ALBERTAZZI, Giorgio
Nacque il 20 agosto 1923 a Fiesole, presso Firenze. Nella sua autobiografia (Un perdente di successo, 1988, p. 2) scrisse che secondo alcuni testimoni (un’espressione volutamente vaga) era nato invece nel centro di Firenze – in Borgo San Jacopo, una strada vicina al Ponte Vecchio – ed era stato battezzato nel Battistero, per poi essere trasportato nella chiesa di San Martino a Mensola, situata alla periferia di Firenze e appartenente al complesso della villa I Tatti di Bernard Berenson, celebre storico dell’arte statunitense.
Il padre Attilio – bolognese e figlio di un vice capostazione morto schiacciato tra due vagoni – lavorava alle ferrovie locali come addetto agli scambi. La madre, Lina Falsini, casentinese – a cui Albertazzi dedicò l’autobiografia sopra menzionata – si ridusse in vecchiaia, per «marasma senile» (ibid., p. 64), a giocare «con una bambolina di pezza che veste e spoglia» (p. 7); morì nel 1987, a 89 anni.
Albertazzi ebbe un solo fratello, Roberto detto Roby, di diciotto mesi più giovane, insofferente alla scuola, mutevole nei mestieri, alla fine emigrato in Canada per fare il muratore, cioè lo stesso mestiere del nonno materno, Ferdinando.
Quest’ultimo lavorava per Berenson, e con la famiglia abitava in una dépendance de I Tatti, separata dall’edificio principale tramite un cancello (che serviva a tenere lontani i ‘paria’) ma pur sempre collocata in quella specie di Arcadia toscana, tra filari di cipressi e giardini degradanti a terrazze. E contigua era La Capponcina, la villa di Gabriele D’Annunzio, dove il Comandante aveva creato e amato (e che aveva dovuto lasciare, per debiti, nel 1910, alcuni anni prima della nascita di Albertazzi).
Davanti agli occhi estasiati di Giorgio fanciullo e poi adolescente, sfilavano automobili lussuose con a bordo le belle signore che si recavano a I Tatti per i rituali anglosassoni del tè: immagini di grande eleganza, appaiate a quelle dei grandi della cultura e dell’arte internazionali, frequenti visitatori della villa. Il tutto non poteva che stimolare fantasie di ascesa sociale in un ragazzo che abitava in un’umile casa contadina, dove il bagno consisteva in un buco con il secchio d’acqua vicino. E crescere nelle vicinanze di quell’ambiente gli fu utile per l’apprendimento delle lingue (dal francese all’inglese) e per stabilire contatti con lo smart set.
Albertazzi frequentò il liceo Michelangiolo, nel centro storico di Firenze, dove nel 1942 conseguì la maturità classica. In quegli anni tirava di boxe e correva in bicicletta (una passione ereditata dal padre).
Nel settembre 1943 aderì alla Repubblica di Salò; venne arruolato nella Guardia nazionale repubblicana (che veniva utilizzata soprattutto nella lotta contro le forze partigiane) e, dopo otto mesi trascorsi nelle scuole allievi ufficiali di Vicenza e di Lucca, fu assegnato, con il grado di sottotenente, alla 1a legione d’assalto ‘M’ Tagliamento.
L’adesione di Albertazzi a Salò fu una scelta legata, nella ricostruzione che egli ne fece (Un perdente di successo, cit., pp. 95-96), al piacere dell’avventura e all’influenza esercitata dallo zio Alfio Manenti, cognato della madre, corridore in motocicletta e grande sciupafemmine, che era stato un fascista ‘della prima ora’ e venne picchiato a morte – sempre secondo l’attore – dagli antifascisti usciti allo scoperto alla fine del luglio 1943, subito dopo l’arresto di Benito Mussolini.
A una simile scelta di campo lo spinsero però anche alcuni nodi ideologici, come l’anticlericalismo, l’adesione alle idee sociali espresse nella cd. Carta di Verona del novembre 1943 (in partic. il punto 12, che stabiliva «la partecipazione agli utili [delle aziende] per parte dei lavoratori») e un mal riposto istinto ribellistico e libertario, sollecitato dal ricordo di quelli che per lui erano miti personali, in un Olimpo piuttosto opinabile, da dirigenti fascisti come Ettore Muti e Italo Balbo ai soldati della divisione paracadutisti Folgore.
