GIORDANO da Pisa (Giordano da Rivalto)
Le notizie più attendibili relative alla biografia di G., detto anche, in testimonianze risalenti a non prima del XVI secolo, Giordano da Rivalto, dal nome della località situata a pochi chilometri da Pisa della quale sarebbe stato forse originario, si leggono nella Chronica antiqua del convento domenicano di S. Caterina scritta da Domenico da Peccioli. In essa vengono indicate con esattezza la data di morte di G. e la durata del periodo di appartenenza all'Ordine: "Vixit in Ordine hic Pater annis XXXI, cuius felicissimus transitus fuit MCCCXI, de mense augusti, infra octavas Sanctae Mariae Matris Dei et Virginis gloriosae" (p. 452). L'ingresso del novizio nel convento domenicano di Pisa è perciò databile al 1279, e considerato che le costituzioni domenicane vietavano al tempo di G. di accogliere i giovani prima dei quindici anni, si può congetturare che la sua data di nascita sia anteriore al 1264, e da collocare probabilmente nel 1260.
Nel 1280 fu affiliato al convento di S. Caterina a Pisa, presso la cui scuola, che poteva contare su una notevole biblioteca, si formarono diversi altri significativi scrittori dell'Ordine contemporanei di G., da Domenico Cavalca a Bartolomeo da San Concordio a Simone da Cascina. Dopo avere seguito i corsi in arti e in filosofia, G. fu mandato dai superiori agli studi generali più famosi dell'Ordine, Bologna e Parigi, in data imprecisabile, tra il 1284 e il 1286. Sappiamo con esattezza dagli atti del capitolo provinciale della provincia romana che egli fu destinato a leggere le Sententiae nel 1287 presso lo Studio di S. Domenico a Siena, e nel 1288 presso lo Studio di Perugia. Nel 1294 egli doveva trovarsi di nuovo a Perugia, dove assistette alla morte del cardinale Latino Malabranca. Nel 1295 venne assegnato, questa volta come lettore principale, allo Studio di S. Maria in Gradi a Viterbo. Nel 1303 il capitolo provinciale di Spoleto lo nominò, con altri dieci frati, praedicator generalis: "Facimus predicatores generales f. Stephanum de Sezia, f. Matheum de Thostis Romanum […] et Iordanem lectorem Florentinum" (Delcorno, G. da P. e l'antica predicazione volgare, pp. 12 s.). In quel momento egli era già noto come lettore principale di S. Maria Novella, dove aveva iniziato a predicare nel gennaio dello stesso 1303.
Prima di dare inizio al lettorato fiorentino, G. dovette insegnare per un certo periodo nel convento di origine. Il soggiorno a Pisa è testimoniato da un testamento in cui, nel 1301, Betecca, vedova di Enrico Villani, gli lasciava in eredità la ragguardevole somma di 100 soldi. Intorno al 1300 iniziò anche l'opera di riforma della Compagnia della Croce di Pisa, detta anche di S. Salvatore.
Negli anni trascorsi a Firenze G. dovette supplire alle assenze del suo superiore, il magister Remigio de' Girolami, il quale, come ci informa il Necrologio di S. Maria Novella (ibid., p. 14) fu lettore per oltre quarant'anni, ma con frequenti periodi di lontananza da Firenze giustificati dai suoi impegni di amministratore e di insegnante presso la Curia pontificia. Probabilmente Remigio tornò stabilmente a Firenze nel 1307, quando fu chiaro che Clemente V non avrebbe mai stabilito la Curia in Italia. Si capisce dunque che il capitolo provinciale di Rieti (settembre 1305) non solo conferì per la seconda volta a G. il titolo di predicatore generale, ma lo indicò anche come supplente del Girolami. La Chronica di S. Caterina ricorda: "Librum Sententiarum theologicum legit eleganter Florentiae in studio generali: deinde ibidem tribus annis lector principalis existens, ut stella candida corruscavit" (ibid., p. 451). Si può congetturare che G. leggesse le Sententiae nel 1302-03 e nel 1303-04, e che nel triennio seguente (1304-05, 1305-06, 1306-07) tenesse il lettorato principale. Il 14 sett. 1309, in occasione dell'apertura del capitolo provinciale di Firenze, G. tornò a predicare sulla piazza di S. Maria Novella, ma la sua sede era già il convento di S. Caterina in Pisa, dove fu destinato dallo stesso capitolo a esporre la Bibbia.
Qualche altra notizia biografica si può ricavare, pur con le necessarie cautele, dalle stesse prediche di Giordano. Egli si recò forse a Colonia: nella predica tenuta in S. Maria Novella il 6 genn. 1305 ricorda di avere visto con i propri occhi le reliquie dei magi conservate nel duomo della città. Nella predica fiorentina del 9 nov. 1304 egli racconta della violenta sollevazione popolare avvenuta in Germania in seguito all'accusa di profanazione dell'ostia rivolta agli ebrei nel 1298. È anche probabile che egli abbia conosciuto la Provenza, poiché dà sicure notizie sulla giustizia del luogo: per esempio, sull'usanza di tenere esposti lungo le strade i cadaveri degli impiccati. È certo invece che egli viaggiò molto per l'Italia, nella provincia lombarda e in quella romana. Fu a Milano in data non precisabile, e, secondo la predica del 6 genn. 1305 sopra ricordata, in S. Eustorgio, sede di un illustre studio dell'Ordine, poté vedere l'arca dove furono conservate le reliquie dei magi fino al 1164, quando Federico Barbarossa le trasferì a Colonia. Anche di Roma, dei suoi monumenti e della campagna romana G. parla spesso e con precisione. Probabilmente visitò anche il Regno di Napoli: nello studio di S. Domenico Maggiore a Napoli egli vantava l'amicizia di un ebreo che, convertitosi durante la persecuzione scatenata nel 1290 da Carlo II d'Angiò, entrò poi nell'Ordine.
