difficile a condurre a una decisione precisa in cui non influiscano simpatie e tendenze personali del critico. Noi saremmo, in verità, per i Dialoghi italiani, perché la frammentarietà, e certa pesantezza e fretta e genericità di molti degli squarci poetici non ci sembra compensata dallo sforzo critico, meritorio sempre e in molti casi particolari notevole, ma incapace di fare di una mente da veggente entusiasta un intelletto scientifico, quale a noi piacerebbe trovare nel Bruno, mentre egli credeva, in buonissima fede, d'essere già tale quando, come meglio poteva e sapeva, prendeva in esame le altrui dottrine, cercando il più possibile di confutarle con argomenti pertinenti, in luogo di sollevarle e rimuoverle con le sue incontenibili saillies d'humeur. A parte, tuttavia, il paragone, i tre poemi costituiscono un'opera imponente, prima che come mole e come voluta compattezza, per l'ambizione mentale di presentare la verità filosofica, quale il Bruno profondamente credeva essere la sua, in un documento e monumento di impegno totale per il suo autore. Del resto, il Bruno aveva sempre sentito la propria missione come quella di un vate destinato ad aprire con una «grande chiave» la porta della occulta e profonda realtà; egli si pensava inviato a dar fine alla notte e principio al giorno della vera filosofia; si presentava annunziatore d'una suprema e totale sapienza, «la nolana filosofia»: ora egli cantava nel metro e (almeno nell'intenzione) nello stile di Lucrezio la «verità» che «sentiva» di portare nell'animo fin dalla agitata e, come a lui sembrava, ispirata giovinezza.
I poemi sono tre, e molto diversi tra loro, nonostante lo sforzo bruniano di presentarli in una trilogia che apparisca compatta. Il De minimo è, si direbbe, il più vigilato, il meglio padroneggiato del suo autore. Di misura abbastanza giusta, può evitare di abbandonarsi al «vien come viene» caratteristico delle composizioni che, perduto ogni freno e ogni limite, si dicevano giustamente «prolisse». Ma le tricotomie della misura, pur in una prosa lucidissima, diventano, a furia di sottigliezze, progressivamente fragili. La misura è triplice: «sopra e avanti la cosa, in e con la cosa, dopo e fuori la cosa. La misura sopra la cosa è triplice: l'uno, la mente, l'idea. La misura nella cosa è triplice: grandezza, peso, momento. Triplice la grandezza: di una, due e tre dimensioni. Triplice il peso: fuori del luogo, al luogo, nel luogo o circa il luogo. Triplice il momento: della sostanza, della qualità, del rapporto; cioè dell'assoluto, del concreto e del relativo...». Pure, il poema del triplice minimo-matematico, che sarebbe il punto inesteso; fisico, che sarebbe il punto esteso, l'indivisibile; metafisico, cioè la monade, intesa come spirito universale, non distinto da Dio stesso - con la sua ardita matematica, d'origine cusaniana, ma andata molto, non so se avanti o addietro al modello quattrocentesco, s'è acquistato la considerazione di critici pur severi come il Tocco, ma non ha destato un interesse pari al De immenso.