Dopo la Liberazione (25 aprile 1945), Albertazzi si trasferì ad Ancona, dove all'inizio del 1946 fondò – assieme a un dirigente della Federazione anarchica internazionale (FAI), il giornalista calabrese Titta (Giovambattista) Foti – una compagnia teatrale che si ispirava alle idee anarchiche, anche se aveva un repertorio articolato, che andava dall'anarchico Pietro Gori al democratico moderato Leonid N. Andreev, e comprendeva anche testi composti dai membri stessi della compagnia. Pubblicò versi sul giornale L’agitazione – organo della Federazione anarchica marchigiana, per il quale Foti scriveva spesso degli editoriali – e allestì pièces sul 1° maggio e sui repubblicani spagnoli, sotto il falso nome di Glauco G. Albe (usato per sfuggire all’epurazione).
Nondimeno, il 9 novembre 1946 venne arrestato, con tre pesanti accuse: di aver collaborato con i tedeschi; di aver partecipato ai feroci rastrellamenti effettuati nel 1944 contro i combattenti della Resistenza negli altopiani veneti e lombardi; di aver comandato il 28 luglio 1944 – a Sestino (Pesaro) – il plotone di esecuzione di Ferruccio Manini, un partigiano che aveva disertato dall'esercito di Salò. Ma si raccontò che nell'aprile del 1945, catturato dalle Brigate garibaldine, sarebbe finito al muro per essere giustiziato e sarebbe stato salvato all’ultimo istante dalla fucilazione (con un colpo di scena che ricorda per alcuni aspetti quanto successo nel 1849 a uno scrittore russo da lui molto amato, Fëdor Dostoevskij). Trascorse così oltre diciotto mesi in carcere (a Firenze, Bologna e Milano). Il 24 aprile 1948 il Tribunale militare di Milano lo riconobbe colpevole di tutte e tre le accuse, ma per la più grave di esse (la fucilazione di Manini) gli riconobbe l'attenuante specifica della 'forza maggiore', perché era stato costretto a obbedire al comando di un superiore (in seguito, in molte interviste e in Un perdente di successo, Albertazzi affermò invece di essere stato prosciolto da quell'accusa per non aver commesso il fatto). Venne però immediatamente liberato, perché i reati di cui era stato riconosciuto colpevole ricadevano tra quelli previsti in una precedente amnistia – il d.l. nr. 487 febbraio 1948, Norme per la estinzione dei giudizi di epurazione e per la revisione dei provvedimenti già adottati – che integrava l’amnistia Togliatti del giugno 1946.
E tuttavia l’episodio gli avrebbe in seguito creato non poche difficoltà, nel corso della sua carriera, con gli ambienti intellettuali di sinistra (con cui pure avrebbe desiderato collaborare) e in particolare, dopo il 1976, con i critici del quotidiano La repubblica, che, come egli sostenne più volte, tendevano a minimizzare i suoi trionfi sul palcoscenico o a ignorare i tanti riconoscimenti da lui ricevuti.
Uscito di prigione, si iscrisse alla facoltà di Architettura dell'Università di Firenze; concluse gli studi nel 1952, senza però arrivare a discutere la tesi.
In generale, nella recitazione il suo spirito di indipendenza lo rese riluttante a essere guidato da un regista, nel timore di venirne soffocato; si veda, per es., il suo sofferto rapporto con Giorgio Strehler. Solo negli ultimi anni di carriera, in una sorta di palinodia, si concesse ad alcuni autorevoli (e dispotici) rappresentanti della messinscena, come, nel 2004, Massimo Castri in Quando si è qualcuno (dalla commedia di Luigi Pirandello) o, nel 2005, Luca Ronconi in Diario privato (dal Journal littéraire di Paul Léautaud, 19 voll., 1954-1966).
Ma il mestiere dell’attore gli andava stretto, e il suo temperamento lo portò ad andare oltre la recitazione: spaziò così dalla sceneggiatura all’attività come autore – maturata sulla scia della sua voracità insaziabile di lettore – e alla regia stessa.
