BUCCIARDO (Bocciardo, Bucciardi), Giorgio
Di origine genovese, nacque in data imprecisata nella prima metà del secolo XV. Imparentato con la famiglia Cybo, Innocenzo VIII lo nominò castellano di Montalto.
Gli anni, precedenti li dovette trascorrere, come i suoi pirenti, Ambrogio, Paolo e Nicola, in Levante, dove ebbe modo di imparare la lingua turca e di stabilire contatti con gli ambienti della corte del sultano. Alle sue esperienze turchesche dovette la sua fortuna alla corte pontificia, che sulla fing del secolo infittì i suoi rapporti con il sultano, occasionati dalla cattura del fratello di lui, Djem, affidato dai cavalieri di Rodi alla custodia del papa. Giunto in Roma nel maggio del 1492 un ambasciatore turco, il B. gli fu affiancato come interprete. Poco dopo, il 5 luglio 1492, fu nominato da Innocenzo VIII, già gravemente ammalato, scrittore apostolico e quindi inviato a Costantinopoli per far sapere al sultano che nel caso egli avesse preso nuove iniziative militari contro paesi cristiani, il papa sarebbe stato costretto ad usare il fratello Djem contro di lui. La morte di Innocenzo VIII non interruppe la continuità del suo servizio diplomatico: nel giugno 1493 egli rientrò a Roma insieme con l'ambasciatore del sultano che egli aveva accompagnato a Costantinopoli. Nel corso dell'udienza concessa da Alessandro VI all'inviato turco il B. svolse le consuete mansioni di interprete.
Ma la missione più importante di tutta la sua carriera ebbe luogo nel corso dell'anno successivo: con un breve del 4 giugno 1494 Alessandro VI lo accreditò come suo rappresentante presso il sultano. L'istruzione lo incaricava di avvertirlo dei piani di Carlo VIII che contava di venire a Roma e impadronirsi di Djem per mandarlo, dopo l'occupazione di Napoh, con una flotta in Turchia a spodestare il fratello. Insistendo sulla gravità del pericolo costituito per Báyazid dalla minacciata spedizione di Carlo VIII, il B. doveva chiedergli il pagamento immediato della somma di quarantamila ducati, fissata in precedenza come pensione annua per il mantenimento di Djem a Roma, e un intervento sui Veneziani per costringerli ad accordarsi con il papa contro i Francesi. Per convincerlo ad aiutare il papa, il B. non doveva tralasciare di far presente a Bāyazīd che un ambasciatore egiziano aveva già offerto ad Alessandro VI ingenti somme di denaro per avere nelle mani il fratello. Il B. si recò a Costantinopoli e vi restò a negoziare fino a tutto il settembre del 1494, conseguendo un pieno successo. Convinse il sultano della necessità di sostenere Alessandro VI contro Carlo VIII, ottenne il pagamento dei quarantamila ducati e l'invio in Italia di tre ambasciatori turchi diretti a Napoli, Venezia e Roma per concertare la resistenza contro il re di Francia. Nel novembre del 1494, di ritorno dalla Turchia, sbarcò ad Ancona insieme con uno degli ambasciatori di Bàyazid che doveva condurre a Roma. La notizia della sua missione in Turchia era venuta a conoscenza dei nemici di Alessandro VI, che si annidavano fin dentro il Sacro Collegio, ancor prima che il B. partisse da Roma. Come scrisse un agente milanese a Ludovico il Moro, già nel giugno era stato deciso di mandare ad Ancona una persona di fiducia che lo "seguesse et pigliasse il gripo, li denari et l'instructione". Si assunse quest'incarico il prefetto di Roma e signore di Senigallia, Giovanni Della Rovere, fratello del cardinale Giuliano che già nell'aprile aveva rotto clamorosamente con Alessandro VI rifugiandosi in Francia. Appena uscito da Ancona il B. cadde così nell'imboscata tesagli dal Della Rovere, che lo catturò e gli sottrasse il denaro e i documenti. All'ambasciatore turco riuscì invece di fuggire ad Ancona per riparare quindi a Mantova, accolto cordialmente dal Gonzaga, e poi a Venezia. Denunciò subito al papa e alla Signoria il colpo di mano del signore di Senigallia che militava al soldo della Repubblica.
