GIORGIO (Zorzi, Zorzo) da Castelfranco, detto Giorgione
Non si conosce con esattezza la data della nascita di G., che dovette avvenire a Castelfranco Veneto tra il 1477 e il 1478. È difficile inoltre delineare la sua biografia poiché i documenti che lo riguardano sono pochissimi e si concentrano negli anni 1506-08, con un'interessante appendice, qualche giorno dopo la fine della sua breve esistenza e della sua brevissima carriera.
Dietro la Laura di Vienna, un'iscrizione apparentemente contemporanea - ma non necessariamente autografa - data il dipinto al 1° giugno 1506 e lo dichiara "de man de maistro Zorzi de Chastel Fr(anco) cholega de maistro Vizenzo Chaena [Vincenzo Catena]".
Il 14 ag. 1507 il Consiglio dei dieci ordina a Francesco Venier, provveditore al Sale e cassiere della fabbrica, di pagare a G. 20 ducati quale anticipo per un telero di soggetto imprecisato da collocare ("el teller da esser posto") nella sala dell'Udienza in palazzo ducale.
Il 24 genn. 1508 i Dieci ordinano ad Alvise Sanuto, nuovo provveditore e cassiere, di pagare un acconto di 25 ducati al pittore, che è in quel momento impegnato nell'esecuzione dell'opera ("el teller el fa"). Infine il 23 maggio di quello stesso anno Alvise Sanuto è chiamato dai Dieci a rimborsare a Giorgio Spavento, proto di palazzo, le piccole spese "per la tenda di la tella fatta per la Camera di la audientia nuova": ciò sembra testimoniare che a questa data il telero di G. era compiuto (Lorenzi, 1868, pp. 141 n. 292, 144 n. 300, 145 n. 303; Pignatti, 1969, p. 159). In tal caso dovette andar distrutto in uno degli incendi (1574 e 1577) che devastarono il palazzo e cancellarono le pubbliche imprese di qualche generazione di pittori.
In data 13 febbr. 1508 G. s'impegna con tal Alvise di Sesti a eseguire entro l'anno quattro tele con la storia di Daniele. Il documento, pubblicato nel secolo scorso e più tardi sospettato di falso senza particolari motivazioni, è oggi introvabile e pressoché dimenticato (Molmenti, 1878, pp. 6 s.; Pignatti, 1969, p. 159).
In data 8 nov. 1508 i provveditori al Sale sono sollecitati dalla Signoria a discutere la causa intentata da G. per il pagamento degli affreschi eseguiti nei mesi precedenti sulla facciata d'acqua del fondaco dei Tedeschi. L'11 dicembre una commissione di pittori, nominata da Giovanni Bellini e composta da Vittore Carpaccio, Lazzaro Bastiani e Vittore di Matteo (più noto come Vittore Belliniano), stima il valore dell'opera in 150 ducati; ma i provveditori decidono d'autorità di ridurre il compenso a 130 (il documento è riportato integralmente e correttamente in Maschio, 1994, p. 198 n. 61).
In data 25 ott. 1510, Isabella d'Este marchesa di Mantova scrive a Taddeo Albano, suo funzionario in Venezia, chiedendogli di prendere informazioni sul possibile acquisto di "una pictura de una nocte, molto bella et singulare", rimasta nell'eredità di Giorgione. Il 7 novembre l'Albano, confermando che G. è morto di peste già da diversi giorni, precisa che nella sua eredità non c'è il quadro richiesto; è vero che esistono due versioni della "nocte", una ("non […] molto perfecta") in casa di Taddeo Contarini e una ("de meglior desegnio et meglio finita") in casa di Vittorio Beccaro, ma non sono in vendita, giacché i proprietari "le hanno fatte fare per volerle godere per loro" (Luzio, 1888, p. 47; Pignatti, 1969, p. 160).