Caratterialmente – con derive che si riflettevano anche sul suo muoversi in scena – manifestò sempre una mescolanza bizzarra di anticonformismo e di disponibilità assoluta, senza limiti di alcun genere, pronto com’era a mettersi in discussione sino all’autolesionismo, lasciando agli altri decisioni anche importanti nel lavoro e nei sentimenti. Fu altresì cosciente sia delle proprie contraddizioni – tipiche di un «Tarzan in frac», come si definì in un autoritratto eloquente (Un perdente di successo, cit., p. 175) – sia della molteplicità di talenti e di pulsioni che gli premevano dentro.
Tendeva, in più, a esibire un’ambiguità su più fronti, per es. unendo gusti raffinati e sport popolari – e intere notti trascorse davanti al televisore, a tifare per le Olimpiadi quando svolte in continenti lontani – perfezionismo professionale e collaborazioni eclettiche e disinvolte – come nel 2000, quando per All’Angelo azzurro di Giuseppe Manfridi (dal racconto Professor Unrat di Heinrich Mann, 1905) si affiancò Valeria Marini – ricerche scientiste e propensione allo spiritismo e all’occulto, vitalità progettuale e disperazione nichilistica, ascetismo e sbandierato erotismo dionisiaco, ovvero il suo duende, nel senso di incantamento – un termine della cultura popolare spagnola reso celebre nel mondo da Federico García Lorca nella sua conferenza Juego y teoría del duende (1933).
Felice di sfoggiare un indubbio glamour femmineo e di essere oggetto del desiderio altrui, non celava il suo compiacimento nel far perdere la testa a tanti, tra cui Luchino Visconti, che invano provò a conquistarlo. Sul piano professionale, Visconti non gli lesinò complimenti enfatici, come il riconoscimento della capacità di impallidire, notata nel 1956 in I coccodrilli di Franco Rossi (dalla commedia di Guido Rocca dello stesso anno) e secondo lui condivisa solo da Eleonora Duse. Tuttavia – a parte il doppiaggio di Jean Marais, peraltro non citato nei titoli di testa, in Le notti bianche, 1957 (dal racconto di Dostoevskij) – non gli diede grandi opportunità di lavoro, rinfacciandogli addirittura la modesta altezza (solo 1 metro e 75!). Ma il fascino sornione che l’attore sprigionava dalla sua figura, tra il dandy disincantato e l’entertainer irresistibile, e dalla sua gestualità flemmatica e sobriamente danzerina, gli attirò consensi fanatici anche nel pubblico maschile e feroci ostilità.
Grazie a un innovativo programma televisivo, Appuntamento con la novella – nato da un’idea di Carlo Terron, un drammaturgo e giornalista che era allora direttore del settore prosa e musica della RAI – nel 1955 Albertazzi fu protagonista di uno dei primi fenomeni divistici nazionali del secondo dopoguerra, e si trasformò all’improvviso in un’icona mediatica, al punto da conquistarsi il diritto a farsi chiamare per nome, come pochi altri nel mondo dello spettacolo, come Dario (Fo), Carmelo (Bene) ed Eduardo (De Filippo). Nel programma leggeva celebri racconti della letteratura, con lo sguardo per lo più fisso sulla pagina posta sopra il leggio – la telecamera, unica, gli inquadrava all’inizio le mani che aprivano ritualmente il libro – ma ogni tanto levato a inseguire i significati delle parole, con brevi pause a prender fiato e folgorare con l’avvenenza della prestanza giovanile. Eclatante il successo, tanto che nel Teatro alla Scala, venne spostato di mezz’ora l’inizio della rappresentazione dell’opera lirica Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni per permettere la visione, in uno schermo posto nell’atrio, della puntata di quella sera di Appuntamento con la novella, con l’attore che recitava da par suo il racconto di Giovanni Verga da cui era tratta l’opera.
