AMENDOLA, Giorgio
Nacque a Roma il 21 nov. 1907 da Giovanni Battista, più noto come Giovanni (sul quale si veda la voce di G. Carocci, in Diz. biogr. degli Italiani, II, pp. 761-765), e da Eva Kühn, proveniente da famiglia di intellettuali lituani (era nata a Vilnius il 21genn. 1880), conoscitrice di più lingue, lettrice dei classici del misticismo e frequentatrice di salotti artistici ed esoterici alla moda. Con i genitori sommersi da impegni culturali e mondani, l'A. visse a Roma (tranne un breve periodo a Milano nel 1919-20) l'infanzia e l'adolescenza libero dall'assillo di una vita quotidiana regolata da orari precisi, in case bellissime e disordinate, scelte per lo più secondo il raffinato gusto materno. Dopo aver frequentato, per volere della madre, scuole private gestite da religiosi (suore inglesi e padri gesuiti) e destinate a rampolli di famiglie elevate, compì gli studi secondari nel liceo classico statale "E. Q. Visconti" (vi consegui la maturità nel 1926), come aveva preteso il padre in coerenza con il suo laicismo.
All'educazione dell'A., molto atipica, aveva provveduto dapprima la madre, che gli aveva fatto conoscere i suoi amici, che non erano solo scrittori e artisti di grido, ma anche gli uomini più in vista dei movimenti politici di destra e del fascismo (D'Annunzio, Marinetti, Mussolini, Bottai).
Non è improbabile che, frequentando costoro gli fosse rimasto impresso - più tenacemente di quanto avvenne ad altri suoi coetanei - quel linguaggio così tipico di quell'epoca e impastato di quelle categorie ("coraggio", "eroismo", "vigliaccheria"), con cui in seguito giudicherà amici e avversari.
Più tardi, quando la madre precipiterà (settembre 1921) in una di quelle crisi nervose, da cui non uscirà se non nel 1933-34, il più frequente contatto con il padre e con i suoi amici (in primo luogo F. S. Nitti e Alberto Cianca) si rivelò decisivo. A mano a mano che Giovanni Amendola assumeva, a partire dalla seconda metà del 1923, il ruolo di capo riconosciuto dell'opposizione costituzionale al fascismo, nell'A. crebbe la determinazione di opporsi con energia, e con l'azione, alle prevaricazioni e alle violenze squadristiche. Fu, però, solo nella seconda metà del 1924 che si realizzò tra padre e figlio una consonanza non solo di affetti, ma anche di idee e di milizia politica, perché mentre il primo gettava le basi, attraverso l'Unione democratica, di una più vasta alleanza di forze politiche per una "nuova democrazia", l'A., ancora studente medio, partecipò attivamente alla vita e all'azione dell'Unione goliardica della libertà, un'associazione fondata nello stesso anno con chiari scopi antifascisti, raccogliendo forze giovanili liberali, repubblicane, popolari e socialiste.
Quando nell'autunno del 1926 fu costretto, dopo la morte del padre, ad abbandonare Roma, egli si lasciava alle spalle un mondo che avrebbe ritrovato nella lotta antifascista: erano i suoi giovani amici S. Fenoaltea, U. La Malfa, L. Cattani, P. Grifone; ma anche i più anziani amici del padre, che si erano stretti intorno alla sua famiglia, creando un sodalizio per sostenere finanziariamente la vedova e gli orfani.
Trasferitosi a Napoli, in casa dello zio paterno Mario Salvatore, che era anche tutore degli orfani, s'iscrisse alla facoltà di giurisprudenza (vi si laureerà nel giugno 1930 con una tesi di economia politica, relatore Augusto Graziani). La grande vitalità che gli era connaturata lo portava a un'intensa pratica sportiva, già iniziata a Roma, e a non trascurare i divertimenti propri della sua età, ma non affievoliva la sua carica antifascista. Frequentando la migliore intellettualità napoletana, rimase ora deluso, ora disgustato da un antifascismo "attesista" ("attesa" era un termine e un atteggiamento per lui odiosissimi), che nel peggiore dei casi si riduceva alla chiacchiera e al pettegolezzo, e nel migliore (B. Croce) si proiettava, attraverso lo studio, la riflessione, le pubblicazioni, in una prospettiva lontana nel tempo. Egli, invece, era sempre più animato dal proposito di agire con forza e nell'immediato contro il fascismo. Dopo vari e vani tentativi di organizzare e di dare maggiore incisività all'azione dei partiti e gruppi politici democratici non comunisti (aveva preso contatto anche con Claudio Treves in esilio a Parigi), nel clima di una crisi esistenziale e politica, maturata tra il 1928 e il 1929, decise il 7 nov. 1929 di iscriversi al Partito comunista d'Italia.
Alla base di questa scelta vi erano molteplici ragioni: la componente volontaristica della sua formazione, potenziata dalla rabbia e dal ricordo delle sofferenze fatte patire al padre dal facismo; gli ideali di vita ed i valori propri del suo ceto sociale e della cultura politica del tempo: il desiderio di essere un protagonista della storia, per non "subire passivamente il condizionamento del pubblico come pecore inermi" (secondo quanto scriverà, poco prima di morire, in Un'isola, p. 18); la trasfigurazione eroica dell'URSS, del suo capo, del partito comunista, usuale in un'età affamata di "capi", di "martiri", di "eroi", ecc. (Una scelta di vita, pp. 225 s.; Intervista sull'antifascismo, pp. 111, 118); la lezione di Lenin desunta dal Che fare? (che forse lesse sin dal 1926, quando si sentiva ancora "anticomunista"), che assegnava alle élites comuniste una funzione non dissimile da quella che Giovanni Amendola assegnava alle élites liberaldemocratiche; il mito gobettiano del proletariato come "classe portatrice dell'avvenire"; ed in ultimo la realtà del PCd'I, unico partito antifascista combattente, con i suoi "eroici" militanti arrestati, carcerati, confinati.
Erano impulsi, bisogni, stati d'animo, mitologie, che si combinavano con altre e più meditate convinzioni: l'analisi propria di una certa cultura radical-democratica, del fascismo come rivelazione di tare ereditarie e soprattutto delle insufficienze del Risorgimento; la necessità di una "rivoluzione" agraria, basata sulla formazione della piccola proprietà contadina, come completamento della rivoluzione risorgimentale: prospettiva realizzabile attraverso l'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud, secondo l'insegnamento salveminiano, fatto proprio da A. Gramsci in alcune pagine, in seguito note, ma che egli allora ancora non conosceva. Del resto sopra una simile "rivoluzione" agraria insisteva il suo nuovo amico fraterno, E. Sereni, che la inseriva in un contesto ottimistico, che superava il "pessimismo geografico" di G. Fortunato, delle cui conversazioni egli si era nutrito in questi anni (Una scelta di vita, pp. 226 s.).
Egli aveva aderito, dunque, al comunismo con un bagaglio di idee e di valori, che in parte erano convertibili nelle categorie politiche, morali e interpretative elaborate dal padre, in parte se ne distaccavano decisamente. Da questo punto di vista la continuità si giustapponeva alla rottura, dacché mai il padre avrebbe potuto sottoscrivere il giudizio entusiastico dell'A. sull'URSS, su Stalin, sulla dittatura del proletariato, né avrebbe potuto condividere la sua fede iniziale nella rivoluzione proletaria come l'unica capace di liberare l'Italia dal fascismo. Inoltre, sin dall'esordio l'A. dimostrò uno stile di direzione, fatto di intransigenza e durezza contro coloro che non condividevano la linea politica sua e del centro estero, stile alquanto diverso da quello del padre. Infatti, assunta la direzione della federazione comunista napoletana dopo l'arresto del Sereni e di M. Rossi Doria (28 nov. 1930), inviò subito a Parigi un rapporto su A. Bordiga, in cui "denunciava il comportamento dell'ex segretario del partito" e che contribuì alla condanna definitiva di uno di coloro che avevano dato il maggiore contributo alla fondazione del PCd'I (Rileggendo Gramsci, in Critica marxista. Quaderni, n-3, 1967, pp. 5 s.; Un'isola, pp. 25 s.).