Il De monade è tutt'altra cosa. Relativamente molto breve, esso s'avventura impavido nel tentativo di partire dai numeri da uno a dieci - monade, diade, triade ecc. - per arrivare alle figure loro proprie - dìgono, trìgono (cioè triangolo), tetragono (cioè quadrilatero) ecc. - facendo molta attenzione alle figure naturali, esprimenti virtù e proprietà delle cose esistenti. Il poema non trovò grazia presso il Tocco, offeso, credo, da quel voler fare scienza senza curarsi che altri, già a quel tempo, avesse della scienza ben altra consapevolezza e sapesse frenarsi e autocriticamente studiarsi di riuscir rigoroso. Eppure il Bruno non sarebbe lui se non calasse la matematica dentro la fisica, questa intendendo come una somma di poteri e forze di tutt'altro tipo che meccanico. Una matematica afisica e una fisica schiettamente meccanicistica sono proprio ciò che il Bruno deliberatamente combatte; ma sono la parola dei tempi «moderni», che appunto cominciavano allora: donde quello stridore e incompatibilità tra la scientificità rigorosa dei tempi moderni da una parte, e il canto da veggente ispirato del Bruno, dall'altra. Che il culto del Bruno, nell'Ottocento e dopo, abbia scivolato volontariamente su l'incompatibilità, anzi si sia spericolato fino ad asserire, con una buona volontà e un fervore pari alla fantasia, avere il Bruno «precorso» la scienza moderna, ciò né può far meraviglia, essendo molto Ottocento romantico non meno «veggente ispirato» che il Bruno; né deve suscitare sdegno, perché il Bruno, se non «precorse», anzi combatté deliberatamente quelle tendenze schiettamente «moderne» che sono il sopracostruire la matematica indipendentemente da ogni fisica, e il costruire una fisica tutta matematica perché radicalmente meccanica, davvero «precorse» e incoraggiò quanto nei secoli fra lui e noi si levò contro astrattismo matematico e meccanicismo puro in fisica, cioè diede animo, pur temerariamente, al tentativo di riscossa romantica contro la scienza sei-settecentesca. Dipende dall'apprezzamento che si fa di quel tentativo di riscossa e di ogni altro tentativo più o meno simile - e anzitutto, s'intende, dalla valutazione che si dà della scienza sei-settecentesca e della sua prosecuzione e sistemazione ottocentesca - l'atteggiamento del lettore verso il Bruno, così assorto a sognare quattrocentesche armonie universali di cristianesimo e gentilesimo, di spiritualismo e materialismo, di umanesimo e scienza, in piena fine del Cinquecento, tempo d'antitesi crude tra soprannatura e natura, tra spirito e materia, tra «forma» e «verità scientifica».
Dopo il De monade, il De immenso si presenta con una tale vastità, da potersi anche intendere come un'esposizione di tutto il brunianismo, dove anche gli atteggiamenti stilistici, molto vari, sono interessanti.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Quando la biografia è quella del Bruno, non è possibile né informarne il lettore con pochi cenni di fatto - perché tutto dipende dal «significato» di quei fatti - né pretendere di dirne qualcosa di meno esteriore in qualche notazione non preparata, nell'intelligenza del lettore, da una sufficiente conoscenza degli avvenimenti. Il meglio è ancora rinviare alle opere, maggiori e minori, di biografia bruniana. Ricchissima è la Vita di Giordano Bruno di Vincenzo Spampanato, Messina, Principato, 1921. I documenti, che di quell'insigne volume occupavano le pp. 599-845, furono poi stampati a parte: Vincenzo Spampanato, Documenti della vita di G. Bruno, Firenze, Olschki, 1923. L'interpretazione della tragedia bruniana dalle carceri venete del Santo Uffìzio a quelle romane, fino al rogo del 17 febbraio 1600, fu variamente discussa da Felice Tocco in una sua celebre conferenza del 1886; da Giovanni Gentile in scritti raccolti poi nel volume Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze, Vallecchi, 1920; da Erminio Troilo, Giordano Bruno, profilo (da ultimo, Milano, Bietti, 1940); da chi scrive, nel volume I Dialoghi del Bruno (Torino, «L'Erma», 1932; ora presso la Libreria Gheroni, Torino: specialmente «Conclusione», pp. 173-90); nella Nota bio-bibliografica apposta all'edizione commentata dal De la causa. Firenze, Sansoni, i955z: specialmente pp. xv- xliii), nota riprodotta poi col titolo Vita e fortuna del Bruno nel volume Concetto e saggi di storia della filosofia, Firenze, Le Monnier, 1940, e nelle pagine premesse all'antologia bruniana (delle sole opere italiane) nella collezione «I filosofi» dell'editore Garzanti (Milano 1941); e da Luigi Firpo in un articolo, Processo di G. Bruno, in «Rivista storica italiana», lx, 1948, e poi nel volume Scritti scelti di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, Torino, U. T. E. T., 1949.