Ma a dilatare la fama di Albertazzi in televisione furono – meglio delle tante commedie nelle compagnie di prosa della RAI costituite in quegli anni – gli sceneggiati, più coinvolgenti, per il grande pubblico, della parola scarnificata del dicitore, grazie sia al fascino della recitazione sia al meccanismo delle storie a puntate, secondo l’uso del feuilleton. Fra i tanti a cui partecipò Albertazzi come attore, particolare successo ebbero due sceneggiati tratti da romanzi di Dostoevskij, Delitto e castigo di Franco Enriquez, nel 1954, e L’idiota di Giacomo Vaccari, nel 1959 in sei puntate, in cui fu anche sceneggiatore – quest’ultimo con una media di dodici milioni di spettatori a puntata – nonché l’inquietante Jekyll, da lui stesso adattato (con Ghigo De Chiara e Paolo Levi) e diretto nel 1969 in quattro puntate (dal romanzo The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert L. Stevenson, 1886), e George Sand, da lui scritto nel 1980 (con Angela Bianchini e Massimo Franciosa) e diretto nel 1981 in quattro puntate. Erano astuti arrangiamenti, per lo più partiture centrate su individui contrassegnati da nevrosi e diversità, come l’epilettico principe Lev Myškin de L’idiota, in cui – con i capelli tinti di biondo – si trasfigurò con deciso trasporto, nonostante la sua costante diffidenza nei confronti degli altri (sia persone sia personaggi). Tanto più che questa creatura malata lo attraeva, associata com’era alla figura di Gesù Cristo che da sempre lo intrigava (si v. il suo testo teatrale più autobiografico, Pilato sempre, messo in scena nel 1972, e la sceneggiatura – scritta nel 1973-1974 con Luigi Vanzi e ispirata al racconto di Anatole France Le procurateur de Judée, 1902 – di Verso Damasco, un film che avrebbe dovuto essere diretto da Valerio Zurlini).
Aveva nel frattempo iniziato una carriera anche nel cinema. Fu protagonista (nella parte di Lorenzo de’ Medici) del suo primo film, Lorenzaccio di Raffaello Pacini (1951), basato sull'epopea della celebre famiglia fiorentina, e per il quale ricevette un compenso, insolito per quei tempi, di ben cinquecentomila lire. In seguito, però, gli furono affidati per lo più in piccoli ruoli. Comparve, tra l'altro, in Art. 519 codice penale di Leonardo Cortese (1952), Gioventù alla sbarra di Ferruccio Cerio (1953), I Piombi di Venezia di Gian Paolo Callegari (1953), Tradita di Mario Bonnard (1954) – la cui protagonista era un’ancora poco nota Brigitte Bardot – e Uomini ombra di Francesco De Robertis (1954): apparizioni tutte non significative ma sufficienti a farne risaltare il volto scavato da inquietudine, lo sguardo stralunato, il pallore splenetico di chi si trascina ferite immedicabili. Fu il coprotagonista di L’année dernière à Marienbad di Alain Resnais (L'anno scorso a Marienbad, 1961), in cui, accanto a Delphine Seyrig, recitò in francese senza essere doppiato; il film ricevette il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia e rimase sei mesi in cartellone a New York. Vi furono poi piccole parti in due film di Joseph Losey, Eva (1962) – ma il suo nome non venne neanche citato nei titoli di testa – e The assassination of Trotsky (L’assassinio di Trotsky, 1972), e un'altra parte di coprotagonista, in Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce (1967), dove si trovò a fianco di Monica Vitti, rinnovando così la fortunata collaborazione teatrale del 1964 in Dopo la caduta di Franco Zeffirelli (dal dramma After the fall di Arthur Miller, 1964). Nel 1970 inciampò in un autentico infortunio commerciale con Gradiva, in cui si era molto investito: infatti il film (tratto dal racconto di Wilhelm Jensen, 1903) era da lui diretto, interpretato e cosceneggiato (assieme a Giuseppe Berto e De Chiara), e si avvaleva della consulenza di Cesare Musatti, a riprova del suo coinvolgimento nelle tematiche psicoanalitiche; tuttavia il film non uscì mai nelle sale. Dopo questo insuccesso, Albertazzi diradò notevolmente le sue apparizioni nel cinema (che sospese del tutto tra il 1976 e il 1993), e ritornò a una parte da protagonista solo nel 2003, in L’avvocato De Gregorio di Pasquale Squitieri, film che ottenne il premio Vittorio De Sica e il premio Federico Fellini.