G. morì nel convento domenicano di Piacenza, durante una tappa del viaggio che lo avrebbe dovuto portare a Parigi a insegnare. Se si tiene conto che la Chronica antiqua segue lo stile pisano, la data di morte di G. è da collocare entro l'ottava dell'Assunta del 1310, tra il 16 e il 21 agosto.
Un anno dopo la morte, la Compagnia della Croce stabilì che tra le feste d'agosto venisse celebrata, tra la vigilia e l'ottava dell'Assunta, la Vigilia beati Giordanis. Ebbe così inizio un culto, documentato anche da un'antica lauda (Noi debbiam lodare con tutto lo core, cfr. Galletti, 1898, pp. 29 s.), che perdurò ininterrottamente per secoli, sostenuto da una notevole iconografia, presente a Pisa e a Colorno (Parma). Le reliquie di G. furono custodite nella chiesa di S. Caterina a Pisa e, fra il 1785 e il 1927, a Colorno, presso la cappella di S. Liborio. Nel 1927 le reliquie sono state riportate a Pisa e ricollocate nella chiesa di S. Caterina, sotto l'altare maggiore.
G. non ha lasciato un'opera suggellata dalla sua volontà. Le sue prediche fiorentine e pisane ci sono giunte nella registrazione sommaria (reportatio) di alcuni uditori laici. I testimoni, che attualmente ammontano a 42 manoscritti e a 2 incunaboli, trasmettono 726 prediche: 399 fiorentine datate e 95 pisane, databili al 1308-09. Altre 232 prediche non sono databili con sicurezza. Sunti e sentenze giordaniani sono nel testimone indiretto Ital. 2236 della Bibliothèque nationale di Parigi. La predicazione pisana è conservata in due codici della Biblioteca Laurenziana di Firenze (Acquisti e doni, 290 e Calci, 21). Più complessa è la trasmissione delle prediche fiorentine, che presuppongono l'esistenza di diversi riportatori, probabilmente membri delle confraternite guidate dai domenicani di S. Maria Novella. Secondo una tradizione raccolta da Lionardo Salviati, uno dei riportatori fu Lotto Salviati, priore nel 1302 e nel 1304. Esisteva anche un gruppo di uditori più colti, amici del frate, i quali a volte rividero gli appunti. Non è infrequente il caso di ritardi o di assenze del riportatore, il quale si informava dagli altri uditori. Chi scrive il ciclo del Genesi del 1305 manca o giunge in ritardo per ben undici sere, ma riesce sempre a ricostruire lo schema della predica in base ai racconti orali degli amici. Solo una volta deve constatare che nessuno è in grado di riassumere il contenuto della predica: "Non ci fui e non trovai chi me ne sapesse dire di nulla, e però non ci è scripto" (lunedì 8 marzo: Biblioteca apost. Vaticana, Rossiano 752 [da ora in poi: V], c. 115v). Le formule usate per queste notizie extratestuali sembrano escludere l'esistenza di doppie reportationes. Tipiche dei cicli fiorentini sono le abbondanti notazioni che contestualizzano la predica: si fa menzione del clima, delle condizioni acustiche, del comportamento della folla, del volto e del tono di voce del predicatore. Alcuni dei codici più importanti (oltre a V, il codice senza segnatura conservato presso il convento di S. Domenico di Fiesole [Fiesolano], e il cod. 1268 conservato a Firenze presso la Biblioteca Riccardiana) sono illustrati da un ritratto di Giordano. Preziosa è anche l'indicazione dei luoghi dove si svolgeva la predicazione: di solito l'interno o la piazza di S. Maria Novella, ma anche il duomo, Orsanmichele, S. Felice Oltrarno, S. Lorenzo, S. Giacomo Oltrarno, chiese che erano anche sede di confraternite laicali. G. talvolta predicava presso i conventi femminili dell'Ordine (Cafaggio, Ripoli in via della Scala), o presso le agostiniane (S. Gaggio). Le suore potevano forse ascoltare queste prediche, e certo furono molto interessate alla conservazione dei testi, come dimostra la provenienza di alcuni dei testimoni giordaniani più autorevoli (per es. il Laurenziano Ashburnham 533 proveniente da S. Gaggio).
Gli autori delle reportationes seguivano un ordine cronologico, ma nella tradizione manoscritta si trova anche il tentativo di distribuire i materiali secondo le più diffuse partizioni liturgiche, a volte mescolando prediche di anni diversi. Il codice II.IV.145 della Bibl. nazionale di Firenze (proveniente dal convento della Ss. Annunziata), è un De tempore, come avverte la rubrica: "Qui cominciano le prediche di frate Giordano nel MCCCV una parte, e alcune d'altri tempi, perché in questo libro si truovano di tutte domeniche dell'anno e di feste solenni, e comincia a quella della Donna di março", cioè dal 25 marzo, inizio del calendario fiorentino (c. 1r). Il già citato manoscritto Riccardiano 1268 raccoglie il ciclo dell'avvento del 1304 e il quaresimale del 1306. Il compilatore del manoscritto Canon. Ital. 132 della Bodleian Library di Oxford ha un particolare interesse per il ciclo dei santi e per le feste della Vergine: inizia dalla festa dell'Assunzione del 1304 e conclude con la Purificazione del 1305.