Comunque, lo schema esteriore della vita del Bruno si lascia riassumere in pochi dati e un numero anche minore di date, quando non si tratti degli scritti, che nella vita d'uno scrittore hanno un'importanza che non può esser reputata secondaria, anche se quella vita non termini con avvenimenti straordinari come quelli che chiusero tragicamente l'esistenza del Nolano; ma degli scritti nella loro consecuzione e nella fisionomia che a volta a volta presentano, è fatto cenno nelle pagine precedenti: qui resta invece da dire che, nato a Nola da Giovanni Bruno e da Fraulissa Savolino nel 1548, ed entrato sui quindici anni nei conventi domenicani e ordinato sacerdote «alti tempi debiti», fu nel '76 cominciato a processare per eresia; fuggì allora da Napoli a Roma, poi da Roma in Liguria, e a Noli depose l'abito; dalla Liguria a Torino, a Venezia, a Padova, a Bergamo; poi in Savoia e, di lì, a Ginevra. Entrato nella Chiesa calvinista, stampò un libello contro uno dei locali professori di teologia, fu scomunicato, poi si sottomise; ma presto lasciò Ginevra per la Francia: Lione, Tolosa, Parigi, dove insegnò, ma non a lungo né felicemente, ché passò in Inghilterra al séguito dell'ambasciatore del re di Francia a Londra, rimanendo in quella città dalla primavera 1583 al novembre 1585, non senza un periodo d'insegnamento, anch'esso sfortunato, a Oxford. I due anni e mezzo londinesi son quelli della stampa delle opere italiane. Nel novembre 1585 ritornò, con l'ambasciatore, a Parigi; tentò, a fine maggio, una pubblica disputa, di quelle di cui Parigi aveva la grande tradizione, nel Collegio di Cambrai; ma, confutato, sparì da Parigi e passò in Germania, a Wittenberg. Negli scritti di Wittenberg - alcuni dei quali son riportati e tradotti nel presente volume - Lutero è grandemente esaltato, ma non risulta che il Bruno abbia appartenuto alla Chiesa luterana della città; bensì certamente a quella di Helmstàdt (dove il Bruno passò da Wittenberg), come risulta dal fatto che il pastore maggiore di Helmstàdt a sua volta lo scomunicò. Dopo un soggiorno a Francoforte, per la stampa dei tre poemi latini, e qualche tempo passato a Zurigo, il Bruno si decise a ripassare le Alpi, invitato in casa di Giovanni Mocenigo a Venezia. Poco insegnandogli di mnemotecnica e molto parlandogli delle proprie convinzioni teologiche e filosofiche, il Bruno fu dal Mocenigo denunziato al Santo Uffizio: il quale lo incarcerò, lo interrogò lungamente, infine lo concesse all'Inquisizione romana, che lo reclamava. Nelle carceri romane del Santo Uffizio il Bruno fu interrogato a molte riprese. Infine furono presi in esame i suoi scritti a stampa, ne furono ricavate - secondo il costume del Santo Uffizio - alcune proposizioni, lo si invitò a ritrattarle. Poiché rispose che non sapeva di che cosa dovesse ravvedersi, giacché egli non riconosceva in quelle proposizioni il senso ereticale che gli Inquisitori vi ravvisavano, troncato ogni indugio il Santo Uffizio lo condannò ad essere scacciato dalla Chiesa, e il braccio secolare, cioè il Governatore di Roma, dette alla condanna religiosa il séguito pratico che, pur troppo, era nell'uso del tempo, e lo bruciò vivo in Campo de' Fiori il 17 febbraio 1600.
Alla bibliografia bruniana, che è immensa, ha dedicato il meglio delle sue forze uno studioso pisano, Virgilio Salvestrini, Bibliografia delle opere di G. Bruno e degli scritti ad esso attinenti, Pisa, Spoerri, 1926, con prefazione di Giovanni Gentile. Una seconda edizione aggiornata a tutt'oggi sarebbe desideratissima, e l'autore la prepara da anni.