Comunque la sua adesione al partito avveniva in un momento in cui la linea formulata dal centro estero di Parigi appagava in pieno le sue impazienze. In effetti la direzione del PCd'I aveva accolto, seppure a prezzo di una spaccatura del nuovo gruppo dirigente uscito dal congresso di Lione, la direttiva fissata dal VI congresso dell'Internazionale comunista (luglio-settembre 1928) e ribadita dal X plenum dell'esecutivo allargato della stessa Internazionale, sulla necessità di costituire un "centro interno", preparato a guidare l'insurrezione delle masse, che si ritenevano radicalizzate contro il fascismo anche in conseguenza della crisi economica mondiale. Perciò, quando nella seconda metà del 1930 gli furono comunicate le tesi dell'imminente congresso del partito, che prevedevano al centro della discussione la "svolta" rispetto all'indirizzo precedente e la creazione in Italia di un "centro" cospirativo antifascista, egli non poteva non approvarle, perché confermavano un'azione proprio nella direzione da lui auspicata. Tuttavia, quando, in qualità di delegato della federazione napoletana, si presentò (dopo essere espatriato clandestinamente da Napoli il 31 marzo 1931 ed avere raggiunto Parigi) al IV congresso del PCd'I (Colonia-Düsseldorf, 14-21 apr. 1931), egli, nel suo intervento, non si limitò ad approvare la "svolta", ma, con zelo da neofita, denunciò il "socialfascismo" (un'altra direttiva dell'Internazionale comunista che insisteva sulla identificazione fra socialdemocrazia e fascismo), si associò alla condanna di A. Tasca come rappresentante dell'"influsso dell'ideologia liberale fino nelle nostre file", mise in guardia i giovani contro "gli avventurieri, i più abili manipolatori di ideologie" (fece i nomi di P. Nenni e di Arturo Labriola) che indirizzavano verso sbocchi anticomunisti la crisi di coscienza della gioventù democratica antifascista, polemizzò contro Giustizia e Libertà, accusandola di "attivismo generico e sentimentale" (le linee essenziali del suo intervento furono pubblicate in LoStato operaio, giugno 1931, sotto il titolo di Con il proletariato o contro il proletariato?, ora si può rileggere in Lo Stato operaio, 1927-1939, a cura di F. Ferri, I, Roma 1964, pp. 432-444; Spriano, II, pp. 319-321, che attinge direttamente dal testo conservato nell'archivio del Partito comunista italiano).
Ammesso, per la sua fervida adesione alla linea del centro, nell'apparato del partito, fu destinato alla sezione propaganda diretta da Ruggero Grieco. In seguito, però, gli fu affidata la direzione della sezione alleati del proletariato, costituita sulla base di un suo programma, che presto diede luogo ad equivoci. Secondo la sua versione, egli, messi da parte i furori antisocialdemocratici e antigiellisti di qualche mese prima, sfruttando precedenti amicizie ed aderenze, avrebbe dovuto proporre a militanti e simpatizzanti delle due formazioni un'attività comune contro il fascismo. Secondo l'interpretazione della direzione, invece, egli avrebbe dovuto lavorare all'interno di Giustizia e Libertà soprattutto per disgregarla e sottrarre alla sua influenza ceto medio impiegatizio e intellettuale desideroso di prendere parte attiva al movimento, contro il fascismo. Perciò, la sua iniziativa, presa nel corso di viaggi clandestini effettuati a Milano e a Torino nel novembre 1931, di promuovere la pubblicazione di un foglio unitario, concedendo un margine di autonomia di giudizio agli alleati, fu sottoposta a severa critica, dopo il ritorno a Parigi, da parte di L. Longo (Intervista sull'antifascismo, pp. 75 s.; Un'isola, pp. 51, 62 s., 67). La stessa critica fu indirizzata all'intellettuale comunista milanese G. Boretti, a cui l'A. aveva trasmesso l'incarico di dare pratica attuazione agli accordi presi con gli alleati (Spriano, II, p. 348).
Amareggiato per le critiche ricevute, testimone dei contrasti da cui era lacerato il vertice del PCd'I, tormentato dal complesso di essere a Parigi un "imboscato" ed uno dei tanti "disertori" dalla lotta contro il fascismo, che egli disprezzava, dietro sue insistenze, fu inviato dal centro estero come suo rappresentante presso la federazione di Parma. Il suo viaggio clandestino diretto nella città emiliana, prevedeva una sosta a Milano per rinnovare i contatti con il Boretti e per sollecitarlo ad organizzare gli intellettuali antifascisti nella difesa della pace, giacché si riteneva imminente una guerra di aggressione contro l'URSS. Nel capoluogo lombardo, però, fu arrestato il 5 giugno 1932.
Avrebbe potuto essere rinviato a giudizio subito presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ma nei riguardi del figlio di Giovanni Amendola gli organi repressivi dovevano avere avuto - come non disconoscerà mai lo stesso A. - raccomandazione di non infierire con particolare accanimento. Una volta arrestato, invece di sottoporlo subito a processo, il regime preferì trascinarlo dalle carceri di Milano a quelle di Roma in modo da consentirgli di beneficiare dell'amnistia per il decennale del fascismo per i reati minori; mentre per i reati più gravi fu stabilito il "non luogo a procedere" per insufficienza di prove (sentenza istruttoria del Tribunale speciale n. 24 del 16 marzo 1933, in Dal Pont-Carolini, I, p. 546).
Fu trattenuto a Regina Coeli fino all'11 apr. 1933, quando fu tradotto a Napoli e di qui trasferito nell'isola di Ponza per scontarvi i cinque anni di confmo, a cui era stato condannato dalla Commissione provinciale romana per l'ammonizione e il confino di polizia con ordinanza del 25 marzo 1933 (Arch. centr. dello Stato, Casellario pol. …). Accolto nell'organizzazione dei confinati politici di osservanza staliniana, i quali, rispetto agli altri confinati per motivi politici, costituivano l'assoluta maggioranza, fu, in un primo momento, ammesso solo tra i "sospesi", fino a quando due dirigenti, sopraggiunti poco dopo, non fugarono tutti i sospetti che il suo caso aveva destato.
La direzione dell'organizzazione, gli affidò l'incarico di dirigere la biblioteca e di tenere un corso sulla storia del Risorgimento, che egli aveva a lungo studiato. Su questo tema tenne due cicli di lezioni e la tesi sostenuta nel primo ciclo - come scriverà molti anni dopo - "era certamente errata e denunciava in Garibaldi e Mazzini i precursori del fascismo. Un secondo corso, scritto dopo la svolta unitaria del '34, cancellerà simili aberrazioni per indicare invece le origini risorgimentali del movimento operaio" (Un'isola, p. 116).
Rimase confinato nell'isola di Ponza fino al luglio del 1937, quando ne fu liberato in seguito alla commutazione del confino in ammonizione (provvedimento del 22 giugno 1937) dietro sua istanza presentata alle autorità fasciste con il consenso della direzione dei confinati comunisti.
Il confino nell'isola era stato interrotto da due condanne, una a cinque mesi (giudizio di prima istanza: dieci mesi) e un'altra a quattordici mesi (giudizio di prima istanza: venti mesi), da lui scontate nel carcere napoletano di Poggioreale, rispettivamente nell'estate-autunno del 1933 e tra il febbraio del 1935 e l'aprile del 1936. Tali condanne furono causate dall'essere rimasto implicato in manifestazioni di protesta dei confinati politici contro restrizioni arbitrarie ai loro diritti. La prima volta vi fu quasi spinto a sua insaputa da elementi che intendevano sfogare un certo astio verso il figlio di un ex ministro di governi "borghesi" e saggiare la sua disponibilità alla disciplina imposta dall'alto.
A Ponza visse anche l'evento destinato ad evere una significativa importanza nella sua vita privata: il 12 luglio 1934 sposò Germaine Lecocq, che egli aveva conosciuto a Parigi nella festa popolare del 14 luglio 1931.
Questa donna, poco più giovane di lui (era nata a Bruay-en-Artois il 6 nov. 1910), di modesta condizione sociale (era sarta, come sua madre, orfana di padre, minatore, morto nella prima guerra mondiale) e di simpatie genericamente socialiste, dimostrerà grande temperamento e delicatezza di sentimenti. Dopo aver superato difficoltà e pregiudizi per sposarlo al confino, lo sosterrà trepidante in tutta l'umana vicenda, procurandogli, in tempi duri, i mezzi per sopravvivere con la sua attività di sarta, concedendosi qualche ozio (coltiverà la pittura e la poesia) solo quando il marito sarà un uomo politico arrivato. Sentirà così profondamente la sua unione con lui da seguirlo nella tomba poco dopo la sua morte.
Ritornato a Roma dal confino, si stabilì con la moglie, la suocera e la figlia Ada (nata nella capitale, il 2 luglio 1935, mentre egli era rinchiuso nel carcere di Poggioreale) nel villino della famiglia Amendola sull'Aventino, guadagnandosi da vivere con il ricavato di lezioni private e di un impiego presso l'ufficio stampa della Paramount Film in via Magenta. Rivide i suoi amici demoliberali, conobbe i nuovi amici dei fratelli, Antonio e Pietro, già orientati verso il comunismo, rifiutò l'incontro, richiestogli, con G. Bottai e G. Ciano, vecchie conoscenze fasciste della sua adolescenza. Quindi, avendo ricevuto attraverso la moglie, rientrata a Parigi, istruzioni dal centro estero del PCd'I, di abbandonare l'Italia, facendosi aiutare da due amici del fratello Pietro (P. Alatri e P. Bufalini), il 28 ott. 1937 espatriò clandestinamente in Francia.