La fonte più importante è il quaderno marciano di Marcantonio Michiel, un giovane patrizio amatore e collezionista d'arte, che negli anni 1521-43 vi annotò fra l'altro sintetiche descrizioni, corredate di precise indicazioni di paternità, dei quadri visti nelle raccolte veneziane: è lui che ci ha lasciato testimonianza di diverse opere sicure di G., tra cui le più famose, la Tempesta e i Tre filosofi. La mentalità inventariale di Michiel non si estende a elementi di biografia e cronologia; al di là della traccia di un catalogo essenziale, il suo contributo appare fondamentale soprattutto per ricostruire la rete del collezionismo veneziano a una generazione di distanza da Giorgione.
Il maggior merito della biografia scritta da Vasari è quello d'avere almeno approssimativamente stabilito la data di nascita del pittore: al 1477, stando alla prima edizione delle Vite, o al 1478, stando alla seconda. Nella sostanza storico-critica la contraddizione tra le due redazioni è assai più radicale: dalla prima (1986, p. 557) risulta che G. imparò l'arte "senza la maniera moderna" (ossia senza la lezione dei toscani), stando coi Bellini e da sé, e sempre imitando la natura; nella seconda (IV, 1879, p. 92) s'afferma invece che G. superò i Bellini (ma, si direbbe, senza averli frequentati) e che apprese "la maniera moderna" da imprecisate "cose di mano di Lionardo", seguendola poi per tutta la vita. In tutte e due il catalogo è scarno, generico e improbabile; e dall'una all'altra rimbalza la romanzesca cornice a base di feste e liuti, amore e morte.
La storiografia moderna si è sostanzialmente adagiata sui modelli vasariani, riflettendone tutti gli equivoci, le contraddizioni e le omissioni. È ovvio allora che di G. non esista oggi un'immagine ma cento immagini, non una cronologia ma cento cronologie, non un catalogo ma cento cataloghi. In compenso è sempre esistito un florido mercato, già attestato dalla fantasiosa biografia di Ridolfi (1648) e dai rigonfi inventari delle collezioni sei-settecentesche, poi nutrito dall'incertezza documentaria e sostenuto da attribuzioni compiacenti, restauri tendenziosi, falsificazioni quasi integrali, come il cosiddetto Tramonto della National Gallery di Londra (Gentili, 1981, pp. 16-24; 1993, pp. 292-294).
Negli ultimi anni ha inoltre preso (o ripreso) quota - dopo un periodo di sorvegliata restrizione della cronologia e delle attribuzioni (Pignatti, 1969 e 1978: ma vedi anche Anderson, 1996) - una tendenza neoespansionistica (Ballarin, 1993; Lucco, 1995 e 1996) che recupera alle due estremità del catalogo di G. numeri da tempo espunti o assai discussi, datando la sua prima attività agli ultimi quattro o cinque anni del Quattrocento e collegandola strettamente a "influenze" extraveneziane, in particolare quella di Leonardo, già decisamente sostenuta da Vasari nella seconda edizione delle Vite. Ma al 1496 G. aveva diciott'anni e plausibilmente se ne stava in Castelfranco e dintorni ad affrescare facciate di case come ogni giovane pittore della Marca trevigiana; mentre Leonardo ne aveva quarantacinque e lavorava in Milano al Cenacolo e a molte altre cose: non si capisce quale misteriosa categoria dello spirito potesse metterli in contatto. Non meno improbabile, a dispetto di una maggior concretezza apparente, è l'ipotesi che G. abbia "incontrato" Leonardo a Venezia nel marzo 1500: perché Leonardo si fermò pochissimo, e non per incontrare pittori ma per offrire al governo della Repubblica un progetto di ingegneria militare; e soprattutto perché, fino a prova contraria, non è detto che G. fosse già in città. Altri contatti suggeriti per questo presunto avvio precoce del percorso di G. - su una linea umbro-emiliana tra Perugino, Francia e Costa - non offrono soddisfacenti riscontri in termini di linguaggio né agganci concreti in termini di geografia e cronologia.