Poiché il lettore del presente libro può desiderare qualcosa di meglio d'un elenco di opere, si può rinviarlo a qualche tentativo, brevissimo, di organizzare la letteratura sul Bruno secondo le linee degli indirizzi e tendenze che vi si fanno valere. Qualcosa in questo senso fu tentato da chi scrive nelle pp. xxxix-xliii dell'edizione sansoniana, già citata, del De la causa (alle quali pagine corrispondono, immutate, quelle 136-43 del volume citato, Concetto e saggi di storia della filosofia)-, e nelle pp. 313-5 del Bruno di Garzanti, dove la bibliografia è seguita fino al 1940. Ma nel quindicennio fin oggi gli studi sul Bruno si sono tutt'altro che diradati, che anzi li ha sempre più ravvivati la vicenda degli avvenimenti storici, così varia e mossa com'è stata ed è. Attenzione particolare meritano gli studi sui documenti del Santo Uffizio: Angelo Mercati, Il Sommario del processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1942; e Luigi Firpo, Processo di G. Bruno, già citato. C'è poi lo sforzo di allargare l'indagine dal nucleo metafisico-etico documentato dalle opere italiane, non meno che dalle latine, a quella grande varietà d'interessi mentali, dalla matematica alla magia, che solo dalle opere latine vien messa nella debita luce: e ciò non per giungere alla sommaria condanna di Leonardo Olschki, Giordano Bruno, Bari, Laterza, 1927, che dalla stessa molteplicità degli interessi mentali bruniani conclude senz'altro alla inorganicità, asistematicità e, in fondo, superficialità, avventatezza e confusione del pensiero bruniano, considerato indegno e incapace di figurare nella grande storia del pensiero europeo dalla Rinascenza all'età più propriamente moderna; bensì per ricollocare i temi più noti, cioè il nucleo metafisico-etico, del pensiero bruniano, in quella grande ricchezza di richiami e riferimenti e attinenze che può ben essere non sempre egualmente lucida, e tuttavia avere in sé una vitalità spirituale potente, non misurabile solo dal grado di chiarezza che raggiunge o non raggiunge, ma dall'efficacia di stimolazione d'una visione speculativa delle più generose e affascinanti. Su questa linea son da citare, oltre agli studi di Eugenio Garin, II Rinascimento italiano, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941, La Filosofia, 11, «Dal Rinascimento al Risorgimento», Milano, Vallardi, 1947, L'educazione umanistica in Italia, Bari, Laterza, 1949, il libro di Antonio Corsano, Il pensiero di G. Bruno nel suo svolgimento storico, Firenze, Sansoni, 1940; lo studio di chi scrive, Giordano Bruno nel quarto centenario della nascita, Torino, S. E. I., 1948; e il recente volume di Gerardo Fraccari, G. Bruno, Milano, Bocca, 1951. Il tema classico «interpretazione immanentistica o interpretazione trascendentistica?» ha continuato a interessare gli studiosi nell'ultimo decennio: e invero troppo forte era l'interesse risorgimentale per la questione negli scritti di Bertrando Spaventa (ora nel volume Rinascimento, Riforma, Controriforma, Venezia, La Nuova Italia, 1928), di Francesco Fiorentino, La filosofia della Rinascenza, Milano, Signorelli, 1938, di Sebastiano Maturi, Bruno e Hegel, a cura di Augusto Guzzo, Firenze, Vallecchi, 1926: interesse risorgimentale ai cui ideali, alle cui passioni, alle cui preoccupazioni obbedisce ancora l'interesse, che si potrebbe dire direttamente post-risorgimentale, di Giovanni Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, già citato, Firenze, Vallecchi, 1920, Studi sul Rinascimento, Firenze, Vallecchi, 1923 e, in settori diversi e tuttavia orientati, in definitiva, nella medesima direzione, di Erminio