RUFFO, Giordano
– Nacque intorno all’anno 1200 in una località imprecisata della Calabria (Gerace [RC] o S. Onofrio del Cao [VV], o Catanzaro, o Tropea [CS]), dalla nota famiglia aristocratica, non priva di interessi scientifici e letterari ma soprattutto attiva in campo politico e militare a sostegno di Federico II.
Di Folco (morto il 1276), fratello di Ruffo, si conserva un componimento poetico (inc.: D’amor distretto vivo doloroso) nel canzoniere Vaticano lat. 3793 (V, c. 54r; l’autore è detto «messer Folco di Calavra»). Lo zio Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, forse l’esponente più illustre e in vista della famiglia, fu magister et provisor super aratiis et marescallis Calabrie (gennaio 1240), giustiziere di Sicilia (maggio 1240), imperialis marescallae magister (fine 1243-inizi 1244), vicario imperiale di Sicilia e di Calabria (1247). A testimonianza della familiarità dei Ruffo con l’Imperatore, Folco e Pietro furono chiamati a sottoscrivere il (secondo) testamento di Federico II poco prima della sua morte (13 dicembre 1250).
Nel 1239, in occasione di una importante riorganizzazione amministrativa del regno di Sicilia, a Ruffo fu affidata la castellania di Montecassino, ma è attestato anche come signore della Val di Crati (attuale Calabria settentrionale) e direttamente impegnato in attività di guerra. Alla morte di Federico II (1250), Ruffo e l’intera famiglia si schierarono contro Manfredi, figlio naturale dell’Imperatore e di Bianca Lancia, in favore quindi di Corrado IV, legittimo erede al trono di Germania e di Sicilia. Dopo la morte improvvisa di Corrado IV (Lavello, 21 maggio 1254) Ruffo fu catturato dalle truppe di Manfredi, imprigionato e torturato con la privazione della vista. Morì segregato in prigione poco dopo il febbraio del 1256. Aveva sposato una certa Belladama, ancora viva nel 1291, dalla quale ebbe almeno un figlio (chiamato verosimilmente Pietro).
Per quanto ad oggi è dato sapere, Ruffo è autore di una sola opera, conosciuta coi titoli (ormai invalsi nella tradizione, ma in passato discussi) di De medicina equorum o Hippiatria.
È priva di qualsiasi fondamento l’attribuzione al nobile maniscalco dell’imperatore Federico II di un piccolo trattato di veterinaria riguardante la sanità dei buoi e dei bufali (trasmessoci dal manoscritto Ravenna, Istituzione Biblioteca Classense, 273; sull’argomento cfr. Montinaro, 2015, p. 14).
Il De medicina equorum fu scritto molto probabilmente in latino subito dopo la morte di Federico II (tra il 1250 e il 1256), e può essere a ragione considerato come uno dei primi trattati di arte veterinaria dell’Italia medievale. Nella cospicua produzione letteraria che ebbe luogo dentro e intorno alla corte federiciana, non mancarono celebri trattati aventi a soggetto gli animali (il De animalibus di Avicenna tradotto da Michele Scoto, il De arte venandi cum avibus dello stesso Imperatore). Ma il nesso con l’opera di Ruffo resta generico, poiché il testo è scritto in prima persona mettendo in rilievo la lunga esperienza acquisita dall’autore nelle scuderie imperiali e omettendo qualsiasi riferimento a eventuali fonti o modelli. Sembra da escludere anche il riferimento alle fonti latine antiche: la Mulomedicina di Vegezio, utilizzata forse per la prima volta dal domenicano Teodorico Borgognoni (1205-98) sullo scorcio del secolo; Chirone, che è stato proposto come fonte di alcuni dati isolati, gli agronomi latini (Columella, Varrone e Palladio, che al cavallo avevano dedicato alcuni capitoli all’interno delle loro opere). Anche le traduzioni latine delle opere più importanti della tradizione ippiatrica bizantina (i due libri di Ierocle dedicati alla cura dei cavalli, tradotti da Bartolomeo da Messina alla corte di re Manfredi, dunque tra il 1258 e il 1260; l’Epitome del veterinario Ippocrate, eseguita da Mosè da Palermo su richiesta di Carlo I d’Angiò intorno al 1277, servendosi di una mediazione araba) sono posteriori al De medicina equorum di Ruffo, che potrebbe così qualificarsi come il testo che, se non introdusse, per lo meno favorì la conoscenza del sapere ippiatrico nell’Italia meridionale. L’opera è il risultato dell’esperienza diretta dell’autore, alla quale si affiancano consigli e suggerimenti che sarebbero da ricondurre all’Imperatore medesimo, alla cui memoria essa è dedicata. I destinatari vengono identificati all’inizio del prologo, sono coloro «qui equis assidue coutuntur, ipsorum specialiter, qui ad honorem militarem et bellorum assiduam probitatem nobiliori animo delectantur» (Jordani Ruffi Calabriensis Hippiatria, 1818, p. 1 rr. 7-10).
Il prologo annuncia un trattato diviso in sei parti (la riproduzione, l’addestramento del puledro, la ‘manutenzione’ dell’animale, le qualità e i difetti, le malattie, le cure): ma sono queste ultime due, come già nei modelli arabi, il nucleo sostanziale, che conferiscono all’opera i connotati di un vero e proprio trattato veterinario. Al centro dell’interesse non sono gli animali da lavoro o da tiro (e tanto meno asini, muli e bardotti, talvolta presenti nella trattatistica antica, in specie bizantina), ma il cavallo ‘nobile’, mezzo di distinzione sociale; e i destinatari sono coloro che quotidianamente ne facevano uso. Ciò spiega, almeno in parte, l’eccezionale diffusione del testo e delle numerose traduzioni che ben presto se ne fecero nelle più diverse lingue romanze.