Sarà dunque opportuno riproporre un catalogo molto severo, una cronologia racchiusa nel primo decennio del Cinquecento e una serie ristrettissima di incontri e incroci nel mestiere, limitata a quel che è documentato e a quel che è contestualmente possibile; e soprattutto stabilire ex novo una netta distinzione di storia e geografia culturale, e conseguentemente anche di cronologia, tra la prima attività di G. a Castelfranco (e a Montagnana) e la sua successiva attività in Venezia, ragionando il passaggio dalla periferia al centro secondo percorsi di committenza e percorsi di idee. I documenti sono pochi, ma dicono molto più di quanto finora vi è stato letto. I quadri sono pochi, spesso difficili, talvolta (ancora) indecifrabili, ma mostrano molto più di quanto finora vi è stato visto. Attraverso i documenti e i quadri si può ricomporre almeno in parte la scomoda biografia che le fonti hanno rimosso e che la moderna storiografia ha celato dietro miti di comodo.
G., con ogni probabilità, giunse a Venezia soltanto verso il 1503-04, dopo aver lasciato in Castelfranco almeno due opere importanti, ma poco fortunate: il fregio di casa Marta (ora impropriamente denominata "casa di Giorgione"), in buone condizioni di leggibilità, e però trascurato, incompreso, spesso addirittura negato; e la pala in duomo, viceversa celeberrima, ma talmente alterata da ridipinture antiche e moderne (Merkel, 1981) da risultare ormai praticamente ingiudicabile sul piano del linguaggio, pur se ancora valutabile, ovviamente, per le sorprendenti novità d'invenzione e d'impaginazione. In Venezia - come è documentato dall'iscrizione dietro la Laura - approdò alla bottega di Vincenzo Catena, apprese un solido mestiere "belliniano", lo sviluppò con qualche spunto di originalità e qualche attenzione per la grafica tedesca e lo ripudiò ben presto, scegliendo il "leonardismo" di riporto offerto in laguna da epigoni e imitatori. Non risulta da alcuna fonte che abbia mai avuto bottega personale, scuola, e tanto meno i "creati" assegnatigli da Vasari: Sebastiano Veneziano s'afferma prima e meglio di lui; Tiziano gli ruba il posto alla prima occasione. Estraneo di fatto al circuito ecclesiastico, i documenti del 1507-08 lo indicano in ascesa in quello delle commissioni civiche, ma si scontrano poi con i sostanziosi indizi di un doppio fallimento, col relativo silenzio del 1509-10, col silenzio assoluto della morte improvvisa.
Dall'esame comparato dei documenti e delle fonti, dall'indagine sui numeri sicuri dell'esiguo catalogo e sul nutrito elenco dei committenti, dai rari approfondimenti iconologici, che non abbiano abdicato al controllo, risulta insomma inequivocabilmente che G. ebbe un ruolo modesto e marginale sia rispetto all'emergenza dei pittori "nuovi", Tiziano e Sebastiano Veneziano, sia rispetto alla continuità dei "vecchi", Bellini, Carpaccio, Cima da Conegliano: un ruolo del tutto in contrasto con la mitizzazione dei romantici, con la sopravvalutazione dei moderni, con l'attenzione mercantile di tutte le epoche. Questa limitazione dipende dal fatto che, a fronte delle innegabili qualità di fusione coloristica e definizione atmosferica che determinano il diffuso apprezzamento moderno, gli mancarono anatomia e disegno, dunque costanza e sicurezza nella costruzione della figura, nella resa del movimento e del gesto, e dunque la capacità di raccontare, di dipingere "istorie"; e dal fatto che gli mancarono gli opportuni rapporti politico-culturali in sede ecclesiastica e in sede civica, nonché il tempo, e forse la voglia, di costruirseli. Il pubblico successo, e il successo personale in termini di economia del mestiere e riconoscimento del ruolo, dipendevano infatti dall'impegno e dal risultato nei generi celebrativi, il telero storico e la pala d'altare. G. restò nella dimensione privata, con le sue figure isolate e immobili, con il suo difficile allegorismo: caratteristiche che allora lo lasciarono ai margini del grande giro, che oggi lo rendono affascinante, che allora come oggi lo mantengono sostanzialmente incompreso.