Il culmine della predicazione di G. è rappresentato dalle lezioni sul Credo e dalla spiegazione del primo capitolo del Genesi, tenute la mattina e la sera durante la quaresima del 1305. Questa impegnatissima trattazione della fede cattolica è inserita nella cornice della predicazione sulle letture quaresimali, che non potevano essere del tutto tralasciate. L'esposizione del Genesi inizia nella collazione vespertina della prima domenica di quaresima (7 marzo); il lunedì seguente, al mattino, dopo una breve trattazione del Vangelo sul Giudizio universale, prende l'avvio il trattato sul Credo. Questo trattato si conclude il giovedì dopo Pasqua (22 aprile), e poco dopo, la sera della domenica inalbis (25 aprile), giunge a termine anche il corso sul primo capitolo del Genesi. Le lezioni sono sospese per dare spazio alla liturgia del giorno nella festa dell'Annunciazione, nel giovedì santo, a Pasqua e nel lunedì dopo Pasqua. La tradizione manoscritta, molto ricca e ancora tutta da studiare, conserva l'ordinamento cronologico, ma separa i due cicli di lezioni. I manoscritti più autorevoli (Fiesolano, Vaticano Rossiano 752, Ital. 92 della Bibl. nationale di Parigi) danno la serie sul Credo seguita dal Genesi; altri due codici (il Laurenziano Gaddi 102, e il manoscritto 42 della collezione Ginori Venturi, attualmente irreperibile) invertono l'ordine. Il codice II.IV.167 della Bibl. nazionale di Firenze, alla base dell'edizione Moreni, dà solo il Genesi; e al contrario il Magl. XXXV.222 trasmette solo il Credo.
G. iniziò a parlare ai Fiorentini nel 1303: le reportationes di quell'anno (poco meno di una trentina) propongono i grandi temi che verranno ripetuti e sviluppati nei cicli di prediche seguenti. La predica dell'Epifania 1303, come documenta anche la straordinaria diffusione manoscritta, fu accolta come un manifesto della sua predicazione di penitenza. Il percorso dei magi che si allontanano da Erode è illustrato come allegoria dell'itinerario di conversione. La stella è la ragione, e basterebbe a indirizzare sulla via giusta se non fosse offuscata dalla corruzione della natura umana: essa va completata con la Scrittura spiegata nelle prediche. Connessa al tema penitenziale è l'immagine dell'homo viator, pellegrino che si muove nel deserto del mondo, come Israele che muove dall'Egitto verso la terra promessa. Fin da questo primo discorso G. insiste sulla dottrina canonica della penitenza, sottolineando l'importanza e la necessità della contrizione. Il tempo vale non tanto per la durata quanto per l'attimo in cui si determina la compunzione, con la quale si guadagna la vita eterna, come fecero gli angeli in un istantaneo "incendio d'amore" (Genesi, 1° apr. 1305: V, c. 132r). La penitenza serve a schivare le pene infernali, a tenere lontani già in questa vita i flagelli della guerra e delle pestilenze, ma è soprattutto un invito al banchetto escatologico della vita eterna (23 giugno 1303). Giuseppe De Luca notava che l'amor di Dio, non la paura dell'inferno, è il tema profondo della predicazione giordaniana; e altri recentemente (da C. Frugoni a J. Baschet) hanno notato che la descrizione del paradiso è più insistita e varia della presentazione delle pene infernali. La pena per G. è soprattutto quella del danno, la perdita del paradiso; se talvolta si decide a dipingere più esattamente la pena del senso, egli ricorre all'Ovidio moralizzato, e mette in scena il supplizio di Tantalo, di Issione, di Prometeo (4 marzo 1306).
G. propone un modello di vita cristiana complesso e alto, dove le opere di penitenza e di carità sono bilanciate dalla preghiera di lode e dalla contemplazione, come dichiara esemplarmente nella predica del 9 apr. 1303 basata sul versetto del vangelo di Luca "Dederunt ei partem piscis assi et favum mellis" (Luca 24, 42). La cera delle opere non ha senso senza il miele della contemplazione. Non vi è dubbio che la contemplazione sia il grado più alto della vita cristiana, ma per la nostra debolezza, perché il dolce verrebbe a noia, dobbiamo alternare vita attiva e vita contemplativa, mescolando la cera e il miele. I santi Padri del deserto, un modello fondamentale per la spiritualità domenicana, nella loro imitazione della vita angelica cercavano la preghiera breve e frequente, dedicandosi al lavoro e alla lettura quando la devozione cessava. Anticipando il messaggio iconografico del Camposanto di Pisa, G. indica nell'anacoresi egiziana una prefigurazione del paradiso. Dall'amore di Dio discende il comandamento dell'amore del prossimo, come chiarisce la predica del 6 ott. 1303 ("Diliges proximum tuum", Matteo 22, 39). La necessità di adattare il precetto divino alla complessa realtà fiorentina costringe il predicatore a superare i limiti di un discorso puramente religioso, e a esporre i principî di una dottrina fondata sulla Politica di Aristotele, mediata dall'interpretazione di Tommaso d'Aquino (Summa theol., II ii, qu. 77, art. 1). L'uomo è "animale sociale e congregale", e questa è la ragione che dà origine alle città, e giustifica il commercio. G. è ben consapevole dell'importanza degli scambi commerciali, sui quali si fonda la ricchezza fiorentina. In altra occasione (1° genn. 1304) egli espone con più ampiezza la classica giustificazione del commercio, colorandola di un'interpretazione provvidenziale: "Idio non dé ogni arte a ogni omo e ogni sufficienzia a ogni paese […] acciò che le genti si visitassero insieme l'una l'altra per congiunzione d'amore e d'amistà" (Oxford, Bodleian Library, Canon. Ital. 132, c. 74vb). Ma subito egli constata che il commercio è diventato non sovvenzione, ma ruberia, spogliazione del prossimo, peggiore dell'usura. Le frodi commerciali, l'usura, i mestieri illeciti (dalla prostituzione femminile e maschile all'arte del giullare), il lusso e lo sperpero dei beni sono argomenti inevitabili in città ricche come Firenze e Pisa. G. li affronta in modo aperto e organico già nella predica del 4 ag. 1303 ("Homo quidam erat dives qui habebat villicum", Luca 16, 1), partendo dal presupposto rigoristico che ogni ricchezza va considerata "mammona iniquitatis". Sull'usura egli ritorna in tutta la sua predicazione, e non trascura di esporre i principî teorici che ne giustificano la condanna. La summa del suo pensiero sui contratti e sull'usura si trova in due prediche fondate sul Vangelo della cacciata dei venditori dal tempio: la prima tenuta a Firenze il 14 marzo 1306 ("Auferte ista hinc", Giovanni 