A Parigi trovò un quadro politico molto mutato. Le conclusioni del VII congresso dell'Internazionale comunista (luglio-agosto 1935) avevano fatto cadere le preclusioni nei confronti delle forze democratiche antifasciste, rivalutando il sentimento nazionale e gli ideali di libertà, così come erano stati concepiti dalla tradizione politica europea. Prima del suo arrivo a Parigi i comunisti italiani, insieme con i socialisti, con i democratici massoni della Lega italiana dei diritti dell'uomo (capeggiati da L. Campolonghi, oratore ufficiale in tutte le manifestazioni commemorative di Giovanni Amendola) e con qualche giellista, avevano dato vita all'Unione popolare (28-29 marzo 1937) con un proprio quotidiano, La Voce degli Italiani, a cui l'A. offrì subito la sua collaborazione. Egli non poteva non caldeggiare questa linea politica, anche perché riprendeva alcuni temi paterni. Tuttavia questa linea di aperture democratiche si accompagnò ad un acutizzarsi delle tensioni internazionali e nell'URSS all'eliminazione fisica e alla reclusione nei campi di concentramento di tutti gli oppositori della politica staliniana. Nell'A. vi fu un totale allineamento al trionfante stalinismo. Dopo essere stato già al confino di Ponza uno dei sostenitori dell'espulsione di Altiero Spinelli dal PCd'I per il rifiuto di accettare la versione ufficiale sui processi di Mosca (Spinelli, p.248), a Parigi richiamò la direzione comunista ad una maggiore vigilanza nei confronti di elementi trockisti, bordighiani e taschiani (Spriano, III, p. 236 e n.; Un'isola, p. 226). Data la sua fedeltà alla linea ufficiale, gli furono affidati diversi incarichi (direzione della Libreria italo-francese, delle Edizioni di cultura sociale, dei circoli di Stato operaio).
Nel 1938 approvò, anche se la sua posizione fu molto subalterna, i provvedimenti disciplinari e di correzione della linea politica portati avanti da Giuseppe Berti, esecutore di direttive staliniane (Un'isola, pp. 246-248). Postosi, perciò, in una posizione molto imbarazzante anche nei riguardi di amici personali, si sottrasse all'atmosfera ormai "avvelenata" di Parigi, trasferendosi a Tunisi (febbraio 1939) per assumervi la direzione di un quotidiano antifascista, Il Giornale (dal sottotitolo "quotidiano d'informazione degli Italiani di Tunisia"), che cominciò ad apparire in edicola il 5 marzo dello stesso anno.
L'iniziativa di pubblicare quel quotidiano era stata presa dai comunisti di concerto con la già menzionata Lega italiana dei diritti dell'uomo (pare che fosse stato proprio il presidente di questa, L. Campolonghi, a imporre l'A. come direttore) e con alcuni ricchi ebrei di origine italiana, passati all'antifascismo dopo le leggi razziali. All'iniziativa non era mancato l'assenso della residenza francese, interessata a contrastare la politica italiana di rivendicazione della Tunisia e la preponderante influenza fascista sulla numerosa colonia di italiani lì presenti (Spriano, III, p. 297; Lettere a Milano, p. 3; Storia del Partito comunista italiano, p. 331).
La linea impressa dall'A. al Giornale fumolto energica e chiara: denunzia della crescente aggressività del nazismo e del fascismo, solidarietà coi paesi aggrediti, salvaguardia della pace, isolamento degli aggressori, revisione degli accordi italo-francesi, che davano al governo fascista il diritto di tutela degli Italiani in Tunisia. Erano temi molto popolari nell'opinione pubblica e negli stati antifascisti, ivi compresa l'URSS. Egli, però, seppe aggiungervi anche qualche contributo più personale, lì dove richiamandosi ad un motivo ricorrente della politica paterna (la difesa dello Statuto albertino), lo attualizzava, accusando i fascisti non solo di avere rinnegato le libertà statutarie, ma anche di aver calpestato l'indipendenza nazionale (ragion d'essere del Risorgimento), legando l'Italia alla Germania in un'alleanza, che si riduceva ad una totale subordinazione (In memoria dello Statuto, in Il Giornale, 3 giugno 1939).
Il quotidiano, che non ebbe mai un successo di vendite (raffreddando i sovvenzionatori), entrò definitivamente in crisi dopo la firma del patto di non aggressione tra la Germania e l'URSS, che smentiva tutte le previsioni formulate dall'A. e dagli altri responsabili del foglio (V. Spano, M. Valenzi, L. Gallico) sopra un'alleanza tra le potenze democratiche e l'URSS stessa, previsioni che li avevano indotti a favorire (come stava a cuore anche al Campolonghi) l'arruolamento volontario degli antifascisti italiani nell'esercito francese (Alservizio dell'Italia, in IlGiornale, 27 apr. 1939). Anzi dall'URSS vennero istruzioni tassative per interpretare il conflitto scoppiato il 3 sett. 1939 come una guerra imperialistica, sì da spingere il gruppo dirigente del PCd'I ad emarginare anche esponenti di primo piano inclini a parteggiare per le potenze democratiche.
Ritornato a Parigi tra novembre e dicembre del 1939, fu uno dei dirigenti di secondo piano più attivi nel richiedere un'azione concreta per mantenere l'Italia fuori della guerra, essendo prevalsa nel PCd'I la direttiva di combattere contro l'imperialismo del proprio paese, fermo restando il carattere imperialistico della guerra. Finita la "non belligeranza" italiana, fu incaricato di riorganizzare i lavoratori comunisti italiani e, dopo l'aggressione della Germania all'URSS (22 giugno 1941), anche quelli di altre nazionalità (armeni e spagnoli) allo scopo di preparare un movimento di solidarietà con l'Unione Sovietica che preludesse all'inizio della lotta armata contro gli eserciti occupanti sul suolo di Francia, giusta il programma del Partito comunista francese, che assunse il controllo dell'attività dei comunisti italiani. Quando nell'inverno 1942-43 la Resistenza francese decise di passare all'azione armata, egli mantenne il collegamento politico tra il PCF e i franc-tireurs italiani, diretti da I. Barontini, che combattevano a fianco dei partigiani francesi soprattutto nelle città. Infatti l'A. era diventato un dirigente di primo piano, cooptato, nel novembre 1942, nel centro estero del partito (Lettere a Milano, p. 24), con tutte le energie rivolte al perseguimento dei fini della guerra democratica e antifascista, giacché i comunisti ritenevano che tale fosse diventata la natura del conflitto in atto dopo l'attacco nazista all'URSS. Nella veste non più di un semplice esecutore di ordini, ma in quella nuova di un responsabile di partito e quindi di promotore di iniziative politiche, egli fu il principale artefice del patto di unità d'azione tra PCd'I (ne fu il firmatario insieme con G. Dozza), Partito socialista italiano (lo firmò G. Saragat) e Giustizia e Libertà (lo sottoscrisse E. Lussu), che porta la data di Lione, 3 marzo 1943.
Contrariamente ad un precedente documento unitario (il cosiddetto appello di Tolosa, dell'ottobre 1941), in cui il ruolo dell'A. fu, a nostro giudizio, secondario (al di là delle sopravvalutazione che della sua figura tende a fare nelle memorie), in questo caso il suo intervento fu decisivo. Solo giovandosi del rispetto che portavano alla memoria di suo padre, egli poté convincere uomini come Saragat e Lussu, non certo teneri verso il comunismo staliniano, a firmare il patto. Questo, d'altra parte, fu qualcosa di diverso rispetto all'appello di Tolosa, che impegnava solo a titolo personale alcune figure "sia pure prestigiose dell'antifascismo militante"; ora vi erano coinvolti a titolo ufficiale gli stessi partiti, "e le indicazioni in esso contenute rappresentano vere e proprie direttive rivolte in particolare ai gruppi operanti in Italia". Inoltre esso conteneva le linee di ricostruzione dell'Italia, assumendo a valore fondamentale la libertà, tutelata "da una democrazia del lavoro" (Gilardenghi, in G. A.: una presenza nella vita italiana, pp. 71-72; il testo, in Trent'anni di vita e lotte del PCI, in Quaderni di Rinascita, n. 2, 1951, pp. 195-196; Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, pp. 179-182).
Con la mente fissa a tre o quattro obiettivi fondamentali (abbattimento del fascismo, pace separata, riconquista dell'indipendenza nazionale, ristabilimento della democrazia) da raggiungere con la più larga intesa tra le forze politiche con lo strumento dell'insurrezione popolare, egli varcò la frontiera italo-francese nella seconda metà dell'aprile 1943 con il nome di battaglia di Palmieri. Nelle città in cui operò, egli si rese conto della sproporzione tra fini e mezzi, perché i comunisti, che puntavano all'insurrezione nazionale, non erano stati in grado di organizzare un movimento popolare in occasione del 1º maggio e del 10 giugno (anniversario della uccisione di Matteotti). Inoltre egli dovette sostenere continuamente lo scontro - che sarà una costante della sua attività di dirigente - con i fautori della cosiddetta "doppiezza", comunisti che, pur accettando come obiettivo immediato la libertà, la democrazia e l'intesa con gli altri partiti, non volevano rinunziare all'obiettivo strategico della conquista del potere e dell'instaurazione della dittatura del proletariato.