Alcune immagini di G. continuano infatti a eluderci, e non per eccessiva complessità di significato ma per eccessiva laconicità di dettato, per invalicabile reticenza semiotica. Salvo contentarsi di qualche paesaggio "modernamente" evocativo, il problema resta quello di comprendere se questa sorta di minimalismo sia un limite oggettivo delle sue qualità pittoriche, o piuttosto o anche una necessità culturale, una forma di cautela all'atto della traduzione figurativa di tematiche riservate, circoscritte, rischiose sul piano politico, o sul piano religioso, o su tutti e due.
Una plausibile cronologia di G. può essere dunque scandita in questi termini: una prima attività in Castelfranco e Montagnana (1500-03); un'attività a Venezia nella bottega di Vincenzo Catena e nel solco della tradizione belliniana (1503-06); un'attività a Venezia segnata dall'adesione al "leonardismo", dal massimo successo nelle commissioni private e dai fallimenti nelle commissioni pubbliche(1506-08); un'attività a Venezia segnata dal nulla o quasi, forse soltanto da alcuni ritratti (1508-10).
La pala del duomo di Castelfranco (1501-02) presenta una Madonna altissima sul trono spropositato che si perde nel cielo, tristissima col suo Bambino crollato dal sonno secondo le consuete modalità iconografiche del preannuncio della Passione. Tanta solenne e funebre lontananza è mediata allo spettatore dai due santi, in particolare dal gesto di richiamo e presentazione dell'accorato Francesco. Il santo guerriero, dal volto completamente rifatto, può essere Giorgio (titolare della cappella, nonché eponimo del pittore) o Liberale (titolare del duomo e patrono di Treviso e della Marca) o magari l'oscuro Nicasio (martire dell'Ordine dei cavalieri gerosolimitani, a cui apparteneva il committente), o addirittura "impersonarli" tutti secondo il procedimento evasivo e allusivo che è tipico di Giorgione.
Il capitano Tuzio Costanzo, che volle la pala per la sua cappella di famiglia, era stato al servizio di Caterina Corner in Cipro; la ritrovò diversi anni dopo fra Asolo e Castelfranco, dove s'era da tempo solidamente stabilito con avveduti acquisti di proprietà terriere. Forse sperava in una vita più tranquilla, ma non riuscì mai a sottrarsi alle incombenze militari: per quel che le tante ridipinture lasciano ancora intravedere, s'avverte nel dipinto un'atmosfera tesa e sofferente, silenziosa e presaga, confermata da tracce di guerra - la torre malconcia e i soldati in riposo - nella campagna arida e svuotata.
L'unico disegno concordemente attribuito a G. (Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen, 1501-02) rappresenta un giovane ammantato, scalzo, triste, seduto su una roccia presso un corso d'acqua fuori di una città murata; il bastone, che qualifica l'esule, il viandante, il pellegrino, l'ha fatto scambiare per un pastore, anche se non c'è ombra di gregge; in alto si intravede a fatica un grosso uccello che porta qualcosa nel becco.
Tradizionalmente le mura erano identificate con quelle di Castelfranco, tanto che il presunto pastorello era letto come proiezione autobiografica di G. in una scena arcadica "senza soggetto"; ma è stato poi dimostrato inequivocabilmente che si tratta delle mura di Montagnana. Il soggetto, naturalmente, c'è: il profeta Elia, fuggito dalla città dopo aver maledetto il re Achab adoratore di idoli, si nasconde in solitudine lungo il torrente Carit e viene nutrito dai corvi.
L'ambientazione a Montagnana del raro soggetto biblico è l'elemento basilare di contesto per sostenere la più recente attribuzione (Dal Pozzolo, 1991; Parolo, 1996) al primo G. (1501-02) dei due affreschi nel duomo di questa città, recentemente liberati dalle ridipinture, che rappresentano, a figura quasi intera e su sfondi di paesaggio, David che ostenta la testa di Golia e Giuditta che contempla la testa di Oloferne.