Ma fu la carriera teatrale, coronata da una serie nutrita di premi, ad assorbirlo. Inizialmente lavorò in compagnie di dilettanti della periferia fiorentina. Nel 1949 – dopo alcune esperienze con giovani attori e registi (toscani o provenienti dall’Accademia nazionale d'arte drammatica di Roma, come Vito Pandolfi e Luciano Lucignani) – si conquistò un suo piccolo spazio in La Calandria di Paolo Emilio Poesio (dalla commedia cinquecentesca di Bernardo Dovizi da Bibbiena), dov’era l’istigatore Fessenio. Nello stesso anno ebbe una parte più sostanziosa in Peccato che fosse una sgualdrina di Lucignani (dal dramma seicentesco di John Ford), in cui era Soranzo, il nemico del protagonista Giovanni (interpretato da Raul Grassilli).
Il 21 giugno 1949 avvenne il lancio teatrale vero e proprio – anche perché in tale occasione firmò il suo primo contratto – che si svolse nell’ambito del Maggio musicale fiorentino, in una rappresentazione en plein air, al Giardino di Boboli. Il contesto era di assoluto prestigio, in quanto si trattava di un sontuoso allestimento viscontiano di Troilo e Cressidra di William Shakespeare, in cui egli recitò (seppure con poche battute) nella parte di Alessandro, il paggio dell’eroina (interpretata da Rina Morelli).
Negli anni successivi si dedicò a un impegnativo praticantato, tra gli altri con Guido Salvini – fu Illo, figlio di Ercole/Salvo Randone in Le Trachinie del 1952 (dalla tragedia di Sofocle) e poi primattore in Romeo e Giulietta del 1954 (dalla tragedia di Shakespeare) – e con Luigi Squarzina, che nel 1951, in Detective story (dal dramma di Sidney Kingsley, 1949), inventò per lui il personaggio di un anonimo ubriaco che in una sudicia canottiera declamava le poesie di Walt Whitman.
Nel 1955 entrò a far parte della Compagnia teatrale italiana, a fianco di Renzo Ricci, Eva Magni e Anna Proclemer. Con quest’ultima si unì in un sodalizio artistico e umano di grande rilievo a partire dal 1956, in una chimica emotiva e intellettuale che sul palco fuoriusciva quasi con prepotenza. Con lei – in un binomio che durò in pratica vent’anni – recitò nel 1956 in Il seduttore di Enriquez (dal dramma di Diego Fabbri, 1951) – fu proprio Albertazzi a suggerire un finale diverso da quello originale (il protagonista, conteso da più donne, non si suicidava più), che venne poi accettato dallo stesso Fabbri – e in Requiem per una monaca di Orazio Costa (dalla commedia Requiem for a nun di William Faulkner, 1951), che venne messo in scena come un concerto jazz. L’anno successivo fu la volta de La figlia di Jorio di Squarzina (dalla tragedia di Gabriele D’Annunzio), dove rifulse il suo Aligi dal suono cantilenante, inserito di diritto nella linea melodica che da Ruggero Ruggeri portava a Renzo Ricci; fu durante le repliche di questo spettacolo che i due interpreti divennero appunto una coppia, segnando così la rottura della relazione precedente di Albertazzi con l’attrice Bianca Toccafondi.
Nel decennio successivo si dedicò anche ad alcune regie: nel 1960 con I sequestrati d’Altona (dal dramma di Jean-Paul Sartre), nel 1966 con Come tu mi vuoi (dal dramma di Luigi Pirandello) e nel 1971 con La Gioconda (dalla tragedia di D’Annunzio).
Nel 1963 abbagliò come attore in Amleto di Frank Hauser e poi di Zeffirelli (dalla tragedia di Shakespeare), dove esasperò i contrasti umorali del personaggio, passando da una trepida fragilità a un’aggressività implacabile contro i simulacri del potere. Lo spettacolo ottenne un successo a livello internazionale, consacrato nel 1964 dal parigino Théâtre des nations – dove ottenne il Challenge, riconoscimento attribuito dal Cercle international de la jeune critique al migliore spettacolo dell’anno – dal londinese Old Vic – in tale occasione ricevette i complimenti di attori shakespeariani di alto livello come Laurence Oliver e John Gielgud – e poi da teatri di altri Paesi.