Sorpreso a Milano dalla caduta del fascismo, il 27 luglio fu inviato a Roma dalla direzione del partito, dove subito fu accolto molto cordialmente dal Comitato centrale delle opposizioni, in cui ritrovò molti amici del padre. Latore di una proposta di governo di unità nazionale con P. Badoglio ministro della Guerra, accedette al piano di I. Bonomi, M. Ruini e A. De Gasperi, che prevedeva "di far concludere l'armistizio dal governo Badoglio, per formare subito dopo, d'accordo con lo stesso Badoglio, un governo con i partiti antifascisti incaricati di dare attuazione all'armistizio e di guidare la lotta contro i tedeschi" (Lettere a Milano, p. 132). Riuscì a strappare a Badoglio l'impegno per la scarcerazione (che fu eseguita con ritardo) dei confinati e carcerati comunisti, rinnovò a nome del Partito comunista italiano il patto d'unità d'azione col PSI e favorì la nomina di G. Roveda (altro firmatario comunista del patto sopra ricordato) a vicecommissario del sindacato dell'industria (8 agosto). A Milano, dove rientrò tra il 14 e il 15 agosto, il suo operato fu sottoposto a riserve, critiche ed accuse (gli furono rinfacciate anche ambizioni ministeriali). In realtà il controllo della trama politica da parte di uomini legati al potere politico del prefascismo, se ai conservatori dava garanzia di stabilità e di continuità senza avventure del nuovo regime, metteva in allarme gli uomini nuovi assurti alla dirigenza comunista, che, dopo aver corso mille rischi ed affrontato tanti sacrifici, "temevano di essere proprio ora ricacciati in secondo piano dalle vecchie oligarchie politiche" (Bertelli, pp. 9-10).
Di ritorno a Roma fu, il 9 sett. 1943, il solo comunista presente nella riunione nella quale fu decisa dai responsabili di sei partiti (comunista, socialista, azionista, democristiano, democratico del lavoro, liberale) la trasformazione del Comitato delle opposizioni in Comitato di liberazione nazionale. Si tenne, però, in subordine rispetto a M. Scoccimarro, riconosciuto per il momento primo dirigente e, come tale più adatto a rappresentare il partito nel CLN centrale, mentre egli lo rappresentò nel comitato esecutivo e nella giunta militare. In qualità di membro della giunta militare tripartita (costituita coi socialisti e gli azionisti) e mettendo a frutto l'esperienza dei franc-tireurs, fu il responsabile politico dei gruppi di azione patriottica, di cui autorizzò le azioni militari, compreso l'attentato di via Rasella (23 marzo 1944). Convinto assertore della priorità assoluta della guerra di liberazione nazionale, egli fu perciò favorevole alla collaborazione con Badoglio durante i quarantacinque giorni; avverso a lui dopo la sua fuga da Roma, ebbe un ripensamento già prima del ritorno dall'Unione Sovietica in Italia di Togliatti (Napoli, 27 marzo 1944) e quindi non trovò difficoltà ad accettare la "svolta di Salerno". Richiamato al Nord, nei territori ancora occupati dai Tedeschi, ai primi di maggio del 1944, ebbe compiti ispettivi e direttivi presso le formazioni partigiane operanti nell'Emilia, nel Veneto e nella città di Torino, dove organizzò lo sciopero preinsurrezionale del 18 apr. 1945 e l'insurrezione del 26-28 aprile. Nella guerriglia egli portò una passionalità antigermanica che veniva dal profondo della storia italiana favorendo in lui l'identificazione del nemico ideologico con il tradizionale nemico nazionale. Fu anche inflessibile nella lotta contro i sostenitori della "doppia guerra" (prima antitedesca e poi antiborghese), non esitando a criticare perciò anche l'amico Amerigo Clocchiatti.
Alla fine del conflitto l'A. si trovò a far parte del gruppo dirigente del partito emerso nella lotta di liberazione, svolgendo fin dal 1945 un ruolo di primaria importanza nell'organizzazione interna (entrò nel comitato centrale e nella direzione del PCI già dal V congresso e vi rimarra fino alla morte) e in Parlamento. Nominato membro della Consulta nazionale, divenne sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri nel governo Parri (28 giugno-9 dicembre 1945) e nel primo gabinetto De Gasperi (10 dic. 1945-1º luglio 1946).
Come sottosegretario egli non ha lasciato tracce incisive. Si può ricordare, tuttavia, l'episodio avvenuto l'11 giugno 1946, quando seppe utilizzare tale carica per salvare i comunisti napoletani, circondati insieme con lui nella sede della federazione in via Medina, da una massa di monarchici inferociti, ottenendo - dopo aver forzato con grande coraggio l'assedio - dal ministro dell'Interno, G. Romita, l'intervento tempestivo delle forze dell'ordine, le quali, sia pure a prezzo di vite umane, liberarono gli assediati (Cacciapuoti, pp. 136-140).
Frattanto nelle elezioni del 2 giugno 1946 era stato eletto, nel collegio unico nazionale, deputato all'Assemblea costituente. L'anno seguente venne nominato segretario regionale del PCI della Campania, Molise e Lucania (manterrà tale incarico fino al 1953, ma i suoi legami con Napoli e la Campania rimarranno ben saldi anche in seguito), dando - insieme con E. Sereni e R. Grieco - un rilevante contributo alla costruzione del "partito nuovo" nel Mezzogiorno.
Tale contributo dev'essere in primo luogo valutato per quanto attiene ai contenuti della linea teorica e culturale del partito. Erano gli anni in cui la linea togliattiana dei precursori nazionali e dei padri spirituali del comunismo italiano (F. De Sanctis, B. Spaventa, Antonio Labriola, P. Gobetti, G. Salvemini), linea funzionale agli obiettivi nazionalpopolari assegnati al "partito nuovo", veniva contestata e insidiata dagli intellettuali (si trattava di "marxisti" di estrazione crociana o gentiliana, di cattolici comunisti, neopositivisti, ecc.), che erano entrati nel partito con una cultura che mal si conciliava con la linea proposta da Togliatti. L'A., insieme con i suoi amici, ribadì che la "questione meridionale", così come l'aveva intesa Salvemini (per il quale non nascose mai la sua ammirazione critica, tanto che ancora molti anni dopo - su Rinascita del 4 genn. 1974 - poteva scrivere un articolo intitolato Attualità di Salvemini) era, con le integrazioni e correzioni di Gramsci, un dato acquisito della linea politica e culturale del partito.
Il contributo dato dall'A. si può anche misurare sotto il profilo etico (una veste a lui congeniale), perché, rivalutando lo spirito di disciplina (perfino negli orari di lavoro), egli cercò di formare una generazione di quadri che sotto la sua guida interiorizzeranno - come egli ebbe a rilevare - i valori della puntualità e dell'impegno, superando l'approssimazione e il lassismo, che riteneva vizi eminentemente meridionali. Il suo sforzo più duro dovette, però, sopportarlo per educare "molti quadri dirigenti provinciali e sezionali", che comprendevano "assai malamente la politica di unità nazionale praticata dal PCI" e il cui "massimalismo corrispondeva alle impazienze infantili delle masse più arretrate" (Una nuova fase della questione meridionale, in Trent'anni di vita e lotte del PCI, p. 219, poi in La democrazia nel Mezzogiorno, p. 14). Grazie, invece, alle aderenze personali, gli fu agevole avvicinare o portare dentro o al fianco delle organizzazioni da lui promosse per la difesa del Mezzogiorno, personalità che riteneva di grande prestigio politico e di grande autorevolezza morale: G. Dorso, C. Scarfoglio, G. Ingrosso, F. S. Nitti, Arturo Labriola.
Sintomatico il caso di quest'ultimo: colui che era stato definito nel 1931 "avventuriero e abile manipolatore di ideologie", capeggiò - per volere dell'A. - nelle elezioni amministrative del 27 maggio 1956 la lista comunista, che avrebbe dovuto contrastare (ma l'operazione non ebbe molto successo) lo strapotere di Achille Lauro a Napoli. Più tardi lo stesso A., in diverse rievocazioni memorialistiche, ricorderà i libri su Marx, sul socialismo e sul capitalismo avuti in regalo nel 1926 da Arturo Labriola e riconoscerà che quei libri costituirono per lui "letture assai utili" (Incontro a Palazzo Filomarino, in Il Contemporaneo, supplemento a Rinascita, aprile 1966, ora in Comunismo, antifascismo, Resistenza, p. 417; lievemente diversa la versione in Una scelta di vita, p. 165). Sicché forse per questo (se non per una confusione tra Antonio e Arturo Labriola), D. Lajolo potrà scrivere più tardi che l'A. "tra gli insegnamenti di Benedetto Croce e Arturo Labriola era stato convinto da quest'ultimo ad impossessarsi della dottrina marxista" (G. A.: una presenza nella vita italiana, p. 145).Nell'impossibilità di elencare qui tutte le iniziative (convegni, assise, associazioni, organizzazioni) promosse dall'instancabile attivismo dell'A. in quegli anni - alcune dovute per la verità agli amici Sereni e Grieco - ci si limiterà a ricordare la costituzione del Fronte democratico del Mezzogiorno, sorto da un congresso tenuto a Pozzuoli il 19 dic. 1947, poitrasformato - dopo un'imponente mobilitazione meglio nota come "assise della Rinascita" - in Comitato nazionale per la rinascita del Mezzogiorno (Roma, 13-14 genn. 1950). Questa fu opera eminentemente sua (cui il PCI aveva affidato la direzione della commissione meridionale del partito con sede a Napoli); da un'iniziativa presa in comune con M. Alicata e F. De Martino scaturì, invece, la fondazione della rivista Cronache meridionali (1954-1964).