2, 13), l'altra a Pisa probabilmente nel 1309 ("Et eieciebat omnes ementes et vendentes in templo", Matteo 21, 12). L'argomentazione è tradizionale: l'usuraio vende il tempo, vende il nulla; ma la condanna della vendita impropria dell'usus del denaro è impostata secondo il trattato De peccato usure di Remigio de' Girolami, ispirato a sua volta dal De malo di Tommaso d'Aquino. Dalla dottrina del magister fiorentino derivano, con irrigidimenti e chiusure addebitabili al contesto omiletico, anche le osservazioni sulle forme di usura palliata (venditio ad terminum, accomandigia). Quando G. inizia la sua predicazione il regime dei guelfi neri è ancora instabile ed è turbato dai tentativi di rivincita dei fuorusciti, definitivamente stroncati nel 1304. I riferimenti precisi ai fatti militari e ai rivolgimenti politici non sono molti nelle prediche di G., e sono stati raccolti dagli storici, a cominciare dal Davidsohn; ma in tutta la sua predicazione G. insiste sulle divisioni politiche, sulla violenza, sulla barbarica consuetudine della vendetta nella quale è riposto l'onore delle casate. La violenza, l'omicidio, la superbia feudale, tutto ciò che trova espressione nelle alte torri battute dal vento, si oppone alla dottrina politica del bene comune, identificato nella pace, che si fonda sulla concordia dei cittadini. Anche per queste idee G. utilizza i trattati del Girolami: il De bono communi, scritto durante il periodo delle agitazioni fiorentine del 1302, e il De bono pacis databile all'estate del 1304.
G. è convinto che la predicazione implica una funzione educatrice degli intelletti grossi e "carnali" dei Fiorentini. Il suo impegno intellettuale raggiunge il culmine nei due cicli di lezioni sul Credo e sul Genesi. Il disegno generale di quello che si può definire come un vero e proprio trattato sul Credo si ispira a quella parte della dottrina agostiniana che distingue fra "credere a Dio", "credere Dio" e "credere in Dio". Le prime lezioni espongono i fondamenti razionali e scritturali della fede, e sono la premessa alla trattazione propriamente teologica, tutta sostanziata da un'entusiastica presentazione del De divinis nominibus dello pseudo Dionigi. Dalla conoscenza esplicita della fede discende poi l'ortoprassi. Le digressioni morali non mancano, soprattutto nell'esposizione dell'articolo Crucifixus etiam pro nobis o Trattato della Passione, dove si notano immagini e argomentazioni che anticipano lo Specchio di Croce di Domenico Cavalca. Nel complesso prevale l'impegno intellettuale tenuto costantemente sul filo di un'impostazione apologetica. La tesi fondamentale, in linea con la dottrina di s. Tommaso, è che la fede cristiana non contraddice, ma supera la filosofia antica. G. passa in rassegna le antiche scuole filosofiche, che culminano nel pensiero di Socrate, Platone e Aristotele (lezione dell'11 marzo). Questo scorcio di storia della filosofia, così vicino a certe pagine del Convivio dantesco (per es., IV vi) viene più volte ripetuto dal predicatore, e con particolare efficacia in una predica della quaresima del 1306 (26 marzo: Quaresimale fiorentino [=QF], LXXV, 29-31): "Il sommo filosofo e il re de' filosofi", Aristotele vide che la felicità è nell'esercizio della virtù speculativa, è "sapienza e cognoscimento de le cose divine"; "Acordossi Cristo con Aristotile: quel disse che la fede nostra, revelòglile Idio". Anche nell'etica vi è una continuità e un superamento del mondo antico. I Romani si mettevano nei pericoli, disprezzavano i diletti per amore di gloria; i santi, gli eremiti e i martiri li vincono perché lasciano tutto senza cercare alcun compenso, eccetto l'amore di Cristo (lezione del 14 marzo). Al di fuori di questa linea di continuità predisposta dalla provvidenza sono i saracini, gli ebrei e i popoli pagani. Nel trattato sul Credo G. si occupa soprattutto della religione islamica, accusata di offendere la ragione umana e di sviare i suoi fedeli con immagini sensuali della beatitudine. Egli dimostra una non comune informazione sul mondo arabo: cita alcuni passi del Corano e allude a costumi che poté conoscere attraverso le opere di Riccoldo da Monte di Croce, tornato dall'Oriente a S. Maria Novella nel marzo 1301. E. Panella ha notato precisi calchi dal Liber peregrinationis, e ha osservato che la disquisizione sul termine "soldano" nella predica del 15 marzo 1306 (QF, LIV 10) presuppone la conoscenza della traduzione araba del Vangelo di Giovanni. Come i saracini, così gli ebrei non possono credere alle affermazioni "audaci" della teologia (lezione del 9 marzo); ma i primi rispettano Cristo, gli altri "il maladichono tuttodì; et e' sono in odio di tutte le genti" (V, c. 22v). L'atteggiamento di G. nei confronti degli ebrei oscilla fra una tradizione agostiniana di tolleranza e l'aggressività polemica propria degli ordini mendicanti, i quali combattono la religione ebraica considerandola un'eresia, cioè un'alterazione delle Scritture. Nella festa del Salvatore del 1304 (9 settembre), dal pulpito esterno del duomo, egli pronuncia una predica sul tema "Cristum crucifigentes rursum in semetipsis" (Hebr. 6, 6), ripetendo tutti gli stereotipi della predicazione antigiudaica: dall'accusa di assassinio rituale ai racconti di profanazione dell'ostia. A Firenze, come osserva il Lotter, non esistevano gravi problemi nei rapporti tra cristiani ed ebrei: G. è più aderente alla realtà quando descrive rispettosamente i riti della Pasqua ebraica (15 apr. 1305) o quando ricorda il buon ebreo che gli insegnava a "leggere giudeesco" (1° genn. 1304; ed. Manni, p. 86). Il trattato sul Credo è programmaticamente rivolto a debellare ogni forma di eresia, "ben XL eresie", come il predicatore afferma all'inizio del ciclo (V, c. 8r); ma poi egli si limita ad accennare alle grandi eresie delle origini: il manicheismo, l'arianesimo, l'eresia di Sabellio. Se insiste su alcune di esse, lo fa con l'attenzione rivolta alle preoccupanti continuazioni moderne. Così Mani ("Maniceio") ha trasmesso la sua eresia "inn altri mali paghani e ne li mali cristiani, et speçialmente di quella resia, che non credettoro che altro mondo fosse che questo" (5 aprile: V, c. 70v). Dell'eresia ariana si parla a lungo nella lezione del 9 aprile, e con notevole impegno dottrinale; ma anche in questa trattazione spunta una viva preoccupazione del presente, per quei "matti" che, trascurando la divinità di Cristo, "non si churano se nnon dell'umanitade" (V, c. 82r).
