CATTANEO, Giorgio (Mastogiorgio)
Nacque a Napoli verso la fine del sec. XVI o agli inizi del successivo.
Nulla si sa della sua famiglia, della sua vita privata, dei suoi studi e della sua personalità, mentre assai scarse sono le notizie sulla sua attività di medico, che egli svolse presso l'ospedale degli Incurabili a Napoli nella prima metà del Seicento.
Questo ospedale, fondato nel 1519 dalla benefattrice Maria Lorenza Longo, fu tra i primi in Europa ad occuparsi stabilmente e con una precisa terapia degli affetti da "melangolia" o "delirio melangolico". La cura della psicopatia, a base di decotti, purghe e altri specifici, non dava buoni risultati ed era assai costosa; venne quindi accolto con particolare favore il nuovo metodo proposto dal C., razionale ed economico insieme.
Egli stimava necessario analizzare le radici somatiche del male psichico, che per lui risiedevano nelle meningi cerebrali, da cui l'anormalità si diffondeva in tutto il corpo. Poiché le reazioni anormali del comportamento erano, a suo dire, dovute o ad eccessiva forza fisica - unita a debolezza dei centri nervosi - o a debolezza fisica, il C. curava i pazienti nel primo caso utilizzando diversamente il loro eccesso di forza fisica, ad es. facendo loro girare la ruota per attingere acqua da un pozzo, ancora esistente all'inizio di questo secolo in un cortile dell'ospedale. A chi fa il matto, ancor oggi popolarmente si dice a Napoli che deve andare "a la rota". Nel caso opposto invece - e qui la cura mostra il suo carettere filantropico - il paziente veniva sottoposto a una cura ricostituente a base di uova, cento uova, si dice; erroneamente qualcuno suppose che le "cient'ova" venissero date in ricompensa a chi trasportava il pazzo all'ospedale. Per i furiosi però restavano le battiture, cura adoperata fin dall'antichità, amministrata assai severamente con la frusta, detta cignone, allo scopo di stroncare con immediatezza l'eccesso di energia. Tutti i ricoverati poi vestivano allo stesso modo, con abiti di lana bianca e un berrettino, pure bianco, in testa. Se questo metodo, soprattutto per le nerbate, oggi pare poco umano, certo a quel tempo dovette apparire oltremodo economico per i responsabili dell'ospedale.
Comunque colpì vivamente l'immaginazione popolare, se nel dialetto partenopeo, nel costume, nella letteratura dialettale sono rimaste impronte durate fino a oggi. Ad esempio nelle feste di carnevale era frequente la facezia di travestirsi da pazzi, con abiti bianchi e gualdrappe gialle fornite di campanelli per le cavalcature, o da "maestro dei pazzi" con lo staffile in mano. Anzi talvolta vi partecipò proprio il vero "maestro dei pazzi",In dialetto si usa ancor oggi dare il nome di Mastogiorgio a coloro che si occupano della cura e della custodia dei pazzi, e "l'aspetta Mastogiorgio" si dice di chi dà chiari segni di follia. Questo era infatti il nome popolare del C., detto "masto o maestro per la sua eccellenza fra gli altri aggressori": così erano chiamati psichiatri e infermieri dell'ospedale degli Incurabili, e il nome lascia capire la violenza fisica con cui erano affrontati, ricoverati e curati i malati di mente.
Il C. si distingueva fra gli altri medici per l'indirizzo correttivo ed educativo del suo metodo, che peraltro forse non ebbe applicazione dopo la sua morte, soprattutto per la presenza agli Incurabili di medici come Leonardo di Capua, Tommaso Cornelio, Marco Aurelio Severino, Mario Schipano e altri che, insegnando chirurgia, medicina, anatomia e chimica secondo i principi dell'Accademia degli Investiganti, consideravano diversamente le alterazioni fisiopsichiche.
Quando sia avvenuta la morte del C., è assai arduo stabilire, anche perché un incendio dell'archivio dell'ospedale degli Incurabili, avvenuto nel 1794, distrusse completamente ogni documento. Risulta ancora vivo nel 1658 da un manoscritto della Biblioteca naz. di Napoli, Conclusioni diverse degl'Incurabili (XI, D.13), che a p. 59 cita il C. "maestro dei matti" in una lite a proposito di certo materiale dell'ospedale (materassi, lenzuola ecc.) bruciato in seguito ad un contagio; e ancora vivo si può supporre nel 1665, anno in cui viene citato come dotto e saputo domatore di "capo-tuoste" in un poema di Titta Valentino, con un esplicito riferimento alla sua lunga esperienza e alla sua perizia nella cura della pazzia. Verso la fine del secolo egli risulta invece già morto da un sonetto di Nicola Capasso, in cui s'invoca la sua cura per sanare la pazzia petrarchesca che ha preso molti poeti e ci si rammarica che egli non ci sia più. Accertata comunque la sua presenza di medico nella Napoli del Seicento, resta tuttora oscuro se egli abbia lasciato qualche scritto.
Talvolta è stato erroneamente confuso con l'omonimo vescovo di Vigevano (1661-1730), autore di orazioni e di trattati teologici, talaltra si è perfino negata la sua esistenza.
Bibl.: G. B. Valentino, Napole Scontrafatto, Napoli 1665, p. 24; F. Galiani, Vocabolario delle parole del dialetto napol., che più si scostano dal dial. toscano, I, Napoli 1789, pp. 218 s.; N. Capassi, I sonetti in dial. napol.,Napoli 1810, p. 164; E. Buonocore, Mastogiorgio nella st. della cura della pazzia, Napoli 1907 (recens. in Arch. stor. per le prov. napoletane, XXXIII[1908], pp. 572 s. e in Arch. stor. ital.,LXVIII [1909], pp. 223 s.); M. De Luca, La "forma assonantica" o "etimologia popolare" nel Napoletano, Napoli 1950, pp. 3 s.; A. Altamura, Diz. dialettale napol.,Napoli 1956, p. 141.