Per quanto riguarda la linea di politica agraria patrocinata dall'A., occorre riconoscere che, nell'immediato, il movimento per l'occupazione delle terre e per la riforma agraria degli anni 1945-52rispondeva a reali esigenze di masse diseredate. Semmai il PCI e l'A. commisero errori, questi furono di prospettiva, perché, condizionati dal contingente e dalle analisi degli antichi maestri del meridionalismo (cui ancora si dava credito), in fondo ricercavano una sistemazione sulla terra per tutta l'esuberante forza lavoro del Sud, sistemazione che la stessa conformazione del territorio meridionale non avrebbe potuto tollerare (per questa critica, si veda tra gli altri Rossi Doria, pp. 13-14). Ementre i gruppi al potere cercarono soluzioni diverse, nella direzione dei poli industriali e della costruzione di infrastrutture (istituzione nel 1950 della Cassa del Mezzogiorno, di cui l'A. fu uno dei più duri oppositori, nonostante la perplessità espressa da altri dirigenti comunisti), fattori soggettivi e oggettivi portarono alla grande espansione, nella seconda metà degli anni Cinquanta, delle concentrazioni industriali nell'Italia settentrionale, verso cui cominciarono ad affluire in gran numero quegli stessi occupanti ed assegnatari di terre degli anni precedenti, nonostante la convinzione espressa dall'A. all'inizio degli anni Sessanta che la "riscossa meridionalista" dovesse passare per la "riforma agraria" (Necessità di una riscossa meridionalista, in Rinascita, dic. 1960).
Nelle elezioni politiche del 18 apr. 1948 e 7 giugno 1953 l'A. venne eletto deputato alla Camera per il XXII collegio nella circoscrizione Napoli-Caserta (tale elezione fu confermata, sempre nello stesso collegio, nelle legislature successive fino all'ottava: elezioni politiche del 1958, 1963, 1968, 1972, 1976, 1979). Proprio nel 1953 maturarono a livello internazionale eventi tali da convincere Togliatti che fosse conveniente rimuovere da incarichi di potere all'interno del partito uomini ormai ritenuti poco fidati e allineati sulle sue posizioni solo per ragioni di opportunità.
La morte di Stalin (5 marzo 1953) e la successiva eliminazione di Beria (10 luglio), il potente uomo politico che controllava l'apparato repressivo sovietico, lo resero abbastanza tranquillo e sicuro circa il buon esito del suo disegno. Qualche anno prima (inverno 1950-51) i due capi sovietici, ma - pare - soprattutto Beria, avevano insistito per trattenerlo a Mosca con la motivazione di affidargli la direzione del Kominform. L'insistenza aveva messo in allarme Togliatti, ingenerando in lui molteplici timori, forse anche per la propria vita, perché molti dirigenti del Kominform dell'Est europeo erano stati in precedenza eliminati. Egli era riuscito a tornare in Italia, adducendo a pretesto la preparazione del VII congresso nazionale del PCI, ma non si era dimenticato di colui che egli credeva il responsabile di un complotto ai suoi danni. Attraverso Secchia, infatti, egli aveva sollecitato la direzione del partito a pronunziarsi sulla richiesta di Stalin e Beria, sperando (e quasi supplicando) un voto contrario. Ma la direzione a stragrande maggioranza (con le poche eccezioni di Longo, Terracini e Negarville) si era espressa a favore dell'istanza di Mosca. Agli occhi di Togliatti, dunque, Secchia era l'incarnazione del sovietismo ad oltranza e della "doppiezza": in lui si riconoscevano quei comunisti che, pur non respingendo la via democratica, non escludevano altre possibilità, perché egli, come responsabile della commissione centrale d'organizzazione, aveva - accanto al "partito di massa" - creato una struttura di elementi ritenuti più fidati in caso di emergenza.
Per sostituire Secchia in quella carica, che faceva di lui l'uomo più potente del PCI, Togliatti puntò sull'Amendola. Non che questi fosse stato uno stalinista meno entusiasta e meno in buona fede di Secchia, ma assicurava ampi margini di affidabilità per la sua lotta costante contro la "doppiezza", per la sua adesione convinta alla scelta democratica nel rispetto della legalità costituzionale, per le critiche mosse a Secchia già dopo la sconfitta del 18 aprile. La manovra togliattiana si sviluppò con determinazione, ma per gradi. Prima egli assegnò all'A. l'incarico di preparare per il comitato centrale del 16-18 luglio 1954 la relazione per la IV conferenza di organizzazione (incarico che sarebbe dovuto spettare a Secchia). Poi, dopo la sospensione del Secchia, a causa della fuga con la cassaforte del partito del segretario di questo, G. Seniga (episodio che segnò la fine politica di un uomo che molto aveva contato sugli "elementi fidati"), procurò l'elezione dell'A. a segretario temporaneo della commissione d'organizzazione, elezione che divenne definitiva dopo la IV conferenza d'organizzazione (Roma, 9-14 genn. 1955). Infine la direzione del PCI, con risoluzione del 18 genn. 1955, ammise l'A. nella segreteria del partito, estromettendone il Secchia che fu inviato, come segretario regionale, in Lombardia. L'A. mantenne la responsabilità dell'organizzazione fino al IX congresso (Roma, 30 gennaio-4 febbraio 1960), quando la cedette ad E. Berlinguer.
La sua gestione di questo settore non appare particolarmente fortunata se si guarda soltanto al linguaggio dei numeri. Gli iscritti al partito diminuirono, anche se le cifre precedenti erano alquanto gonfiate: influirono negativamente i contraccolpi ai fatti polacchi ed ungheresi del 1956, nei cui confronti l'A. manifestò un allineamento totale con le posizioni sovietiche (del resto comune a tutto il gruppo dirigente), giungendo ad auspicare in un comizio a Torino, alla vigilia dell'intervento dell'armata rossa, una efficace azione militare dell'Unione Sovietica capace di stroncare quella che egli giudicava una controrivoluzione promossa da gruppi reazionari (F. Froio, Il PCI nell'annodell'Ungheria, s. l. 1980, p. 111). Anche in campo sindacale, quegli anni furono caratterizzati da un arretramento della CGIL (particolarmente cocente fu, nel 1955-56, la sconfitta subita alla FIAT nelle elezioni per la commissione interna, in cui la FIOM crollò dal 63% al 36% del 1955 e al 21% del 1956), che portò a un profondo rinnovamento nei quadri dirigenti (venne giubilato, fra gli altri, il segretario generale della FIOM, G. Roveda, mentre lo stesso Di Vittorio fu costretto a una severa autocritica).
Circa i suoi metodi, se è ancora presto per affermare che egli volle "l'applicazione piena dello Statuto" di partito (Bufalini, p. 12), è certo che la sua azione di rinnovamento fu caratterizzata dall'irruenza della sua personalità, che mortificava e travolgeva gli avversari anche dall'alto della sua imponenza fisica. Perfino coloro che gli erano più amici, impressionati dal modo in cui egli trattava quanti non si uniformavano alle sue direttive, a distanza di anni non esitarono a definirlo "un democratico prepotente", "sincero nella critica, ma spesso brusco e duro", che attuò il rinnovamento "spesso a colpi di maglio, con l'accetta" (Bufalini, pp. 10, 12: qualche anticipazione già in Rinascita, 24 febbr. 1978).
Dopo il IX congresso, nel febbraio 1960, l'A. assunse la responsabilità della commissione del lavoro di massa e della sezione economica del partito. In questa veste tentò a più riprese di compiere un'analisi più aggiornata della situazione economica dell'Italia, ritenendo - dopo lo sviluppo tumultuoso dell'industria verificatosi in quegli anni - ormai invecchiati gli schemi interpretativi fino ad allora adottati dalla sinistra italiana.
Le idee dell'A. si svilupparono attraverso la relazione alla II assemblea nazionale dei comunisti delle fabbriche (Milano, 5-7 maggio 1961), in cui espresse la convinzione che contro l'espansione monopolistica fosse necessaria la costruzione "di un movimento politico generale nel più stretto collegamento tra lotte rivendicative, lotte politiche e azione parlamentare per determinare nuove maggioranze capaci di approvare le necessarie leggi di riforma" (2ªassemblea dei comunisti nelle fabbriche. Relazione e conclusioni del dibattito dell'on. Giorgio Amendola e intervento dell'on. Palmiro Togliatti, Roma 1961); e poi, soprattutto, nel convegno - di cui egli fu tra i principali organizzatori - tenuto a Roma presso l'Istituto Gramsci sul tema Tendenze del capitalismo italiano (23-25 marzo 1962), nel quale presentò un'ampia relazione, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la Liberazione (Atti, Roma 1962, I, pp. 145-216).
In essa, pur riconoscendo uno "sviluppo" o "espansione" dell'economia italiana, ne sottolineava gli aspetti negativi nell'approfondimento del divario tra Nord e Sud, nello spostamento di grandi masse umane da un'area a un'altra del Paese, nell'aggravamento dello sfruttamento e del disagio operaio. Contro questo tipo di "sviluppo", distorto perché avvenuto sotto la guida e nell'interesse del grande capitale monopolistico, egli propose la "programmazione democratica", che doveva indicare come obiettivo "la ricerca di alcune soluzioni, che non saranno né comuniste, né socialiste, né socialdemocratiche, né radicali, né democratiche cristiane ma dovranno corrispondere ad esigenze obiettive del paese e rappresentare un momento sia pur limitato del suo sviluppo democratico".