Timorosa delle possibili reazioni turche e pontificie, la Signoria inviò a Senigallia il segretario Alvise Saguntino, nel tentativo di indurre il Della Rovere a restituire almeno il denaro estorto al Bucciardo. Ma ottenne solo un risoluto diniego: il Della Rovere si giustificò con la scusa di avere agito non come stipendiario veneziano, ma in qualità di signore di Senigallia, della quale era stato investito da Sisto IV. Assicurò poi che la somma gli era dovuta da Alessandro VI e che aveva colto solo una buona occasione per prendersela. Incurante delle proteste di Venezia che gli ritirò il soldo, del resto già scaduto, e della scomunica lanciatagli prontamente dal papa, il signore di Senigallia trovò subito una sistemazione nell'esercito di Carlo VIII disceso nel frattempo in Italia. Si affrettò quindi ad inviare a Firenze i documenti sequestrati al B. che costrinse pure, usando anche la tortura, ad autenticarli con una dichiarazione espressa e sottoscritta. Si trattava di sei documenti, l'istruzione di Alessandro per il B. e cinque lettere di Bàyazid al papa, che vennero affidati al notaio Filippo de Patriarchis per la pubblicazione. Le prime quattro lettere, che erano scritte in greco, furono tradotte da Giovanni Lascaris, la quinta in latino fu tradotta dallo stesso notaio. La prima delle quattro lettere greche annunciava l'invio della somma pattuita di quarantamila ducati, la seconda congedava il B., la terza accreditava l'ambasciatore turco presso il papa, la quarta chiedeva il cappello cardinalizio per il parente del B., l'arcivescovo Nicola Bucciardo. Di interesse particolare era la quinta lettera, la cui autenticità è stata contestata. In essa il sultano offriva al papa la somma di trecentomila ducati in cambio dell'assassinio di Djem, considerato sempre molto pericoloso per la sicurezza dell'Impero ottomano. La pubblicazione di questi documenti suscitò un grande scalpore e non mancò di esercitare una certa influenza sul manifesto pubblicato da Carlo VIII il 22 nov. 1494 per annunciare alla cristianità la sua discesa in Italia e il proposito di iniziare la crociata contro il Turco. I nemici di Alessandro VI gridarono allo scandalo nel denunciare i segreti accordi del supremo capo e tutore della cristianità con il nemico dichiarato di essa. La reazione di Alessandro VI era stata quanto mai tempestiva: egli aveva informato il duca di Milano, la Repubblica di Venezia, e i cardinali Ascamo Sforza e Giuliano Della Rovere dell'oltraggio subito, invocando l'immediata restituzione del danaro e dei documenti sottratti al Bucciardo. A Carlo VIII mandò un apposito inviato, fra' Graziano da Villanova, che ottenne solo generiche assicurazioni. Lo scandalo si dissolse però nel nulla.
Nel 1495 fu concluso tra il papa e Carlo VIII un accordo in base al quale Djem, passò ai Francesi che lo condussero con loro nella spedizione contro il Regno di Napoli. Nel corso di essa morì a Capua. Dopo la cacciata dei Francesi dal Regno, il suo corpo, che era stato fatto imbalsamare, passò nelle mani del re Federico d'Aragona che iniziò trattative con il sultano per la sua consegna. Anche il papa sperò di potere spillare denari a Báyazid con l'occasione della morte del fratello. Nel febbraio del 1496 mandò infatti il B., che nel frattempo aveva recuperato la libertà, a Costantinopoli, dove "el Signor lo havia visto volentieri et fatoli honor assai". Insieme con lui era, ancora nel maggio, in Turchia un inviato napoletano, anch'egli in incognito, e "si divulgava per voler denari", ma non pare che nessuno dei due sia riuscito ad ottenerne da Bāyazīd.
Nel dicembre dello stesso anno il B., rientrato in Italia, risiedeva a Fano, presso il suo parente, l'arcivescovo Nicola Bucciardo governatore della città, libero a quel che pare da ogni impegno al servizio pontificio. Sembra invece che abbia preso contatto con il duca di Ferrara, per conto del quale mandò a Costantinopoli un "suo noncio", con tutta probabilità il suo parente Ambrogio Bucciardo, per aizzare i Turchi contro i Veneziani. Di lui non si ha più alcuna notizia. Non si conosce la data della morte, che cadde però sicuramente prima del 18 apr. 1499. In tale data infatti il cardinale Ascanio Sforza lo dava in una lettera al fratello Ludovico come quondam.
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