Più ambiziosa del trattato sul Credo è l'esposizione di un libro della Bibbia, il Genesi, che si può configurare anch'essa come un vero e proprio corso di lezioni. L'impresa di commentare il primo libro della Bibbia aveva illustri modelli nell'omiletica latina (da s. Gregorio a s. Bernardo a s. Bonaventura), ma era nuova e audace in volgare, e non verrà ripetuta fino al Savonarola. Il disegno generale dei tre cicli (quello fiorentino sul capitolo I e i superstiti cicli pisani sui capitoli II e III) segue la falsariga del De Genesi ad litteram di s. Agostino, e la Glossa ordinaria (che ne riporta ampi estratti); ma per ognuno dei tre capitoli G. ricorre a molteplici fonti, mettendo a frutto la sua notevole cultura filosofica e scientifica. Egli porta sul pulpito il linguaggio e la problematica della scuola e in pochi anni dà una sintesi catechistica nella quale convergono temi di teologia e applicazioni pastorali. Le questioni morali occupano molto spazio nel commento al capitolo III, dove si toccano i punti cruciali della "politica del paradiso": tentazione e caduta dei progenitori, libero arbitrio e schiavitù del peccatore, colpa e redenzione. Nel commento al capitolo II prevale la descrizione dell'Eden, che ricorda temi presenti nella letteratura di viaggi nell'oltremondo, familiare ai domenicani: dalla leggenda di Macario alessandrino alla leggenda del paradiso terrestre, testi che verranno volgarizzati e spesso ricopiati nel libro IV delle Vite dei santi padri. Non che le questioni esposte in questo ciclo siano di poco peso: le lezioni sulla geografia del paradiso deliziano, sull'alimentazione dei progenitori, sul modo col quale avrebbero procreato, espongono la dottrina raccolta da Pietro Lombardo nelle Sententiae e da Pietro Comestore nell'Historia scholastica. Il corso fiorentino sul capitolo I rappresenta lo sforzo più riuscito per tradurre in volgare il linguaggio della speculazione scolastica. Come Dante, così G. percorre tutta la geografia dell'oltremondo, ma procedendo dall'Empireo al centro della Terra, lungo uno spazio verticale dove si muovono e si scontrano solo gli angeli e i demoni, vuoto di ogni presenza umana storicamente precisata. Il corso è costruito come un dittico: la prima parte, nettamente più ampia, descrive la creazione degli angeli, la loro disposizione gerarchica nella corte celeste, il loro ufficio. Le fonti dichiarate sono il De coelesti hierarchia dello pseudo Dionigi e, in secondo luogo, s. Agostino, Beda e s. Gregorio. La seconda parte (a cominciare dalla lezione del 10 aprile) è dedicata alla demonologia. Al centro del trattato (2 aprile) è la "pugna" delle due schiere, che si svolge nell'Empireo al principio del mondo: da una parte la volontà di signoreggiare che muove Lucifero, dall'altra l'amore di Dio, che sostiene Michele e la sua schiera. Il corso è costruito con abili simmetrie. Nella lezione del 1° aprile si tratta dei tre paradisi: quello terrestre, dove fu creato l'uomo; quello celeste ove furono creati gli angeli; e quello indicato come visione di Dio. Il 12 aprile G. descrive invece i tre luoghi infernali: la zona fredda e tenebrosa nell'aria intermedia tra gli strati alti vicini alla sfera del fuoco e l'atmosfera terrestre; l'inferno che sta nel ventre della Terra, dove tutti i demoni saranno rinchiusi dopo il Giudizio universale; e un inferno provvisorio, nell'aria di sotto, dove i demoni stanno "quando venghono ad noi ad tentare" (V, c. 178r). Le lezioni tenute dal 3 al 9 aprile distinguono natura e offici dei cori angelici, distinti in tre gerarchie, ognuna delle quali include tre ordini. Le lezioni del 24 e 25 aprile riguardano le funzioni dei demoni. Qui l'attenzione è rivolta non tanto alla loro natura e ai loro nomi, quanto ai metodi escogitati dai demoni per tentare gli uomini. A volte angeli e demoni sono oggetto di un unico discorso, come avviene nella predica del 29 marzo, dedicata alle apparizioni degli spiriti e ai criteri utili per discernere i buoni dai cattivi. È una sorta di invito all'esplorazione del fantastico medievale: i demoni appaiono in forme di animali ripugnanti (gatte, serpi, rospi e becchi) o di mostri, e se assumono aspetto umano hanno il colore scuro dei saracini, e compaiono in luoghi tenebrosi. Al contrario gli angeli appaiono in figura d'uomini bellissimi o di donzelli, di colorito bianco e in veste candida, in piena luce. L'esegesi biblica e la dottrina neoplatonica dei "santi" si compone nella predicazione di G. con la cultura dei "savi": un fondo di dottrina aristotelica aperto alla curiosità per la fisica, la geometria, le scienze naturali. Lo stile giordaniano si vede fin dall'inizio del corso, quando si dà la spiegazione dei termini celum e terram. Dopo avere spiegato che all'inizio furono create quattro cose (l'Empireo, gli angeli, i cieli di sotto e i quattro elementi), il predicatore osserva che se ne potrebbe aggiungere un'altra, cioè il tempo, definito secondo Aristotele (Metaph., IV 11) come misura dell'ordine del movimento delle cose. Nella terza lezione osserva che secondo le ragioni naturali il volgimento dei cieli è eterno, e dovremmo consentire con questa dottrina se la Scrittura non rivelasse che il movimento trae origine da un atto di volontà divina (V, c. 115v). Giunto a trattare dell'inconoscibilità degli angeli, i quali in quanto puri spiriti si sottraggono alla conoscenza dei sensi, egli propone una famosa similitudine aristotelica (Metaph., II 993b), paragonando l'intelligenza umana all'"occhio dell'ucciello di notte" che guardi nel sole.