L'A. proseguì decisamente a sviluppare questa linea negli anni seguenti, quando apparve chiara la difficoltà che incontrava il Partito socialista italiano, all'interno del quadro di centrosinistra, nell'attuare il programma di riforme, osteggiato più o meno scopertamente da importanti settori del partito di maggioranza relativa e da potenti gruppi di pressione. Di fronte a questa situazione, che aveva come corrispettivo il sorgere nelle fabbriche di un'azione operaia di contestazione che non sempre mostrava di avere nel PCI il suo referente in sede politica, approfittando dell'occasione offertagli da due lettere di Norberto Bobbio, dopo aver precisato come dovesse realizzarsi il socialismo nei paesi occidentali ("un socialismo che sia fondato sul patrimonio accumulato in un secolo e più di battaglie democratiche in una società riccamente articolata attraverso secolari processi storici, una società che esige perciò il pluripartitismo e strutture politiche differenziate che assicurino una larga partecipazione dal basso"; Rinascita, 7 nov. 1964: Il socialismo in Occidente), l'A. lanciò su Rinascita l'idea di un "partito nuovo, capace di elaborare una strategia nuova, della lotta per il socialismo nel nostro paese", un partito non laburista, né socialdemocratico, né comunista, avendo tutti questi partiti più o meno fallito nella realizzazione del socialismo in Occidente (ibid., 28 nov. 1964: Ipotesi sulla riunificazione).
Sebbene la proposta fosse abilmente accompagnata da un ennesimo riconoscimento della natura socialistica del regime sovietico e dalla conferma di una fedeltà, che in lui non era venuta mai meno, a molti dirigenti del PCI essa apparve liquidazionistica del partito, scandalosa nell'accostamento del comunismo alla socialdemocrazia, la prova dell'impotenza di un partito che, non riuscendo a trasformare la società, voleva trasformare se stesso (P. Secchia, ibid., 12 dic. 1964). Né la proposta ebbe un'accoglienza migliore da parte dei socialisti, allora impegnati nei governi di centrosinistra e ormai pronti a tentare la riunificazione con i socialdemocratici, dopo le ferite causate dall'uscita dal PSI dell'ala sinistra, che - l'anno precedente - aveva dato origine al PSIUP.
Ciò che lascia ancora perplessi è l'evidente temerarietà con cui l'A. usciva allo scoperto, con idee che non potevano non creare disorientamento in un partito - come il PCI - sempre restio ai bruschi cambiamenti di rotta, proprio a pochi mesi dalla morte di Togliatti, di cui egli era stato più volte considerato il delfino, e quando l'affidamento della segreteria a L. Longo doveva ancora ritenersi provvisorio. E, poiché non si può ritenere la sua ardita presa di posizione - che, indicando al partito una netta rottura con il passato, lo escludeva dalla successione o comunque indeboliva di molto la sua candidatura alla segreteria - come frutto di ingenuità, non rimane che formulare l'ipotesi secondo cui l'A. coscientemente preferiva assumere il ruolo scomodo - ma congeniale al suo carattere - di ninfa Egeria del "rinnovamento" del partito.
Dopo le aspre critiche tributate alla sua proposta del "partito nuovo", senza rinunziare ad approfondire la problematica del contenuto socialista da dare alla "battaglia democratica" (si veda il suo intervento al convegno Tendenze del capitalismo europeo, Roma 25-27 giugno 1965, pubblicato in Atti, Roma 1966, pp. 758-775), egli si occupò con maggiore insistenza dei problemi della "classe operaia", delle ripercussioni che essa risentiva dalla congiuntura economica negativa, dalla ristrutturazione tecnologica, dalla nuova organizzazione del lavoro, scrivendo della necessità di superare il clima di sfiducia regnante nelle fabbriche, di saldare le nuove e le vecchie generazioni operaie, di porre i comunisti all'avanguardia nella lotta per la formazione di una nuova unità politica della "classe operaia" (Rinascita, 29 maggio 1965). Alla base delle analisi dell'A., che per anni si contrapposero a quelle della sinistra (sia chiaro che, vigendo nel PCI la pratica del "centralismo democratico", con i termini "destra" e "sinistra" non si intende qui designare gruppi organizzati) facente capo a Ingrao e ad alcuni dirigenti sindacali comunisti, vi era la preoccupazione - del resto tradizionale nella concezione togliattiana del "partito nuovo" - di conservare al PCI il ruolo guida nella lotta per la trasformazione della società, respingendo la teoria dell'iniziativa rivoluzionaria delle organizzazioni autonome dei lavoratori e del riconoscimento di un ruolo politico centrale alle lotte rivendicative nelle fabbriche. Se è vero che l'A., di fronte ai mutamenti avvenuti nelle lotte sindacali, era pronto a concedere al sindacato un grado di autonomia impensabile negli anni Cinquanta, questo avveniva proprio perché - lungi dal proporsi come protagonista politico - esso doveva limitarsi ad esercitare funzioni rivendicative e di controllo nelle fabbriche, che erano sì "un centro di iniziativa democratica e di attività politica, ma solo uno dei tanti attraverso i quali si deve manifestare l'azione politica delle masse guidate dal partito" (Mammarella, p., 184).
Questo tema, dei compiti della "classe operaia", lo appassionò in quegli anni facendogli superare i suoi prevalenti interessi di esperto della "questione meridionale", "riforma agraria", "democrazia nel Mezzogiorno", "democrazia nel partito": da un lungo saggio, Laclasse operaia nel ventennio repubblicano, pubblicato in Critica marxista, IV (1966), n.5-6, pp. 79-127, poi rielaborato, nacque il volumetto La classe operaia italiana (Roma 1968), una sorta di summula sociologica della composizione della forza lavoro operaia italiana in quegli anni, verso cui riproponeva con forza la funzione unificante, dal punto di vista politico e pedagogico, del PCI per una lotta che investisse tutta la società. La classe operaia idoleggiata dall'A. doveva essere fatta di uomini pronti ad accettare l'egemonia e la tutela del partito, disposti a riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da plebe in operai consapevoli.
Frattanto, dopo che egli aveva ammorbidito le proprie tesi con un terzo articolo (La nostra lotta per l'unità politica della classe operaia, in Rinascita, 19 dic. 1964, che rispondeva alle critiche di Longo), il dibattito interno continuò fino all'XI congresso, in cui - abbandonata la richiesta del partito unico dei lavoratori, che l'A. stesso criticava come una "iniziativa partita male" - venivano sostanzialmente accolte le sue indicazioni favorevoli a un'alleanza con tutte le forze disposte a realizzare un programma riformistico e democratico: su questa base di convergenza l'A. si univa alla maggioranza "centrista" per battere le tesi della sinistra di Ingrao, secondo cui l'avvento di una società socialista poteva essere ottenuto soltanto con un'azione unitaria di forze aventi una omogeneità ideologica. Da questo congresso la posizione dell'A. uscì rafforzata: egli passò dalla segreteria all'ufficio politico del partito, organismo creato proprio con l'XI congresso per affiancare il segretario generale. Mantenne questo incarico fino al XIV congresso (1975), quando l'ufficio politico fu soppresso.
In quegli anni l'A. divenne protagonista nella definizione della politica economica del partito, animatore e responsabile del Centro studi di politica economica del PCI (CeSPE), fondato nel marzo del 1966, per il quale organizzò i convegni: Programmazione e Mezzogiorno (Napoli, 11-12 nov. 1966); La programmazione economica democratica nelle regioni dell'Alta Italia (Milano, 13-14 genn. 1967); Il capitalismo italiano e l'economia internazionale (Roma, 22-24 genn. 1970); Icomunisti e l'Europa (Roma, 23-25 nov. 1971).
L'europeismo militante e convinto caratterizzò l'ultimo decennio della sua vita. Inviato già nel 1969 al Parlamento di Strasburgo, fu confermato nel 1976 ed eletto infine nelle prime elezioni dirette dei parlamentari europei (10 giugno 1979), nelle quali si adoperò con successo per l'inserimento di A. Spinelli come indipendente nelle liste del PCI.
Il suo europeismo, che rispondeva ad una sua scelta che fu poi accolta dal partito, veniva caricato man mano di valenze democratiche e a volte mazziniane, riassumendosi negli ultimi anni nel programma di un'Europa democratica e pluripartitica, mediatrice di pace tra USA e URSS, fedele all'alleanza atlantica, con un'interpretazione restrittiva e difensiva del patto; non ostile al capitalismo, ma capace di sottoporre a controllo i monopoli e le multinazionali; in grado di tutelare maggiormente i lavoratori emigrati; disposta ad accogliere nella Comunità economica europea Grecia, Spagna e Portogallo; decisa a condurre una lotta a fondo contro delinquenza, droga e terrorismo. Era un europeismo su cui potevano trovarsi d'accordo anche altri partiti dell'arco costituzionale, ma che segnava un superamento della visione "nazionale" dei problemi economici, come aveva avvertito fin dal convegno del 1970 su Ilcapitalismo italiano e l'economia internazionale.