David e Giuditta, eroi imprevedibili (un ragazzo, una donna) che garantiscono con le loro ragionate e valorose imprese la salvezza materiale del popolo ebraico, sono largamente interpretati nei testi e nelle immagini come prefigurazioni di Gesù e di Maria, che garantiscono la salvezza spirituale del popolo cristiano. I manuali figurati della concordia tra Vecchio e Nuovo Testamento circolanti come "Bibbie dei poveri" o "specchi della salvezza umana", che propongono la conciliante analogia, assegnano la stessa proiezione nel futuro cristiano a Mosè, guida e legislatore del popolo eletto, e a Salomone, giudice saggio e incorruttibile. Ma le due tavole di G. (Firenze, Galleria degli Uffizi, 1500-01) col rarissimo episodio di Mosè bambino alla prova dei carboni ardenti e con quello assai diffuso del Giudizio di Salomone non sembrano inserirsi in questa prospettiva cristiana, poiché si limitano a contrapporre - anche nell'impaginazione speculare - la crudele giustizia del sovrano d'Egitto alla giustizia pacifica del sovrano d'Israele.
Giuditta torna intanto nello sportello del Museo dell'Ermitage a San Pietroburgo (1502-03), che forse faceva pendant con un David perduto, sempre contemplando a occhi bassi la testa mozzata, calpestata e livida di Oloferne, e mostrando non solo l'enorme spada che ha completato l'impresa ma anche l'erotismo, rigorosamente controllato da castità, che ha avviato l'impresa con il finto e strumentale adescamento del generale nemico.
Elia, Mosè e Salomone, Giuditta e David compaiono senza alcuna visibile proiezione in chiave cristiana, e invece con una netta compromissione in chiave ebraica, che equivale a un'esplicita dichiarazione di identità culturale (Calvesi, 1970, pp. 194-198, 231-233). A questa dichiarazione sembra tutt'altro che estraneo il fregio di Castelfranco, drammaticamente teso tra i due poli caratteristici della cultura ebraica: il confronto col destino e l'attesa del riscatto.
Il fregio si estende per quasi sedici metri di lunghezza in cima alla parete est del salone dell'antica casa Marta in Castelfranco. Non c'è alcuna documentazione sul suo autore, sulla sua commissione, sulla sua occasione. L'attribuzione a G., enunciata per la prima volta nel settecentesco Repertorio di memorie locali compilato da Nadal Melchiori, approvata dalla maggior parte degli studiosi ma negata da una tenace minoranza, appare in effetti ben difficilmente revocabile: intanto per esclusione, giacché non esiste in zona, alla data 1502-03 fissata dalle sue coordinate iconografiche, un altro pittore adeguato a questo livello tematico e linguistico; poi per via di riscontri d'ordine tipologico ed esecutivo con altre opere (soprattutto le due tavole fiorentine con Mosè e Salomone); infine, perché i temi principali del fregio si ritrovano di lì a poco nel capolavoro di G., i cosiddetti Tre filosofi.
Tradizionalmente interpretato come esaltazione delle arti, il fregio è esattamente il contrario, ossia un'illustrazione della decadenza delle arti determinata dall'influenza negativa degli astri (Gentili, 1999, pp. 9-17). La preponderante sezione astrologica - sapientemente organizzata con libri, strumenti e figure appropriate, ricavate dai testi contemporanei più autorevoli in materia - è infatti caratterizzata da una duplice indicazione di assoluta attualità: la sfera celeste con i segnali (la triade zodiacale dei segni d'acqua, i due segni equinoziali, l'opposizione di Sole e Luna) della grande congiunzione di Saturno, Giove e Marte in Cancro, prevista tra l'ottobre del 1503 e il giugno del 1504; la rappresentazione delle eclissi di Sole e di Luna, che rimanda all'eclisse di Sole prevista per l'ottobre del 1502 e, soprattutto, alla temutissima eclisse totale di Luna attesa per il 29 febbr. 1504, in concomitanza con la grande congiunzione. Secondo gli astrologi, questa infausta situazione astrale avrebbe causato pestilenze e carestie, tempeste e terremoti, stragi atroci e guerre sanguinose, insomma il catastrofico rivolgimento del mondo intero.