Sebbene spiegasse le sottigliezze della teologia, G. non era certo di quelli che si rifiutavano, come rimprovera il Cavalca (I frutti della lingua, cap. XXVIII), di predicare "gli esempi e li miracoli delli santi". L'uso dei materiali agiografici dovette essere ampio, e non solo nelle prediche sui santi. Gran parte di questi riferimenti è caduta per una scelta precisa degli uditori, che tralasciarono come inutili le esposizioni letterali del Vangelo e le leggende. Eccezionalmente sono stati conservati per intero i racconti che concludono le prediche per la festa dei Ss. Simone e Taddeo (28 ott. 1304), per S. Orsola e le Undicimila Vergini (non datata), per S. Gregorio (12 marzo 1305). Il repertorio agiografico è quello fissato dalla liturgia, e include i santi più venerati a Firenze, come s. Reparata e s. Miniato. Tra i santi recenti pochissimi sono oggetto di un panegirico o sono menzionati di passaggio. La predica per s. Domenico (5 ag. 1303), fondata sulla bolla di canonizzazione e sulle testimonianze ai processi di Bologna e di Tolosa, è di particolare importanza per comprendere l'immagine che l'Ordine dei predicatori aveva di se stesso. I motivi più profondi sono la contrapposizione della santità "utile" di Domenico all'eroismo nascosto degli eremiti egiziani (Paolo e Macario), e l'orgoglio di essere i veri iniziatori della predicazione moderna. Anche s. Francesco è oggetto di particolare attenzione: nel panegirico del 4 ott. 1304 viene ricordato sì come predicatore di penitenza, ma soprattutto per le stimmate. Sulla questione G. ritorna nella predica del 30 nov. 1304, sul tema "Christo crucifixus sum cruci" (Gal. 2, 19): seguendo l'interpretazione proposta da s. Tommaso e da una serie di predicatori domenicani recentemente studiati da J.-L. Bataillon: "si crede che messer Sancto Francesco ricevesse le piaghe per assidua meditatione della passione di Christo" (manoscritto Canon. Ital. 132, c. 42vb).
Da quando le prediche di G. entrarono nel canone delle opere citate dal Vocabolario della Crusca, esse, per dirla con Giuseppe De Luca, "morirono come testi spirituali e nacquero come testi letterari". Oggetto di studio di linguisti e lessicografi, G. piacque a scrittori come G. Carducci, il quale lo definì (nelle pagine polemiche del Ça ira) "scrittore molto più dilettevole e garbato e acuto e arguto che non i direttori dell'Opinione e della Nazione" (Ediz. nazionale, XXIV, p. 394). Si aggiunse come nuovo motivo di interesse, a cominciare dagli studi di A. Galletti e F. Maggini, la ricerca delle consonanze di idee e di lingua con la poesia di Dante.
La piena valorizzazione dell'opera giordaniana si è imposta negli ultimi trent'anni sull'onda degli studi dedicati alla predicazione medievale. Quelli che potevano sembrare aridi e secchi riassunti si sono rivelati salde composizioni retoriche costruite secondo il modello del sermo modernus, codificato dalle Artes praedicandi: un discorso centrato sulla spiegazione del thema (il versetto biblico ricavato dalla liturgia del giorno). G. segue le norme della scuola domenicana, e conosce probabilmente l'ars del confratello Giacomo da Fusignano, attivo nella provincia romana, ed è attento ai concreti esempi di Remigio de' Girolami. Sebbene le artes enumerassero fino a dodici modi per svolgere o dilatare il thema, essi si possono ridurre a tre: rationes, auctoritates, exempla. Gli studi recenti sulla narrativa esemplare, suscitati in particolare dalla storiografia francese, hanno indotto a una considerazione più precisa e sfumata delle ricchezze narrative incluse nel corpus giordaniano. Exemplum, nel senso ristretto del termine, indica un racconto breve, ricavato da una fonte scritta o dalla cronaca o dall'esperienza del predicatore, e utilizzato per illustrare e provare un punto del discorso dottrinale. Ma accanto ai racconti veri e propri G. ha utilizzato tutte le forme dell'argomentazione esemplare (exempla ficta, proverbi, fiabe), e dimostra di conoscere il repertorio giullaresco, citando il Serventese di tutte le arti di Ruggieri Apugliese (23 febbr. 1305). Nell'uso linguistico di G., e nella terminologia delle artes e delle summe di esempi, vi è uno scambio e una sovrapposizione tra exemplum e similitudine. La vivacità dello stile giordaniano deve molto all'uso delle similitudini, le quali si riferiscono sia alla realtà quotidiana, soprattutto alle pratiche commerciali, sia alle scienze: non solo alla pseudoscienza dei bestiari e dei lapidari, ma anche alla geometria, all'astronomia, all'ottica, alla medicina. Il topos evangelico e patristico di Cristo medico, venuto per sanare l'umanità corrotta dal peccato, gli consente di stabilire un sistema di immagini, recentemente indagato da C. Iannella, dove la figura del malato e quella del peccatore sono in costante rapporto di alternanza e di sovrapposizione.