Con la Proclemer Albertazzi recitò inoltre nel 1965 in La governante di Giuseppe Patroni Griffi (dalla commedia di Vitaliano Brancati, 1952), un testo strappato all’oblio imposto per molti anni dalla censura, e che avrebbe poi lui stesso messo in scena due volte (in uno sceneggiato televisivo del 1978 e in uno spettacolo teatrale del 1996). Senza l’attrice, nel 1974 interpretò Il fu Mattia Pascal di Squarzina (dal romanzo di Pirandello, ridotto e adattato da Tullio Kezich), facendone un intellettuale candido ma divorato dai sensi e dalla noia. Nel 1980, in Re Nicolò di Egisto Marcucci (dal dramma König Nicolo di Franz Wedekind, 1902), simulò (o forse no) stati medianici e sciamanici, e una dissipazione delle proprie energie, con improvvise pause a spaventare la platea.
Nel 1981, in Enrico IV di Antonio Calenda (dalla tragedia di Shakespeare) – spettacolo ambientato in una specie di cripta catacombale, che avrebbe ricevuto il premio Curcio – in certi passaggi – memori degli striduli toni di Memo Benassi, cui indirizzò una sussurrata apologia nel primo atto – sembrava alludere al destino stesso dell’attore, tragico clown frustrato nel sentirsi sequestrato dal palco: condannato a mormorare parole di un altro, e privato di qualsiasi identità al di fuori del copione, ancora una volta confessava un certo disgusto per la professione di teatrante, grazia e disgrazia della sua esistenza.
Sempre nel 1981, chiamato da Vittorio Gassman, tenne un corso di recitazione alla Bottega teatrale di Firenze. Nel 1983, in Rosales di Costa (dal dramma di Mario Luzi, 1981), fu Don Giovanni incaricato di uccidere Lev Trockij: una riflessione sul senso della fine.
Nel 1992 Albertazzi interpretò a Taormina O Lear, Lear, Lear di Armand Delcampe (dalla tragedia King Lear di Shakespeare, ridotta e adattata da Paolo Puppa), in cui ribadiva la sua devozione a Shakespeare e al teatro di poesia. Qui, in particolare, esprimeva l’incontro fatale con la vecchiaia, esaminata con spavalda curiosità. E il gioco monologante della follia e del delirio gli consentì di liberare l’esuberanza istrionica, ammiccante alla sala, tra maniere sofisticate ma in lui in fondo divenute naturali. Uno psicodramma, per certi versi, dove il suo ergersi a novello Pigmalione per finzione ritrovava le consuete morbidezze amorose con le giovinette attrici, in questo caso Sara Bertelà/Cordelia. Ma in altri e successivi spettacoli, l’interazione sulla scena tra vecchio interprete e giovani partner avrebbe lasciato trasparire legami autentici nel privato, come nel caso della fulgida Elisabetta Pozzi o della sensuale Mariangela D’Abbraccio, figlie ideali da educare al teatro e allo stesso tempo compagne di vita.
Una complessità emotiva del genere raggiunse il culmine nel 1989 in Le memorie di Adriano di Maurizio Scaparro (dal romanzo Mémoires d'Hadrien di Marguerite Yourcenar, 1951, ridotto e adattato da Jean Launay e Scaparro), che Albertazzi interpretò per molti anni. E in un’intervista – contenuta nel volumetto che accompagnava il DVD dello spettacolo – egli vi ravvisava elementi del disagio generazionale collettivo e personale: «Il nostro è un tempo di incertezze, sconnessioni e frammenti» (Adriano, 2007, p. 6); una poetica postmodernista applicata alla recitazione. Qui, ancora, usò con particolare motivazione espressioni – «multiforme per calcolo», «incostante per gioco», «camminavo sul filo come un acrobata» (p. 11) – che gli consentivano un ritratto sorprendente di sé più che dell’imperatore romano, peraltro frequentatore di scuole di teatro, suo perfetto doppio in quanto teso come lui alla ricerca maniacale della bellezza, stavolta scoperta nell’efebico, adorato Antinoo.