Membro dell'ufficio di presidenza del CeSPE fino alla morte, l'A. senza dubbio influenzò in modo notevole le scelte di politica economica del PCI, anche se occorre notare che negli anni che vanno dal consolidamento della segreteria di E. Berlinguer alla fine dell'esperimento del governo di "solidarietà nazionale" la sua analisi non fu sempre in perfetta consonanza con quella prevalente all'interno del partito. Certamente egli fu tra i più restii a vedere nella "crisi" della metà degli anni Settanta un sintomo di "una crisi generale del capitalismo" (anche se, piuttosto ambiguamente, questa era presupposta come una tendenza di lungo periodo), ma cercava di spiegarla - sia pure facendo ricorso alla terminologia marxista - con le consuete teorie del ciclo, la cui curva discendente sarebbe stata determinata in quell'occasione da mutamenti nella composizione organica del capitale (La crisi mondiale e l'Italia, in Politica ed economia, V [1974], n. 5, pp. 3-9): l'inflazione internazionale era, ad esempio, dovuta semplicemente ad una crisi di sottoproduzione per una "offerta insufficiente, a causa di una produzione agricola stagnante e per l'esaurimento di risorse immediatamente disponibili a prezzi economicamente utili". Il punto di convergenza dell'A. con le posizioni dello schieramento centrista del partito era costituito dal timore che, nell'immediato, lo sbocco più probabile della crisi del capitalismo potesse essere lo scardinamento del sistema sociopolitico in direzione reazionaria. L'ossessione - che egli ebbe in comune con altri esponenti non comunisti della sua generazione che avevano visto negli anni Venti la vittoria del fascismo - fu quella che una politica settaria o sovversiva conducesse la classe operaia all'isolamento, spingendo i ceti medi e i disoccupati (per lo più altamente scolarizzati) in preda alle lusinghe della propaganda demagogica ed antidemocratica: l'unica salvezza era quella della difesa dell'ordine sociale e politico democratico. Su queste basi egli appoggiò la politica del "compromesso storico", che interpretò in maniera diversa (talora con accenti liberaldemocratici, che lo fecero paragonare ad U. La Malfa, talaltra con moralismo giacobino nel sostegno alla politica di austerità) da altri compagni di partito (XIVcongresso del PCI, Roma 18-23 marzo 1975. Atti e risoluzioni, Roma 1975, pp. 102-112).
Da siffatte analisi ha origine la sempre più aspra critica dell'A. al corporativismo delle rivendicazioni salariali del sindacato, cui imputava la responsabilità di un eventuale fallimento della politica del compromesso storico, scagliandosi contro quanti teorizzavano l'emergere di "bisogni, rivendicazioni, spinte autonome che sarebbero espresse dal "movimento" o dai movimenti che avrebbero una loro autonomia" e pertanto riservavano al PCI il compito di mediare nelle istituzioni tra "potere" e "movimento", divenendo "una macchina elettorale". Per lui il partito doveva "affermare ovunque e sempre la sua iniziativa, affermare quella che è la sua funzione dirigente nella vita nazionale", Raccomandava "lavoro", "iniziativa", "attività" piuttosto che "discussioni"; le sezioni del partito "non possono essere trasformate in circoli politico-culturali" in mano agli intellettuali e dove "l'operaio non si sente partecipe, o non, va alla riunione, o se ne va ad una certa ora", mentre quelli, "gli altri possono restare, tanto la mattina al lavoro non ci debbono andare" (si veda la relazione dell'A. in XV congresso del PCI. Roma 30 marzo-3 apr. 1979. Atti e risoluzioni, Roma 1979, pp. 269-281). Poiché riteneva la crisi economica gravissima e tale da non poter essere risolta senza irrigidimenti anche degli obblighi connessi a ciascun ruolo, il suo richiamo ai doveri individuali e collettivi si faceva imperioso. Di qui la sua condanna degli studenti che non studiano, degli operai che non lavorano, degli intellettuali ignoranti e privi di senso di responsabilità, i quali ultimi - a suo dire - stavano trasformando il PCI da partito della classe operaia e dei "primi della classe" in un partito di furbi e di arrampicatori, desiderosi di posizioni di potere (A. Gramsci nella vita culturale e politica italiana, pp. 45 s., e soprattutto la polemica fra lo stesso A. e A. Lepre, in La Città futura, 21 febbr. 1979).
Dopo l'interruzione dell'esperienza della "solidarietà nazionale" e la sconfitta elettorale subita dal PCI nel giugno 1979, temendo un arroccamento del partito in una sterile opposizione, l'A. ribadi con chiarezza ancora maggiore le sue convinzioni. Particolare scalpore suscitò l'articolo Interrogativi sul 'caso' Fiat, in Rinascita, 7 nov. 1979, che è considerato il testamento politico dell'A., ormai gravemente malato.
Occasionato dal fallimento dello sciopero di protesta organizzato dal sindacato contro il licenziamento di sessantuno delegati della FIAT-Mirafiori accusati di violenza in fabbrica, l'intervento dell'A. muoveva gravi accuse al sindacato e serie critiche a vasti settori del partito. Al primo imputava dieci anni di errori: di aver creato dopo il 1968 nuove strutture di base (assemblee, delegati di reparto), "chiamate di democrazia diretta", che non erano riuscite ad assicurare "la partecipazione e la rappresentanza dell'intera massa degli operai, dei tecnici, degli impiegati"; di aver permesso il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e contraddittorio, che aveva portato a un aumento delle retribuzioni superiore a quello del costo della vita, senza preoccuparsi dei disoccupati e della produttività del lavoro; di mantenere in vita un sistema di indicizzazione salariale che provocava l'appiattimento delle retribuzioni e contribuiva a mantenere alto il tasso d'inflazione (la svolta moderata dell'EUR era rimasta allo stadio di semplice enunciazione); ma soprattutto di aver fornito una "giustificazione della violenza, di ogni forma di violenza in fabbrica come espressione della rabbia provocata da un "lavoro idiota"" ("E chi può negare che vi sia un rapporto diretto tra violenza in fabbrica e terrore?"). Il "filo rosso" del terrorismo iniziava - secondo l'A. - con l'opposizione alla politica delle riforme diffusa in Italia all'inizio degli anni Sessanta, passando dalla critica dei Quaderni rossi, "cherestringeva all'interno della fabbrica lo scontro di classe e considerava come democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme di struttura", a quella dei Quadernipiacentini e di Potere operaio, attraverso "quei tentativi di elaborazione teorica che formarono il terreno di coltura dell'estremismo, nell'incontro con l'estremismo di origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia dell'università di Trento": queste esperienze avrebbero portato "alla cosiddetta "autonomia" ed infine al terrorismo". Al PCI l'A. rimproverava "di non avere criticato apertamente, fin dal primo momento" il teppismo in fabbrica, "per una accettazione supina dell'autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del Pci di diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo". Quanto al moltiplicarsi degli scioperi e di forme di lotta che "paralizzano interi settori della vita nazionale, se vogliamo che non intervenga un governo autoritario ad imporre un ritorno all'ordine è tempo di pensarci noi a ristabilire le condizioni di una civile ed ordinata coesistenza".
L'articolo pubblicato pochi giorni prima di una riunione del comitato centrale del PCI - in cui egli, confermando le sue tesi che diceva dettate dal desiderio di contribuire alla "salvezza dell'Italia dallo sfascio, dal fallimento economico, da una soluzione autoritaria, se non fascista", affermava che non vedeva distinzioni "tra l'obiettivo del socialismo e la salvezza della Patria" (l'Unità, 16 nov. 1979) - suscitò disagio e critiche all'interno del partito: lo stesso Berlinguer gli rimproverò di indicare "l'obiettivo del ripristino di un sistema di equilibri economici e sociali che appartengono al passato" (l'Unità, 17 nov. 1979). A questo intervento l'A. replicò con un secondo articolo, I sacrifici per salvare l'Italia (in Rinascita, 7 dic. 1979), in cui, definendo "fumosi" i modelli di transizione al socialismo indicati dal segretario, affermava che la situazione era tale da far diventare rivoluzionaria ("opera di risanamento e di trasformazione") la semplice azione diretta a far funzionare con efficienza le istituzioni esistenti. Dall'area moderata e liberaldemocratica gli giunsero invece consensi, che contribuirono a creare intorno all'A. quella fama di uomo capace di elevarsi al di sopra degli interessi di parte, di "maestro di vita", di sollecito custode dell'interesse comune della nazione, che lo accompagnerà anche - e soprattutto - dopo la morte.
L'A. morì a Roma il 5 giugno 1980.
Negli ultimi anni di vita egli aveva scritto alcuni libri di memorie, nei quali era riuscito a trovare toni suggestivi per la rievocazione di ambienti d'epoca, di interni di famiglia, di atmosfere drammatiche e cariche di tensione. Un cenno a parte meritano ancora i suoi libri di storia. In polemica con P. Spriano, egli aveva più volte ribadito l'opportunità di scrivere la storia del PCI, partendo dalla situazione italiana e dalle tradizioni nazionali. Ma la sua storia del partito, i diversi saggi dedicati al movimento operaio e socialista, al di là degli inquadramenti generali (mai frutto di ricerche originali), sono piuttosto elenchi di occasioni mancate, cataloghi di deficienze ed errori, anche se egli si sforza di trovare toni più pacati per giudicare dissidenti o ex comunisti altrove bollati con termini infamanti. La ricostruzione storica, in questi libri, è in realtà finalizzata a quella che si potrebbe definire una eusebiana "pienezza dei tempi", costituita dalla faticosa conquista dell'unità tra le varie forze democratiche italiane per la lotta di liberazione dell'Italia dal fascismo.