Dopo le illuminanti osservazioni di B. Terracini, a partire dagli anni Ottanta gli storici della lingua (V. Coletti, P. D'Achille) hanno rivolto la loro attenzione alla sintassi usata da G., che riprende i modi del parlato. La sua lingua è caratterizzata da figure retoriche tipiche dell'iterazione (per es., l'anafora), e dal parallelismo antitetico, che è poi la modulazione fondamentale dell'oratoria sacra. La lingua parlata si avverte soprattutto nella progettazione informale della frase, con frequenti concordanze a senso e con l'uso abbondante dell'anacoluto e della prolessi. Il rapporto faccia a faccia tra il predicatore e l'uditorio sviluppa una serie di fenomeni tipici dell'enunciazione (interrogative, esclamative, ingiuntive), dà spazio alla deissi (a volte con richiami espliciti agli affreschi e alle immagini presenti nel luogo dove si svolge la predica); privilegia la contrapposizione dei pronomi personali (io/tu). Il dialogo fittizio o sermocinatio e la tecnica del discorso riportato tengono desta l'attenzione del pubblico evitando che il discorso, anche nei momenti di forte impegno dottrinale, assuma l'andamento del trattato.
Le prediche di G. non sono state ancora tutte edite. Si veda il censimento posto in appendice a C. Delcorno, G. da P. e l'antica predicazione volgare, Firenze 1975, pp. 12 s., 14, 291-411, 451 e G. Baldassarri, Nota ai testi degli esempi di G. da P., in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini - G. Baldassarri, II, Roma 1993, pp. 467-485 (tenendo conto anche delle precisazioni contenute in C. Delcorno, Nuovi studi sull'"exemplum". Rassegna, in Lettere italiane, XLVI [1994], pp. 479 s.). Sulla tradizione manoscritta, cfr. C. Delcorno, Per l'edizione delle prediche di frate G. da P., in Studidi filologia italiana, XXII (1964), pp. 25-164; Id., Nuovi codici delle prediche di frate G. da P., ibid., XXIV (1966), pp. 39-52; Id., Prediche inedite di G. da P., ibid., XXVI (1968), pp. 81-89; Id., Introduzione a Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306, a cura di C. Delcorno, Firenze 1974, pp. XII, CLXVII s.; Id., Prediche di G. da P. attribuite a Taddeo Dini, in Xenia Medii Aevi historiam illustrantia oblata T. Kaeppeli O.P., a cura di R. Creytens - P. Künzle, Roma 1978, I, pp. 417-443; Id., Nuovi testimoni della letteratura domenicana del Trecento (G. da P., Cavalca, Passavanti), in Lettereitaliane, XXXVI (1984), pp. 577-587; D. Franceschini, Un ritrovato codice di prediche di G. da P., ibid., XLIII (1991), pp. 570-586; M.G. Bistoni Grilli Cicilioni, Un libro da bisaccia. Il codice 44 dell'Archivio comunale di Monteprandone, Roma 1996, pp. 214 s.; I manoscritti del Fondo Certosa di Calci nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, a cura di G. Murano, Firenze 1996, p. 75; G. Auzzas - C. Delcorno, Inventario dei manoscritti di prediche volgari inedite (Biblioteche dell'Italia centro-settentrionale), in Lettere italiane, LI (1999), p. 616.