Troilo, La filosofia di Giordano Bruno, 1, «La filosofia oggettiva», Torino 1907; 11, «La filosofia soggettiva», Roma 1914; e recentemente, Studi e contributi bruniani dell'ultimo ventennio, «Premessa per una prospettazione dei punti essenziali della filosofia di Giordano Bruno», Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Serie VIII, voi. v, fase. 1-2, gennaio-febbraio 1950; di Rodolfo Mondolfo, La filosofia di Giordano Bruno e la interpretazione di Felice Tocco, 1912; la voce Giordano Bruno nell'Enciclopedia Italiana; e, recentemente, il volume Tres filósofos del Renacimiento (Bruno, Galileo, Campanella), Buenos Aires, Editorial Losada, 1947; del compianto Ludovico Limentani, La morale di G. Bruno, Parte 1, Firenze, Le Monnier, 1924, Pubblicazioni del R. Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento in Firenze. Scolaro di Sebastiano Maturi, quindi, per quel tramite, erede indiretto dell'interesse risorgimentale per il Bruno, chi scrive cercò, nel suo libro del 1932 (I Dialoghi del Bruno, citati), di uscire dal cerchio delle passioni risorgimentali, mostrando quale specialissimo immanentismo, non spinoziano o prespinoziano, è quello del Bruno, per il quale il Dio che è lo stesso Intelletto mondano presuppone il Dio sopra la mente, secondo la schietta próodos plotinica, che non è cristiana, per quanto il Bruno s'illudesse di vederla coincidere con la cristiana, ma che, pur non essendo cristiana, non ha che fare con l'immanenza-risoluzione, qual'è teorizzata da Spinoza e qual'è retrospettivamente attribuita al Bruno dagli uomini del nostro Risorgimento, spesso preoccupati di far troppo poco moderno Bruno se non lo fanno coincidere tal quale con Spinoza, e, d'altra parte, troppo reverenti verso la filosofia «europea» e «moderna» per osare di rivendicare al Bruno una gloria che consista in una sua italiana, umanistica, cinquecentesca originalità, non in un ricalco, se pur anticipato, del troppo venerato modello delle filosofie «europee» e secentesche. Dopo il mio libro del '32, ci fu chi corse a dichiarare senz'altro «cattolico» il Bruno, che invece, a rigore, non può dirsi nemmeno «cristiano», per quante illusioni egli si facesse su la concordia di cristianesimo, pitagorismo e cento altre filosofie d'ogni tempo, nel senso d'un'unica filosofia universale. Più avveduto e illuminato, Francesco Olgiati, L'anima dell'Umanesimo e del Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero, 1924, seppe ben discernere che l'ammissione di una sostanza soprasostanziale consente al Bruno un immanentismo d'altra indole e importanza da quello attribuitogli dalla critica che abbiamo detto, per intenderci, risorgimentale. Edoardo Fenu, Giordano Bruno, Brescia, Morcelliana, 1938, sostenne la posizione dualistica del Bruno. Invece Luigi Cicuttini, Giordano Bruno, Milano, Vita e Pensiero, 1950, difese la tesi che la trascendenza sia nel Bruno travolta dall'immanenza. Il Cicuttini aveva già pubblicato nella «Rivista di filosofia neoscolastica» del maggio 1941, voi. xxxiii, pp. 287-324, un articolo, Interpreti e interpretazioni del pensiero di G. Bruno. Sul Bruno scrittore sono da ricordare gli studi di Tommaso Parodi, Poesia e letteratura, Bari, Laterza, 1916; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, Laterza, 1933, pp. 248 sgg., (sul Candelaio); F. Flora, Storia della letteratura italiana, II, 2, Milano, Mondadori, 1942, pp. 567 sgg.; D. Di Sacco, negli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XIV (1946), pp. 18 sgg.
Su la fortuna del Bruno, vedi specialmente le pp. 136 sgg. del mio libro, Concetto e saggi di storia della filosofia, già citato.