Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il richiamo è quasi di maniera: il 17 febbraio 1600, Giordano Bruno fu arso vivo come eretico in Campo de’ Fiori, dopo la lunga peregrinazione che lo aveva condotto dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alla Germania, tra polemiche, incomprensioni e ripulse, profonda attenzione ed entusiasmo. Su questo sfondo, la filosofia stessa di Bruno – volta per volta, martire del libero pensiero, araldo della nuova scienza, mago ermetico, restauratore degli antichi culti egizi o, addirittura, spia al servizio di Elisabetta I – è spesso divenuta parte integrante di un “mito” che abbagliando il lettore rischia però di occultare la trama variegata di una ricerca incardinata sulla dottrina dell’infinito. In origine congiunta alla questione degli attributi divini – in stretta relazione con la “scoperta” della dissimmetria tra “assoluto” ed “esplicato” e del limite che segna, di conseguenza, l’esperienza umana – la riflessione sull’infinito conduce infatti Bruno a elaborare un concetto di materia che dissolve gerarchie e distinzioni tradizionali e fonda un universo senza limiti, ovunque popolato di individui e mondi; ma che al tempo stesso, annullando i tradizionali presupposti della dignitas hominis, impone di ripensare in forme nuove caratteri, limiti e finalità della conoscenza e della praxis.
Nel 1582, aprendo il De umbris idearum, Giordano Bruno si presenta al pubblico parigino nelle vesti del buon “Mercurio” che annuncia il ritorno dell’antico sapere. La potente immagine – evidentemente segnata da una filosofia della storia di matrice ermetica – era certo pensata per colpire lettori ormai sensibili alle figure che la mediazione culturale di Marsilio Ficino aveva reso di gran moda. Ma la vivida descrizione del sapiente in lotta con le potenze distruttrici del tempo e della barbarie intendeva ugualmente dar risalto, e certo per scelta meditata, al concetto su cui tornavano a concentrarsi gli scritti composti in quell’anno, che da punti di vista dissimili e in registri diversi si interrogavano con pari insistenza sul rapporto tra “finito” e “infinito”. Nel De umbris idearum, il tema si definisce quasi di scorcio, nel vivo della polemica con gli interlocutori di formazione aristotelica che avevano accusato l’ars memoriae di precludere l’accesso al vero, rinserrando anzi il pensiero nell’universo fittizio di “mostri” e “sogni”. Contro di loro – e, al fondo, contro la pretesa che la mente umana possa dimorare nel “campo della verità” per potenza propria o grazia divina – Bruno recupera provocatoriamente l’esegesi origeniana del Cantico dei cantici, e attraverso le immagini che avevano forgiato il lessico dell’esperienza mistica sostanzia un discorso in cui il richiamo vigoroso al nesso tra “essere” e “operare” dissolve ogni possibilità di istituire un rapporto immediato con il “primo vero” e il “primo bene”. Segnato, nell’“essere” come nell’“essenza”, da un limite radicale, l’uomo appartiene infatti all’“ombra”, all’orizzonte finito in cui si urtano i contrari, e si accosta alla verità solo attraverso le forme mutevoli che germinando dalla natura si moltiplicano nella mente, plasmate e ricomposte dalla fantasia. “Immagini”, “figure” e “simulacri” – i “mostri”, insomma, di cui si facevano beffe i critici aristotelici – non rappresentano, semplicemente, utili espedienti per addestrare la memoria: sono invece, come Bruno ribadirà, anni dopo, nel De imaginum compositione (1591), la cifra dell’unico rapporto possibile tra finito e infinito. Facendo perno su simili considerazioni, a Bruno non interessa però segnalare il carattere approssimativo della conoscenza umana. Gli preme, piuttosto, definire l’orizzonte umano come un campo di forze in cui i contrari – bene e male, vero e falso, luce e tenebra – si confrontano senza tregua, limitandosi l’un l’altro in un intreccio vivo e mutevole. La metafora dell’ombra consente così, da un lato, di sancire la totale impossibilità – per l’occhio, così come per l’intelletto – di riafferrare l’essenza nuda e semplice dei due opposti che si congiungono nell’estensione opaca; ma rivela anche, dall’altro, il modo peculiare in cui l’assoluto si manifesta nei ritmi della natura. A somiglianza delle ombre fisiche, l’“umbra profunda” di cui consta e in cui opera l’uomo è infatti segno ed effetto di una sorgente luminosa talora celata, ma ben presente allo sguardo di chi penetra nel gioco delle ombre proiettate, per procedere dal caos apparente delle tenebre