La funzione pratica, e la conseguente fortuna, determina non pochi problemi interpretativi e filologici, in particolare per il testo in volgare. Da una parte i volgarizzamenti resero il testo più facilmente accessibile a fruitori spesso tutt’altro che colti, ma dall’altra contribuirono a generare all’interno dell’opera stessa un certo disordine, poiché i copisti (spesso gli stessi fruitori) non esitarono ad aggiungere trattatelli, regole, rimedi, ricette e persino testi apotropaici.
La tradizione del De medicina equorum è caratterizzata in effetti da un numero molto elevato di testimoni; ad oggi si contano 173 manoscritti e 16 stampe antiche. I manoscritti si presentano in otto diverse varietà linguistiche (in ordine decrescente): 94 sono in volgare italiano; 57 in latino; 8 in francese; 6 in tedesco; 2 in catalano; 1 in gallego; 1 in occitanico; e 1 in ebraico; mentre 3 sono i codici bilingui (2 misti latino-volgare italiano; e 1 latino-francese). Le stampe invece sono così distribuite nel tempo: 1 incunabolo (Venezia, Piero Quarengi, 1493; ISTC, nr. ir00350000; IGI, nr. 8468); 14 cinquecentine (la più antica è del 1501, mentre la più recente risale al 1563); e una seicentina (Brescia, Tomaso Ferante, 1611). Da notare inoltre che le edizioni moderne sono piuttosto rare e non di rado poco affidabili.
Per il testo latino, l’unica edizione di fatto ad oggi disponibile è quella già ricordata di Geronimo Molin, Jordani Ruffi Calabriensis Hippiatria (Padova 1818), basata sul codice Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat. VII.24 (= 3677), recentemente ripubblicata, con modifiche non dichiarate, da M.A. Causati Vanni, 2002. Per l’edizione in volgare italiano si segnala: G. De Gregorio, 1905, che fornisce l’edizione di un testimone in siciliano datato 1368 proveniente dalla Biblioteca di San Nicolò l’Arena di Catania e già appartenuto a Pietro Lanza, Principe di Trabia e Butera (‘Codice Trabia’), forse ancora oggi conservato in una collezione privata a Roma (Montinaro, 2015, pp. 191-193); e Y. Olrog Hedvall, 1995, edizione – non priva di imperfezioni – basata invece su di un codice pisano di fine secolo XIII.
L’indiscussa fortuna del trattato di Giordano Ruffo è testimoniata anche dalla forte influenza che l’opera esercitò su tutti gli studi di veterinaria successivi, almeno fino al Rinascimento; basti ricordare, fra i più diffusi e conosciuti, la Mulomedicina (oppure Medela equorum) di Teodorico Borgognoni, vescovo di Cervia (fine secolo XIII); il Livro de Alveitaria di Maestro Giraldo (1318); il De veterinaria medicina, sive liber Marescalciae di Lorenzo Rusio (inizi secolo XIV); la Marescalcia del fiorentino Dino Dini (di metà secolo XIV circa); oppure, più tardi, il Traité d’hippiatrie di Guillaume de Villiers (secolo XV); la Manuschansia di Agostino Columbre (uscita a stampa a Napoli presso Francesco del Tuppo nel 1490); e Gli ordini di cavalcare del fondatore della scuola napoletana di equitazione Federico Grisoni (opera stampata a Napoli, per i tipi di Giovanni Paolo Suganappo, nel 1550).
Tuttavia, a fronte di una diffusione così ampia e alquanto variegata, che richiederebbe una visione e una conoscenza più approfondita dei testimoni e della loro ricezione, il De medicina equorum di Giordano Ruffo non ha mai incontrato il favore degli studiosi (manca ancora l’edizione critica del testo latino), sebbene indubbiamente ricopra un ruolo di grande importanza per tutta la letteratura scientifica in àmbito volgare.
Fonti e Bibl.: Jordani Ruffi Calabriensis Hippiatria, a cura di G. Molin, Padova 1818; G. De Gregorio, Il Codice De Cruyllis in antico siciliano, del sec. XIV, contenente la Mascalcia di G. Ruffo, in Zeitschrift für romanische Philologie, XXIX (1905), pp. 566-606; Hippiatria. Due trattati emiliani di mascalcia del sec. XV. Edizione, introduzione e commento linguistico, a cura di D. Trolli, Parma 1983; La science du cheval au Moyen Age. Le Traité d’hippiatrie de Jordanus Rufus, a cura di B. Prévot, Paris 1991; Giordano Ruffo, Lo libro dele marescalcie dei cavalli. Cod. 78 C 15 Kupferstichkabinett, Berlin. Trattato veterinario del Duecento, a cura di Y. Olrog Hedvall, Stockholm 1995; Giordano Ruffo, Libro della Mascalcia, a cura di P. Crupi, Soveria Mannelli 2002; Nelle scuderie di Federico II imperatore, ovvero L’arte di curare il cavallo di Giordano Ruffo, trad. e glossario di M.A. Causati Vanni, Velletri 2002; Tratado de Albeitaria. Introdución e glosario de J.L. Pensado Tomé, Santiago de Compostela 2004; A tradución galega do «Liber de medicina equorum» de G. Ruffo, a cura di G. Pérez Barcala, A Coruña 2013.
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