Il percorso teatrale di Albertazzi annoverò oltre un centinaio di titoli, senza però lasciar trapelare un vero amore per la professione. Fu insomma attore con la «coscienza infelice» (Giorgio Albertazzi […], cit., p. 18) e con la frustrazione di scrittore e architetto mancato, vittima non consenziente del lavoro teatrale. A suffragare tale ipotesi, contribuiva l’insolita mescolanza in lui di immedesimazione e di distacco brechtiano – nello specifico, quello elaborato negli anni Cinquanta da Strehler sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano – tra empatia e insofferenza riguardo al personaggio, che sulla ribalta snaturava e scomponeva per restare sé stesso, sentendosi comunque dappertutto estraneo, quasi esule. In un certo senso, si servì delle sue interpretazioni per parlare di sé, in una strategia coniugabile con la paradossale stanchezza verso la propria persona. Anche per distrarsi da queste aporie logoranti, si rese sempre pronto ad assumersi responsabilità istituzionali, pur nella ferma polemica contro i teatri stabili e lo spreco della finanza pubblica, non esitando ad accettare via via la direzione del Festival di Taormina dal 1995 al 2001 e nel 2002 del Teatro di Roma.
Politicamente, Albertazzi si concesse un’indubbia mobilità, tra la giovanile collocazione destrorsa e, in seguito, posizioni che oscillavano da quelle anarcoidi a quelle del Partito radicale (con cui lottò per le leggi sul divorzio e sull’aborto, presentandosi nelle loro liste alle elezioni politiche del 1976, senza successo).
La stessa ricezione che si ebbe in Italia della sua figura fu molto varia. Nel 1989 Roberto Alonge, docente di Storia dello spettacolo nella facoltà di Magistero a Torino, propose di assegnargli un contratto per trenta ore di insegnamento sulla storia del teatro; la proposta venne bocciata – a causa della partecipazione di Albertazzi alla Repubblica di Salò – su richiesta del preside Guido Quazza, seguito poi dall’intero corpo docente (escluso il proponente, che si astenne). All’opposto, un suo spettacolo-recital in onore di García Lorca venne contestato a Roma dai neofascisti, che eressero davanti al Teatro Eliseo una ghigliottina con un fantoccio, decapitato, a sua effigie.
Nel 1996 si candidò alla Camera nel collegio di Tradate (Varese) per il centro-destra, ma venne sconfitto dal rappresentante della Lega Nord. Estroso e capriccioso nei contatti, collaborò con Dario Fo, notoriamente collocato a sinistra, sia in Il diavolo con le zinne del 1997 (ispirato alle inchieste giudiziarie di Antonio Di Pietro, spostate in una farsa tardorinascimentale) sia nella serie di lezioni Il teatro in Italia trasmesse da RAI2 nel 2004.
La voce dal tono metallico, di testa, tesa quasi naturalmente alla versificazione, pareva ideale per il doppiaggio, che in qualche occasione egli rese un po’ aulico. Il rapporto consolidato con la lettura poetica, tramite incisione di dischi e poi di CD di grande impatto nei mercati, fu agevolato dalle sue spiccate attitudini musicali: il concerto-recital Shakespeare-Ellington-Albertazzi-Gaslini del 1982 – con testi, da lui rielaborati, dalle opere di Shakespeare e dalle canzoni di Duke Ellington, e musiche di Ellington rielaborate da Giorgio Gaslini – ne esaltò il binomio corpo/phoné. Il tutto si concretò anche in eventi clamorosi, come nel 2003, allorché salì sulla Torre degli Asinelli di Bologna per far risuonare i versi dell’Inferno di Dante Alighieri, già letti da studente al liceo, sovrastando questa volta circa 25 mila persone, e imitando il suo collega-rivale Carmelo Bene, che l’aveva già fatto nel 1981, ma con ben diverse finalità, nel primo anniversario della strage alla Stazione centrale di quella città.