alla luce cui sono indisgiungibilmente congiunte. Dal piano gnoseologico, la ricerca di Bruno tende così a spostarsi a quello ontologico per definire i caratteri della sostanza universale che al pari dell’ombra manifesta – nell’urto e nel reciproco mutamento dei contrari – la pienezza del principio. L’urgenza di questa indagine si impone del resto nelle pagine del De compendiosa architectura et complemento artis Lullii (1582), che, a differenza dei trattati di arte combinatoria composti in seguito (De lampade combinatoria lulliana, 1587; De specierum scrutinio, 1588), più attenti alle componenti enciclopediche e retoriche del lullismo, schiera una poderosa batteria di esempi ispirati al doppio tema dell’infinità divina e del rapporto tra “assoluto” e “relativo”: quasi a segnalare come l’interesse di Bruno per la dottrina lulliana dei correlativi confluisca in questi anni entro un ragionamento più ampio, incentrato sulla relazione che sussiste tra sostanza e accidenti, tra “Dio” e “mondo”. Ed è sempre su questo nesso – e sulla sua precarietà – che si interrogano, ancora nel 1582, il Cantus Circaeus e il Candelaio: celebrando, in un caso, gli incantesimi con cui una Circe benefica caccia le belve celate sotto sembianze umane; narrando, nell’altro, di una umanità ferina, immemore ormai della fragile distinzione tra bene e male e governata dai capricci mutevoli della “fortuna traditora”. Nel gioco dei simboli e delle vicende narrate, traspare limpida la persuasione di Bruno: l’arte umana introduce un principio di ragione nel flusso della vicissitudine naturale, orienta la storia verso esiti nuovi e imprevedibili e pone un argine alla decadenza che il tempo costantemente introduce e che Bruno, come dimostrano, appunto, le pagine plumbee del Candelaio, vede ormai in atto nel suo secolo.
A conclusione della silloge di trattati mnemotecnici pubblicata in Inghilterra, nel Sigillus sigillorum (1583), Bruno riprende le fila del ragionamento avviato in Francia, e dispone materiali composti in tempi diversi in un contesto teorico ispirato alla dottrina neoplatonica della mente universale. Delinea dunque, attingendo a piene mani ai testi di Ficino, l’ordinata simmetria del cosmo e della conoscenza, e segue il duplice movimento di “ascenso” e “descenso” che dall’unità fontale procede a forme di vita e di conoscenza sempre più complesse: ma tutta l’esposizione è al servizio di un ragionamento che dal mondo esplicato si protende a scrutare il principio sotteso alla vicissitudine. Innestando vita e conoscenza ai gradi più bassi dell’essere, Bruno spoglia di ogni consistenza le distinzioni tradizionali tra superiore e inferiore, vivente e inanimato, riducendole a “nomi” e “definizioni” di una potenza unica e medesima in sé, ma che differentemente opera secondo i differenti composti in cui si esplica. Sono temi che la Cena de le Ceneri (1584) sviluppa in un contesto teorico ispirato ai nuovi orizzonti aperti dalle scoperte geografiche e dalle ricerche di Copernico. La difesa appassionata dell’eliocentrismo rimanda certo alla bruciante esperienza vissuta da Bruno l’anno precedente – quando, a Oxford, era stato bruscamente rimosso dall’insegnamento, con l’accusa di plagio, dopo aver tenuto alcune lezioni di argomento copernicano – e il ricordo dell’intolleranza manifestata dalle autorità accademiche e religiose anima con ogni evidenza le pagine in cui il filosofo ribadisce l’autonomia della ricerca razionale, e definisce ambiti e linguaggi di scienza e religione per dimostrare quanto sia errato confondere “verità” e “leggi”, utilizzando i Testi Sacri – destinati a educare popoli ancora rozzi – per confermare o respingere teorie fisiche. Ma la coscienza dello straordinario valore filosofico insito nella visione di Copernico ha radici più antiche, e teoricamente più profonde: la dottrina del moto terrestre annienta infatti l’astratta distinzione tracciata da Aristotele per separare la sostanza incorruttibile dei cieli dalla materia caotica dei corpi terrestri, e conferma le tesi di Bruno rivelando come “sole”, “terra”, e corpi celesti – indistinguibili sotto il profilo ontologico – siano parti “dissimilari” di un’unica, vivente e incorruttibile “materia e sustanza delle cose”. Moto, trasformazione e metamorfosi non testimoniano dunque di una natura mutila e imperfetta, ma scandiscono il processo inesausto per cui la materia “secondo tutte le parti (per quanto è capace) si fia tutto, sia tutto, se non in un medesmo tempo e istante d’eternità, al meno in