Edizioni delle prediche di G.: S. Antonino, Confessionale, s.e. (forse tip. Dell'Antonino), s.l. 15 apr. 1472 (Indice generale degli incunaboli [=IGI], 661]). Alle cc. 81-90 (num. moderna) si trova la predica pisana non datata per il giovedì santo sul versetto "Probet autem se ipsum homo" (1 Cor. 11, 28): cfr. G. Petrocchi, Scheda giordaniana, in Studi di filologiaitaliana, XXIV (1966), pp. 53 s. Expositione sopra evangeli […] per Frate Simone da Cascia, Firenze, per Bartolomeo di Francesco de' Libri, 24 sett. 1496 (IGI, 3703): alla fine del terzo libro, cc. LXXXVIva-LXXXVIIvb, si trovano le due prediche sul giudizio universale del 21 febbr. 1306 corrispondenti alle prediche XI e XII del Quaresimale fiorentino. Prediche del beato frate G. da Rivalto dell'Ordine dei predicatori, a cura di D.M. Manni, Firenze 1739; Prediche sulla Genesi recitate in Firenze nel 1304 dal b. frate G. da Rivalto dell'Ordine dei predicatori, a cura di D. Moreni, Firenze 1830; Prediche del b. fra G. da Rivalto recitate in Firenze dal 1303 al 1304, a cura di D. Moreni, Firenze 1831; La vita attiva e contemplativa, predica di frate G., a cura di P. degli Emili, Verona 1831; Tre prediche inedite del b. G. da Rivalto, colla nuova lezione di una quarta, a cura di E. Narducci, [1857], pp. 71-133); Prediche inedite del b. G. da Rivalto dell'Ordine de' predicatori, recitate in Firenze dal 1302 al 1305, a cura di E. Narducci, Bologna 1867 (il Narducci si è fondato su copie di G. Bencini, in parte riconosciute da N. Caturegli in Codici e manoscritti della Biblioteca arcivescovile cardinale P. Maffi, Pisa, in Boll. stor. pisano, XXXI-XXXII [1963], pp. 246 s.); Mistici del Duecento e del Trecento, a cura di A. Levasti, Milano 1935; F. Maggini, Saggi di prediche inedite di G. da Rivalto, in Studi di filologia italiana, V (1938), pp. 29-40; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306, a cura di C. Delcorno, Firenze 1974; C. Delcorno, La predicazione nell'età comunale, Firenze 1974, pp. 98-104 (predica del 1º genn. 1304); Giordano da Pisa, Sul terzo capitolo del Genesi, a cura di C. Marchioni, Firenze 1992; Id., Prediche inedite (dal ms. Laurenziano, Acquisti e doni 290), a cura di C. Iannella, Pisa 1997 (solo il n. II è già stato pubblicato in edizione fuori commercio: Del Vangelio della nave, a cura di C. Delcorno, Pisa 1978); Prediche sul secondo capitolo del Genesi, a cura di S. Grattarola, premessa di C. Delcorno, Roma 1999. Molti passi rimasti inediti si trovano ora nell'antologia di Racconti esemplari…, a cura di G. Varanini - G. Baldassarri, cit. Esistono anche numerose ristampe delle edizioni delle prediche di Giordano. L'edizione curata dal Manni fu ristampata da L. Muzzi col titolo Prediche del beato f. G. da Rivalto ridotte a migliore lezione ed alla moderna ortografia, Bologna 1820-21; le Prediche del beato fra G. da Rivalto dell'Ordine dei predicatori recitate in Firenze dal 1303 al 1309. Prima edizione milanese riordinata cronologicamente, Milano 1839, sono una ristampa dell'ed. Manni e dell'ed. Moreni del 1831; nella stessa collana dell'ed. precedente (Biblioteca scelta, vol. 383) fu ristampata, sempre nel 1839, l'edizione Moreni del Genesi. Deriva dalla ristampa curata dal Muzzi e dal Genesi del Moreni la scelta presente nell'antologia curata da G. De Luca, Prosatori minori del Trecento, I, Scrittori di religione, Milano-Napoli 1954.
A G. si attribuisce anche la revisione dei capitoli della Compagnia della Croce: cfr. G. Coen, I capitoli della Compagnia del Crocione composti nel secolo XIV, Pisa 1895. Alcuni passi sono stati ristampati in appendice alle Prediche scelte, a cura di P.G. Colombi, Firenze 1924, e più recentemente da G.G. Meersseman, Le congregazioni della Vergine, in Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, a cura di G.G. Meersseman - G.P. Pacini, II, Roma 1977, docc. 42-43.
Fonti e Bibl.: Chronica antiqua conventus S. Catharinae de Pisis, a cura di F. Bonaini, in Arch. stor. italiano, s. 1, VI (1845-48), pt. II, pp. 451-467. Le altre fonti della biografia di G. sono tutte citate dallo studio di C. Delcorno, G. da P. e l'antica predicazione volgare, cit., pp. 3-28, al quale si aggiunga: E. Panella, La Cronaca di S. Caterina da Pisa usa lo stile pisano?, in Memorie domenicane, n.s., XVI (1985), pp. 326-334. Da consultare, anche se invecchiato, lo studio di A. Galletti, Frà G. da P. predicatore del secolo XIV, in Giornale storico della letteratura italiana, XXXI (1898), pp. 1-48, 193-243; XXXIII (1899), pp. 193-264. Per una collocazione del corpus giordaniano nella storia della predicazione si veda L.-J. Bataillon, La prédication au XIIIe siècle en France et Italie. Études et documents, Aldershot 1993; R. Rusconi, La predicazione: parole in chiesa, parole in piazza, in Lo spazio letterario, 1, Il Medioevo latino, II, La circolazione del testo, Roma 1994, pp. 590-596; e le relazioni in La predicazione dei frati dalla metà del '200 alla fine del '300. Atti del XXIIConvegno internazionale,Assisi…1994, Spoleto 1995; L.-J. Bataillon, Les stigmates de saint François vus par Thomas d'Aquin et quelques autres prédicateurs dominicains, in Archivum Franciscanum historicum, XC (1997), pp. 341-347; La parole du prédicateur, Ve-XVe siècle, a cura di R.M. Dessì - M. Lauwers, Nice 1997. Tralasciando riferimenti saltuari a G., frequenti negli studi sulla predicazione medievale, si indicano solo i contributi sul pensiero, sulla formazione culturale, sulla retorica, sui rapporti con le arti figurative: Ch.-M. de La Roncière, L'Église et la pauvreté à Florence au XIVe siècle, in Recherches et débats, Paris 1964, pp. 47-66; Id., Pauvres et pauvreté à Florence au XIVe siècle, in Études sur l'histoire de la pauvreté, a cura di M. Mollat, II, Paris 1974, pp. 686 s., 727 s., 730 s.; F. Cardini, Un contributo alla conoscenza di G. da P., in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XXVIII (1974), pp. 133-141; G. Barone, L'Ordine dei predicatori e le città. Teologia e politica nel pensiero e nell'azione dei predicatori, in Les ordres mendiants et la ville en Italie centrale (v. 1220-v. 1350), in Mélanges de l'École française de Rome. Moyen Âge-Temps modernes, LXXXIX (1977), pp. 609-618; D.R. 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Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevii, III, p. 52; IV, pp. 177 s.; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, V, pp. 129-132; Il grande libro dei Santi: Dizionario enciclopedico, diretto da C. Leonardi et al., II, Cinisello Balsamo 1998, pp. 820 s.