Insignito nel 1986 del titolo di Cavaliere di Gran croce, nel 2003 ricevette dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi un messaggio augurale in cui si rendeva omaggio alla sua «creatività artistica» e alla sua «profondità interpretativa». Il 10 febbraio 2006 recitò il canto dell’Inferno su Ulisse (il XXVI) nella cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino, a riprova della sua tendenza a mescolare arte, sport e mass media. Nel 2007, a 84 anni, sposò con rito civile Pia De’ Tolomei di Lippa – di ben 36 anni più giovane), dotata di un altisonante blasone aristocratico e discendente dall’omonima eroina dantesca – una delle fedeli ancelle della sua nutrita collezione amorosa. Lo stesso anno, a sancire un’ennesima e improvvisa virata verso la sperimentazione, lui, sempre sospettato di conservatorismo sul piano estetico, non esitò a entrare in sinergia con i protagonisti della scena di ricerca, tratteggiando, con l’abituale narcisismo, tremule senilità denudate: quell’anno, infatti, recitò in Moby Dick di Antonio Latella (ispirato alla lontana al romanzo di Herman Melville) e in Titania la rossa, di cui era anche regista e librettista, dove la commedia A midsummer night's dream di Shakespeare veniva bizzarramente trasposta nel mondo dei rom, con musiche di Andrea Liberovici. Nel 2009, per RAI2 registrò una lettura della Divina commedia in mezzo alle rovine del centro storico dell'Aquila colpita dal terremoto.
Nel 2014, in compenso, Albertazzi prese parte alla trasmissione di varietà di RAI1 Ballando con le stelle, fiero di essere il concorrente più anziano di tutte le edizioni del programma. Nella stagione 2014-2015, a coronamento di una parabola faustiana, diede di fatto l’addio alle scene con il personaggio di Shylock in Il mercante di Venezia di Giancarlo Marinelli (dalla tragedia di Shakespeare).
Morì il 28 maggio 2016, alla Villa Tolomei di Sticciano, dimora della moglie, nella Maremma grossetana. Aveva da poco compiuto 92 anni (inferiore in questo a una nonna scomparsa a 101 anni e a una bisnonna deceduta a 106, almeno secondo i suoi racconti, spesso fantasiosi). Il 29 agosto di quell’anno, a Volterra (Pisa) – dove nel 1994 l’attore aveva aperto un laboratorio di teatro – la locale sezione dell’Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI) contestò con asprezza la proposta del Comune di concedergli la cittadinanza onoraria. Due mesi prima, il 18 giugno, gli organi direttivi dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea avevano emesso un comunicato dal titolo eloquente, Un bastardo che ci lascia, in cui l’attore da poco morto veniva ricordato solo quale feroce rastrellatore di partigiani e civili, dal Grappa alla Valcamonica; tutto il resto, come le sue tante maschere, veniva annullato nell’ostentazione di una memoria fissata per sempre sull’odio.
Testi teatrali: Pilato sempre, Milano 1973 (messo in scena nel 1972); Uomo e sottosuolo, Milano 1976 (messo in scena nello stesso anno); Il silenzio delle sirene, Padova 1997 (messo in scena nello stesso anno); Tragoedia, Siracusa 1988 (messo in scena nello stesso anno).
Testi autobiografici: Un perdente di successo, Milano 1988; Identikit dell’attore italiano: ottanta interpreti del teatro di prosa rispondono a un'inchiesta, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1990, pp. 35-38; Adriano. Ritratto di una voce, con testi di G. Albertazzi, D. Fo, M. Scaparro, Roma 2007, passim; Essere Albertazzi, 1° vol., Io sono solo loro sono tutti: conversazioni teatrali con Giorgio Albertazzi, a cura di S. Basile, A. Di Bari, Reggio Emilia 2007; G. Albertazzi, A. Asti, G. Mauri, P. Poli, P. Villaggio, Ragazzi terribili raccontano senza inibizioni 60 anni di vita d'Italia, tenuti faticosamente a bada da Magda Poli, Milano 2010, passim; Il ruolo creativo dell’attore, in Per Roberto De Monticelli - Per il teatro, Atti del Convegno, Piccolo Teatro 2-3 dicembre 1996, a cura di U. Ronfani, Milano s.i.d. [1997], pp. 69-74; (con D. Fo), La lezione: storie del teatro in Italia, Milano-Roma 2012.
G. A. - Premio Armando Curcio per il teatro, a cura di L. Lucignani, Roma 1983 (in partic. G. Davico Bonino, Nicolò, Enrico, Riccardo: appunti per una metamorfosi d’attore, pp. 11-30; R. De Monticelli, Albertazzi del sottosuolo, pp. 33-46); G. Livio, Minima theatralia: un discorso sul teatro, Torino 1984, pp. 45-49; G. A.: l’ultimo imperatore, a cura di F. Poggiali, Roma 2005.
Foto: L’attore nel film L’anno scorso a Marienbad (1961)