diversi tempi, in varii instanti d’eternità, successiva e vicissitudinalmente” (Cena de le Ceneri, in Giordano Bruno, Dialoghi filosofici italiani, Mondadori, Milano 2000, V, p. 119). Nella grandiosa descrizione della vicissitudine universale traluce così il punto d’approdo della “nolana filosofia”: ripensare in termini nuovi il concetto di materia, trasformandola da ricettacolo inerte delle forme in principio di vita da cui rampollano individui e mondi. A questo obiettivo si indirizza il De la causa (1584), che dal rapporto tra “materia” e “corpi” procede a definire la sostanza universale nella cui pienezza sono originariamente radicati corporeo e spirituale. Con un movimento speculativo rigoroso, Bruno avvia dunque il ragionamento interrogandosi sul concetto di potenza, e argomentandone – contro Aristotele – il primato ontologico. L’atto non può infatti essere inteso se non come conseguenza di una potenza preesistente: sbagliano dunque, a giudizio di Bruno, quei filosofi che hanno inteso valorizzare il solo momento dell’esplicazione, senza comprendere che “l’essere del letto” riposa prima di tutto in quella sostanza che “può essere letto, scranno, trabe, idolo e ogni cosa di legno formata” (De la causa, IV, in Bruno, Dialoghi, p. 271). Portando a esiti estremi strategie teoriche di chiara ascendenza cusaniana, Bruno incardina la materia nell’essenza stessa divina per far corrispondere la pienezza dell’atto primo all’assoluta potenza materiale. Una simile acquisizione proietta luce mutata su tutta la costellazione di termini associata al concetto di materia: al di fuori della lente deformante di Aristotele e delle sue distinzioni artificiose, la dottrina stessa del sostrato su cui si alternano le forme rivela infatti come ogni realtà – corporea o incorporea che sia – non abbia consistenza alcuna al di fuori della materia: al pari dell’ombra di cui Bruno aveva ragionato a Parigi, la materia si rivela così il nodo di una comunicazione che nel continuo prodursi della vita mette in rapporto la varietà vivente del mondo e l’inattingibile infinità divina. Da questa persuasione discende, del resto, la concezione dell’universo infinito e dei mondi innumerabili di cui Bruno ragiona nel De l’infinito, universo et mundi (1584).
Testo di ispirazione dichiaratamente “politica”, anche lo Spaccio della bestia trionfante (1584) si rivela organicamente congiunta a una riflessione sulla materia che dissolvendo tutti i presupposti umanistici della “dignitas hominis” spinge a ripensare in forme mutate natura e fine della società. Il lucido riconoscimento della crisi che travaglia l’Europa innerva così un discorso che inserisce la vita degli Stati nel ritmo eterno della verità, per elaborare una riforma politica e religiosa filosoficamente fondata e capace di porsi come alternativa plausibile alla violenza delle guerre di religione. Scrutando nel movimento che conduce il finito attraverso l’infinito, Bruno valorizza dunque l’opera virtuosa della legge, che infrangendo l’uniforme uguaglianza della natura esalta i meriti individuali, e li impone, se necessario, oltre le barriere consolidate di titoli, sangue e ricchezza. Facendo riverberare nel mondo umano l’assoluta sapienza divina, la legge ordina infatti l’energia riformatrice degli uomini e li trasforma, nell’esperienza della vita associata e attraverso l’esercizio della sapienza e della virtù, in veri “dèi della terra”. Nell’universo di Bruno, la grandezza e la dignità umane non sono un destino segnato, ma il frutto imprevedibile dell’intelletto e delle mani, e si manifestano nel libero dispiegarsi della potenza che consente all’uomo “non solo di poter operare secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuor de le leggi di quella: […] formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini” (Giordano Bruno, Spaccio de le bestia trionfante, in Dialoghi italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 200, dialogo III, p. 601). Senza approfondire oltre il nesso tra “intelletto” e “mano” – su cui insiste la Cabala del cavallo pegaseo (1585), legando anzi a filo doppio “corpo” e “destino” – Bruno rileva dunque come leggi e religioni sappiano incanalare le potenzialità indistinte dell’uomo per renderlo creatore di ordini e civiltà. Agli esempi virtuosi dell’Egitto e di Roma, in cui il culto reso agli dei alimentava le virtù civili e la conoscenza della natura – contrappone così, con un evidente recupero della riflessione machiavelliana, la sterile predicazione cristiana, che innalza