La successiva sezione con trofei d'armi si riferisce proprio alla follia delle guerre, incoraggiate dalle avverse condizioni celesti. I disastri bellici generano la nostalgia del pacifico mondo scomparso e il rimpianto della sua cultura, dell'esistenza armonica modellata sull'armonia dell'universo: ma quest'armonia non esiste più, perché è stata irrimediabilmente incrinata dal capriccio della fortuna, dall'ostilità delle stelle, dall'ira del cielo. A questo punto compaiono davvero le arti, a cominciare dalla musica, con una raffinata sequenza di strumenti. Ma l'universo ha ormai smarrito l'armonia, e dunque l'arte musicale potrà rifletterne solo frastuono e dissonanza, o - al limite, alla fine - silenzio: su questi strumenti abbandonati e malinconici nessuno potrà far musica, perché non hanno più corde. Si entra poi nello studio di un pittore, con strumenti consueti dell'arte, quadri scadenti o soltanto abbozzati, un grosso libro aperto con disegni di prospettiva assolutamente elementari. In fondo c'è anche una grande cassa o cassetto, ma manca la chiave per aprirne la misteriosa serratura.
I temi figurati nel fregio - e sottolineati dalle massime latine nelle tabelle disposte in coppie a intervalli quasi regolari - offrono parecchi elementi per una solida contestualizzazione nella cultura trevigiana (Pastore Stocchi, 1987). Il personaggio-chiave è con ogni probabilità Giovan Battista Abioso, medico, matematico e filosofo campano trasferitosi a Treviso, dove tenne rinomata scuola a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Le opere dell'Abioso - il Dialogus in astrologiae defensionem (Venetiis 1494) e il Divinus tractatus: terrestrium et coelestium trutina (ibid. 1498) - rispecchiano una concezione scientifica dell'astrologia: lo studio degli eventi celesti non è solo questione di osservazione sperimentale ma si fonda sulla conoscenza approfondita della matematica e della geometria. Il fregio esibisce nei molti e grossi libri il fondamento teorico, negli aggiornati strumenti la pratica adeguata, nelle precise figure il risultato, e la prova, di teoria e prassi scientificamente orientate e collegate. Come i libri degli astrologi matematici, i primi due medaglioni del fregio con saggi venerandi dall'esotico copricapo dichiarano esplicitamente che i fondamenti della scienza stanno nell'antico sapere degli arabi e degli ebrei.
Nel 1505 Giovanni Aurelio Augurello, umanista multiforme saldamente collocato fra Treviso e Venezia, pubblica nella prestigiosa stamperia di Aldo Manuzio una raccolta di Sermones, comprendente tra gli altri un carme significativamente intitolato Imminentium temporumquerela. Scritto al volgere del nuovo e improvvido secolo, e quasi diretta parafrasi delle previsioni catastrofiche più asciuttamente affidate alla prosa trattatistica dell'Abioso, il carme dell'Augurello sembra anche - se non un vero e proprio "sottotesto" - un preciso equivalente testuale del pronostico affidato alle immagini e alle massime del fregio: vi ritroviamo il timore per l'ira del cielo e la crudeltà delle stelle, le guerre e le stragi, le pestilenze e le carestie, ma anche la nostalgia per le arti del passato, anche l'appello alla ragione e alla sapienza contro il destino.
Un coerente seguito al fregio è fornito dal celebre dipinto che Marcantonio Michiel vide in casa di Taddeo Contarini nel 1525, annotando nel suo quaderno quanto segue: "la tela a oglio delli tre phylosophi nel paese, dui ritti et uno sentado che contempla gli raggii solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco et finita da Sebastiano Vinitiano" (Michiel, pp. 164 s.). Sull'identità dei presunti Tre filosofi si è ovviamente aperta da tempo (e non s'è mai chiusa) un'interminabile sequenza di ipotesi combinatorie più o meno plausibili; ma riscuote un discreto successo anche l'alternativa in chiave cristiana fornita dalla ricorrente identificazione con i re magi, costretti peraltro a rinunciare alle insegne del rango, a portarsi appresso non doni ma strumenti di misura e a contemplare una grotta disperatamente vuota.