Nell'impossibilità di fornire un elenco completo degli scritti dell'A., ci si limiterà ad alcune indicazioni essenziali. Per la collaborazione a riviste e giornali, per il periodo 1931-39 ricordiamo quelle a Lo Stato operaio, rivista teorica del PCd'I, di cui nel 1931-32 curò anche la rubrica "Osservatorio economico", a La Voce degli Italiani di Parigi e al Giornale stampato a Tunisi. Nel periodo 1939-45 collaborò alle Lettere di Spartaco, Il Grido di Spartaco, La Nostra lotta, l'Unità. Nel periodo del dopoguerra i suoi articoli sono sparsi tra l'Unità, Rinascita (esiste un indice per gli anni 1944-65 e quindi indici annuali), La Voce (1944-47, stampata a Napoli); La Voce del Mezzogiorno (1948-56, stampata a Napoli e diretta dallo stesso A. e da M. Alicata); Cronache meridionali (esiste un volume di Indici, 1954-1964, con presentazione di G. Chiaromonte); Critica marxista (esiste un volume di Indici per le annate 1963-72), Bollettino CeSPE (1966-70, poi assorbito da Politica ed economia, luglio 1970, del quale ultimo esistono indici annuali).
I suoi interventi ai congressi nazionali del PCI (partecipò dal IV del 1931 al XV del 1979) si possono leggere negli atti ufficiali pubblicati dal partito con varia denominazione. Il testo delle lezioni da lui tenute presso l'Istituto di studi comunisti alle Frattocchie (Roma) dal 1971 al 1979 sono stati pubblicati a cura di A. Cipriani, Riflessioni sugli anni '70 nelle lezioni di Amendola alle Frattocchie, Roma 1983. Una raccolta delle più importanti relazioni o conclusioni dell'A. nei comitati centrali, nelle conferenze e nei convegni del PCI, si trova presso la biblioteca dell'Istituto Gramsci di Roma.
Per i numerosissimi discorsi e interventi alla Consulta, all'Assemblea costituente e alla Camera dei deputati dalla I alla VIII legislatura, si rinvia agli Indici degli Atti (al novembre 1985 non sono stati pubblicati quelli relativi alle legislature VII e VIII).
Tra i suoi saggi d i argomento politico od economico si ricordano: La democrazia nel Mezzogiorno, Roma 1957; Classe operaia e programmazione democratica, ibid. 1966; La classe operaia italiana, ibid. 1968; Icomunisti e l'Europa, ibid. 1971; La crisi italiana, ibid. 1971; Fascismo e Mezzogiorno, ibid. 1973, Gli anni della Repubblica, ibid. 1976; Icomunisti e le elezioni europee, ibid. 1979; Polemiche fuori tempo, a cura di G. Goria, prefazione di F. De Martino, ibid. 1982; Tra passione e ragione. Discorsi a Milano dal 1957 al 1977, prefazione di S. Pertini, Milano 1982. Di argomento autobiografico sono: Lettere a Milano, Roma 1973 (ediz. economica, incompleta, ibid. 1976); Una scelta di vita, Milano 1976; Un'isola, ibid. 1980.
Dei numerosi profili biografici che l'A. scrisse ricordiamo quelli di G. Boretti, R. Grieco, G. Menconi, I. Barontini, C. Negarville, A. Corassori ora raccolti in Comunismo, antifascismo, Resistenza, Roma 1967, pp. 33-89, 325-385; di G. Di Vittorio (Il cammino rivoluzionario di G. Di Vittorio…, ibid. 1968), di A. Marabini (Imola 1969), di E. Curiel (nella prefazione a E. Curiel, Scritti, 1935-1945, a cura di F. Frassati, Roma 1973); di M. Alicata (in AA. VV., M. Alicata intellettuale e dirigente politico, ibid. 1978); di A. Gramsci (A. Gramsci nella vita culturale e politica italiana, Napoli 1978). Delle interviste si ricordano: G. Luciani, Il PCI e il capitalismo occidentale. Con una intervista a G. A., Milano 1972; E. Biagi, Dicono di lei, Torino 1974, pp. 14-20; Intervista sull'antifascismo, a cura di P. Melograni, Roma-Bari 1976, Il rinnovamento del PCI, a cura di R. Nicolai, Roma 1978. Dei libri a prevalente contenuto storico citiamo: Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, ibid. 1963, Fascismo e movimento operaio, ibid. 1975; Storia del Partito comunista italiano, 1921-1943, ibid. 1978. Per ragioni di spazio non è possibile dare qui un elenco dei suoi contributi pubblicati in volumi collettanei (del resto generalmente confluiti nei suoi libri), né delle numerose prefazioni, introduzioni, postfazioni a volumi di altri.
Fonti e Bibl.: Data la vastità del materiale documentario, inedito e a stampa, riguardante l'A., siamo stati costretti ad operare una scelta riduttiva. Per quanto riguarda il materiale d'archivio si è fatto ricorso solo al fascicolo relativo all'A.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 98; non è stato invece consultato l'archivio del PCI presso l'Istituto Gramsci di Roma, ampiamente utilizzato da P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I-V, Torino 1967-1975, e da S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Milano 1980. Per il periodo dall'adolescenza fino al 1945, oltre che i succitati libri di memorie dell'A., si vedano: G. Carocci, Giovanni Amendolanella crisi dello Stato italiano, 1911-1925, Milano 1956, ad Indicem; E. Kühn Amendola, Vita con GiovanniAmendola…, Milano 1960, ad Indicem; P. Secchia, Il Partitocomunista italianoe la guerradi Liberazione, in Annalidell'Istituto G. Feltrinelli, XIII (1971), passim; A. Clocchiatti, Cammina frut, Milano 1972, passim; L. Longo, I centri dirigentidel PCInella Resistenza, Roma 1973, passim; U. Massola, La direzionedel PCI in Italia. 1940-1943, in Critica marxista, XIV (1976), n. 2, pp. 151-172; A. Da Pont-S. Carolini, L'Italia dissidente e antifascista, prefaz. di S. Pertini, I, Milano 1980, passim; A. Spinelli, Come ho tentato didiventare saggio, I, Bologna 1984, ad Indicem. Per il periodo napoletano, oltre agli scritti dell'A. sul Mezzogiorno, si vedano S. Cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, Roma 1972, passim; M. Rossi Doria, Scritti sulMezzogiorno, Torino 1982, ad Indicem. Per il periodo in cui fu responsabile della commissione centrale d'organizzazione, la citata intervista a R. Nicolai e il promemoria autobiografico di Secchia in Archivio Pietro Secchia. 1945-1973, con introduzione e a cura di E. Collotti, in Annali della Fondazione G. Feltrinelli, XIX (1978), pp. 135-740. Per tutto il periodo del dopoguerra, è utile G. Mammarella, Il Partito comunista italiano 1945-1975. Dalla Liberazione al compromessostorico, Firenze 1976, ad Indicem.
Per la bibliografia specifica relativa all'A. esistono finora due "voci", pubblicate lui ancora vivente, in Enc. dell'antifascismo e della Resistenza, I, Milano 1968, pp. 51-53 (anonima) ein Il movimento operaio italiano. Diz. biografico, a cura di F. Andreucci e T. Detti, I, Roma 1975, pp. 62-67 (P. Spriano). Nel 1956 apparve a Milano un libello provocatorio, Biografia di G. A., liquidatore del PCI, ex-protetto diMussolini e della Gestapo, in Problemi del comunismo e del socialismo, rivista bimestrale diretta da L. Cavallo, suppl. n. 6. Tra gli scritti di circostanza pubblicati in occasione della morte, si possono ricordare: gli articoli di P. Spriano sull'Unità del 5 e 6 giugno 1980; G. Pajetta, G. A., un compagno, un amico, commemorazione pronunciata ai funerali il 7 giugno 1980, Roma 1980; N. Iotti, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, VIII legislatura, seduta del 2 luglio 1980, pp. 16503-16506. Primi elementi per una valutazione critica, in Rinascita, 13 giugno 1980 (scritti di R. Villari, M. Rossi Doria, G. Napolitano, B. Trentin, P. Sylos Labini, N. Badaioni, P. Alatri, L. Paolozzi, B. Schacherl); in P. Bufalini, G. A. e la sua sceltadi vita (discorso pronunciato al Festival nazionale dell'Unità il 17 sett. 1980 a Bologna), Roma 1980, e in Istituto per la storia della Resistenza in prov. di Alessandria, Quaderni, IV (1981), n. 8, che riporta le relazioni tenute al convegno organizzato a Valenza Po il 12 dic. 1980 sul tema G.A.: una presenzanella storia italiana (scritti di M. Guasco, pp. 3 s.; F. Livorsi, pp. 5-36; A. Agosti, pp. 37-45; C. Gilardenghi, pp. 47-122; G. Sapelli, pp. 123-138; G. De Rosa, pp. 139-143; D. Lajolo, pp. 145-152; E. Morando, pp. 153-157; L. Quarta, pp. 159-165). Segnaliamo inoltre a cinque anni dalla morte il numero di Rinascita, 8giugno 1985 (articolo di G. Chiaromonte e intervista a P. Spriano).