a valori supremi l’umiltà, l’ignoranza e la passiva obbedienza. Di questo atteggiamento, la Riforma appare per Bruno l’esito coerente e inevitabile: imponendo l’immagine aberrante di una divinità cieca alle buone opere dell’uomo, Lutero – l’“angelo malvagio” di cui già avevano parlato le antiche profezie ermetiche – recide infatti, una volta per tutte, il legame tra legge umana e verità, e spoglia la religione della sua funzione civile per farne scaturigine di discordia. Nel fuoco di una analisi che progressivamente si estende a smascherare il principio di decadenza racchiuso in tutta la tradizione ebraico-cristiana, Bruno sottopone dunque a critica radicale il dogma stesso dell’Incarnazione, in cui il rapporto vitale tra finito e infinito, distorto nella goffa sovrapposizione di due nature inconciliabili, si compie non nell’eterno proliferare della vita, ma nella vicenda, unica e irripetibile, del Cristo. La dura polemica non esaurisce però il ragionamento sulla religione: le battute finali dello Spaccio si appropriano infatti del discorso della montagna per suggerire una riforma politica e religiosa che nell’esaltazione della carità e della pace individua un, pur provvisorio, punto di equilibrio tra religione, filosofia e vita civile. A temi simili daranno ampio risalto le opere composte in Germania negli anni successivi, con un elogio della libertà e della tolleranza che dalla prefazione al De lampade combinatoria (1587) si riverbera nelle pagine intense della Oratio valedictoria, della Oratio consolatoria e degli Articuli adversus mathematicos (1588), per celebrare una religione dalla marcata ispirazione etica, ispirata ai valori evangelici. Il tema non è nuovo: dal neoplatonismo fiorentino a Erasmo da Rotterdam, individua anzi un filone di fondo della cultura italiana ed europea. Bruno se ne appropria però in modi innovati, e lo congiunge, secolarizzandolo, a uno dei temi fondanti della propria riflessione. Nell’interpretazione proposta dalla Lampas triginta statuarum (1587 e 1591), la charitas si svincola così da qualsiasi presupposto di ordine teologico, per radicarsi, invece, nella dialettica dei contrari. Costituisce infatti, secondo Bruno, l’esito – straordinario certo, ma del tutto naturale – di un processo che germina dal cuore stesso della materia, e dalla “inexplebilis voluntas” che la spinge a essere tutto, aprendosi successivamente a tutte le forme. Ontologicamente segnati dalla materia da cui discendono, gli enti naturali tendono così all’unione reciproca: il desiderio racchiuso nella sostanza originaria rifulge tanto nella lotta con cui i contrari cercano di assimilarsi quanto nelle unioni spontanee e irriflesse dei corpi semplici; ma governa ugualmente l’uomo, il cui volere è naturalmente condotto a ricercare, attraverso il conflitto, la concordia e il patto. In questo orizzonte, la charitas rappresenta il perfetto compimento di una volontà razionale presente in tutti gli uomini, e su di essa può fondarsi, a giudizio di Bruno, una religione capace di costituirsi come principio di unità e non di separazione. La celebrazione del vincolo che la politica intesse tra uomini e dèi lascia però drammaticamente in sospeso la questione del rapporto tra individuo e verità: se sia cioè possibile all’uomo istituire un rapporto diretto e immediato con la verità – e questo nel tempo concentratissimo dell’esistenza, al di fuori della trama intessuta dalle leggi e dal sapere nel cerchio largo della storia. Con questo tema – già toccato nel De umbris idearum –, Bruno si cimenta nei dialoghi Degli eroici furori (1585), narrando l’esperienza estrema che conduce l’accidente entro l’infinito, nel tentativo di infrangere il circolo ferreo della vicissitudine. I miti classici del cacciatore Atteone adombrano così l’ascesa che, nel travaglio di una riforma interiore radicale, e nell’opera congiunta di intelletto e volontà, dischiude all’amante il lampo dell’illuminazione. Niente in comune però con il rapimento mistico, né con le dottrine ficiniane della “deificatio”: la concentrazione altissima della mente non offre infatti al furioso alcun riscatto. Quello che l’eroe vede per beneplacito divino non è – ricorda Bruno – l’assoluta unità, ma la sua “ombra”, la “Diana” in cui si esprime la totalità viva della natura. Su questo punto cruciale, i Furori confermano quanto il De umbris aveva espresso con l’immagine della bella Sulamita seduta nell’ombra: dall’orizzonte della vicissitudine, in questa vita, l’uomo non può in alcun modo uscire.