Il vecchio ha il compasso e una tabella ricca di segnali astrologici; il giovane ha compasso e regolo a squadra; e quello che in tutti sensi è il mediano, per età e posizione, sarà inevitabilmente - anche se privo di qualsiasi strumento - collega degli altri due. I tre filosofi sono più precisamente tre astrologi, di diversa età, nazione, religione e cultura: da quel che vediamo, un vecchio ebreo, un arabo d'età adulta e un più indefinito giovane occidentale. Il più importante e autorevole è evidentemente il vecchio ebreo, qualificato dal compasso e dalla tabella quale protagonista e depositario dell'antica scienza. La tabella - che è l'indicazione più forte e dettagliata di tutto il dipinto, e quindi la chiave del problema interpretativo - rimanda ancora una volta alla grande congiunzione del 1503-04 e in particolare all'eclissi di Luna del 29 febbr. 1504, anno che si legge plausibilmente in alto a sinistra; al centro stanno una piccola sfera leggermente ombreggiata sul bordo destro e una grande falce di luna crescente, quasi totalmente scura, che compongono un sintetico diagramma dell'eclisse di Luna. Subito al di sopra, la scritta sbiadita e sbavata si può forse leggere "celus" o "celum", o forse, per l'appunto, "eclisi" (secondo il suggerimento di Rosella Lauber).
La tabella è completata in basso da un Sole raggiato al tramonto, dove si leggono (o, in parte, s'immaginano) le cifre da 1 a 7. In questo contesto esse si riferiscono al cosiddetto "oroscopo delle religioni", ossia alla teoria di un percorso ciclico attraverso sette età, collegate ai pianeti e alle grandi religioni, caratterizzato da un progressivo decadimento dell'universo e dell'umanità fino alla catastrofe conclusiva e alla rigenerazione in un ciclo rinnovato. All'interno di questa teoria l'attenzione tende progressivamente a concentrarsi sulle tre religioni monoteistiche ancora d'attualità - l'ebraica, la cristiana, l'islamica - trascurando i residui fantasmi caldei o egizi. Si potrà allora lavorare sull'ipotesi che i "tre filosofi" siano i rappresentanti, o addirittura i fondatori, delle tre grandi religioni: sfruttando anche quel settore complementare dell'astrologia che determina elementi di fisionomia e di carattere in base agli influssi dei pianeti; e, per altro verso, integrando le informazioni che vengono dal dipinto come è ora con quelle che vengono dalla sua radiografia, testimone di una versione originaria sensibilmente diversa da quella finale.
La religione ebraica dipende dalla congiunzione di Giove e Saturno. Il vecchio corrisponde perfettamente alla caratterizzazione saturnina dell'ebraismo come religione della profezia e della rivelazione: l'aveva già spiegato quella tabella di previsioni astrologiche che, oltretutto, apparenta il personaggio all'iconografia di Mosè con le tavole della legge. In radiografia la testa del vecchio appare inoltre adorna di un vistoso diadema sacerdotale che traduce in oggetto figurato i raggi dell'illuminazione celeste. Non ci può essere alcun dubbio: questo non è un ebreo qualsiasi ma è appunto Mosè, fondatore dell'antica legge, interprete della divina sapienza.
La religione islamica dipende dalla congiunzione di Giove e Venere. Il "filosofo" mediano per età e posizione - che in radiografia ha un colorito assai più scuro, poi soppiantato da una lieve abbronzatura e da improbabili pomelli - è caratterizzato quale musulmano non solo dall'inequivoco abbigliamento ma anche dalla mano ostentatamente posata sul ventre. In termini di anatomia astrologicamente orientata, il ventre corrisponde al segno della Bilancia, domicilio di Venere: il gesto sottolinea l'attitudine venerea tradizionalmente attribuita ai popoli arabi. D'altro canto il personaggio appare elegante e dignitoso, e sembra intrattenere un privilegiato rapporto d'attenzione e scambio col vecchio ebreo. Non ci può essere alcun dubbio: questo non è un arabo qualsiasi ma è Maometto, fondatore dell'Islam.