Dalla concezione dell’universo a quella della natura, dalla condizione dell’uomo nel cosmo e nella storia, l’esperienza dei dialoghi filosofici londinesi avvia una problematica del tutto nuova, che Bruno svilupperà sul piano sia ontologico sia gnoseologico. Riprende così Aristotele, affrontandolo sia nei toni intransigentemente polemici dell’Acrotismus Camoeracensis (1588), sia nelle forme più pacate dei commentari e delle grandi sintesi enciclopediche della Lampas triginta statuarum e della Summa terminorum metaphysicorum, 1591) e discute i caratteri di un sapere che, senza estenuarsi in mera empiria né cristallizzarsi in formule vuote, riesca a distinguere ed esaltare – sullo sfondo unico della materia universale – la peculiarità irriducibile dei composti. Su questo nucleo di problemi si apre del resto il confronto con l’arte magica: affrontando il materiale composito cui autori quali Ficino e Agrippa avevano imposto una struttura teorica ragionata e coerente, Bruno prende però le distanze dalle dottrine neoplatonizzanti, per approfondire di contro la praxis avveduta che consente – al mago come al politico – di scardinare visioni consolidate e di incidere su quel consensus da cui discende, al fondo, ogni effetto di magia. Sul filo di tale riflessione, i poemi pubblicati a Francoforte (De triplici minimo et mensura, il De monade, numero et figura, il De innumerabilibus, immenso et infigurabili) insistono dunque sulla dottrina dei corpuscoli – affinata in un ragionamento di lungo periodo che dai Libri physicorum si estende alla Lampas e alle opere magiche – per porre a fondamento della vita naturale un triplice minimo, articolato in “metafisico”, “fisico” e “geometrico” e smascherare, su questo sfondo, l’errore di una matematica in cui il principio della divisibilità all’infinito cancella l’intrinseca individualità delle cose nell’astrazione di un calcolo formale. Contro simili posizioni, il motto eracliteo evocato da Bruno ricorda invece come l’infinita mutabilità della natura escluda, a qualsiasi livello, l’identità. Mai due individui uguali, mai due esperienze speculari, mai due volte sarà dato di “tracciare la medesima circonferenza”: congiungendo in uguaglianza fittizia quanto è vario e dissimile, i matematici separano mente e mondo. Diversa è dunque la via percorsa dal De monade e dal De immenso: facendo leva sul numero per manifestare la pluralità di relazioni tra i vari livelli dell’essere, l’ontologia della vita-materia infinita si dispiega, nel De immenso, ad argomentare l’infinità dell’universo, colpendo con vigore con solo Aristotele e la metafisica ficiniana dei tre mondi, ma quelle stesse interpretazioni del copernicanesimo che non ne colgono il valore profondo e innovatore.
Giordano Bruno
Sentenza dei cardinali Inquisitori
Il processo di Giordano Bruno
Ma poi avendo tu dato altre scritture nell’atti del S.to Offizio dirette alla Santità di N.o Sig.re ed a Noi, dalle quali aparisce manifestamente che perseveravi pertinacemente negli sudetti tuoi errori; ed essendosi [anco] havuto notizia che nel S.to Offizio di Vercelli eri stato denunziato che mentre tu eri in Inghilterra eri tenuto per ateista e che avevi composto un libro di Trionfante bestia, ti fu alli diece del mese di settembre MDXCIX prefisso il termine di XL giorni a pentirti, doppo il quale si saria preceduto contra di te, come ordinano e commandano li sacri Canoni; e tuttavia restando tu ostinato ed inpenitente in detti tuoi errori ed eresie, ti furno mandati il M. Rev. P. frate Ippolito Maria Beccaria Generale ed il P. fra Paolo Isaresio della Mirandola, Procuratore dell’ordine di detta tua religione, acciò ti ammonissero e persuadessero a riconoscere questi tuoi gravissimi errori e eresie, nondimeno hai sempre perseverato pertinacemente ed ostinatamente in dette tue oppinioni erronee ed eretiche.
Giordano Bruno. Un’autobiografia, a cura di M. Ciliberto, Napoli, Procaccini, 1994