Ma il terzo "filosofo", giovane, sbarbato e riccioluto non può certo essere Cristo, o altro ipotetico fondatore-rifondatore della religione cristiana. L'apparente incongruenza può essere agevolmente risolta riesaminando con attenzione le fonti, il quadro, e soprattutto la sua prima versione testimoniata dalla radiografia, dove il giovane è molto diverso, caratterizzato dal profilo aguzzo, dallo sguardo maligno, dall'alto copricapo che sale a calotta scomparendo dietro il braccio dell'arabo. Dopo Maometto e l'Islam, "più giovane" di Maometto e dell'Islam, non può esserci Cristo e il cristianesimo, perché Cristo e il cristianesimo vengono, ovviamente, prima di Maometto e dell'Islam. Dopo la "legge di Maometto" c'è solo l'età della congiunzione Giove-Luna, l'età dell'Anticristo. Spiegano gli astrologi che egli verrà proprio nel 1503-04, al momento della grande congiunzione caratterizzata dall'esaltazione di Giove in Cancro, casa della Luna: falso profeta, falso sapiente, falso astrologo, non scienziato ma negromante, porterà un'epoca di menzogna e rivolgimenti e corruzione e morte, che fortunatamente sarà breve come brevi sono i moti circolari della Luna. Non ci può essere alcun dubbio: il giovane non rappresenta il cristianesimo ma semmai la sua estrema decadenza. È l'imminente e attualissima incarnazione dell'Anticristo, rappresentato secondo l'iconografia più consueta, che è appunto quella di un giovane a volte fornito di strane berrette e a volte coi lunghi capelli ricci in bella vista, dall'espressione a volte malevola o arrogante e a volte ipocritamente benevola o compiacente. La versione originaria in radiografia offre la prima variante, più caratteristica e inquietante; la versione conclusiva del dipinto offre la seconda variante, più generica e rassicurante (Gentili, 1999, pp. 23-31).
Secondo la testimonianza di Michiel, la tela "fu cominciata da Zorzo da Castelfranco et finita da Sebastiano Vinitiano". Dalla radiografia s'apprende inoltre che i Filosofi erano già opera finita prima della rifinitura di Sebastiano, ma con notevoli scarti iconografici tra prima e seconda versione: di conseguenza, la richiesta di modifica materiale sottintende l'esigenza di una modifica tematica. Sebastiano attenua i contrasti, diluisce le espressioni, confonde le individuazioni: fa un ebreo che è molto meno ebreo, fa un arabo che è un po' meno arabo, e non fa più un negromante pseudocristiano ma un umanista occidentale. Non è solo una modifica ma un vero e proprio mascheramento, evidentemente dettato dal proprietario del dipinto per cautela, per attutire l'impatto di un soggetto troppo rischioso: ci riuscì perfettamente, a giudicare dalle letture invariabilmente concilianti poi imbastite sui già neutri "tre phylosophi" di Michiel.
Sul problema dell'Anticristo si contrappongono, tra Quattro e Cinquecento (e naturalmente anche prima), due inconciliabili schieramenti: i cristiani ritengono che l'Anticristo verrà da stirpe ebraica, e anzi sarà il falso messia atteso dagli ebrei; gli ebrei, in attesa del vero messia, sostengono che l'Anticristo verrà dalle file cristiane, e anzi sarà l'estremo rappresentante del cristianesimo degradato. G. e il suo committente sono evidentemente sulla seconda posizione, giacché nei Filosofi l'ebreo c'è già, ed è un vecchio venerabile che reca nella tabella astrologica la chiave del sapere; c'è anche l'arabo, che malgrado il gesto "venereo" sembra proprio un sapiente astrologo dei tanti che la sua gente ha prodotto; ma non c'è il cristiano, e se c'è è il cristiano dei tempi ultimi, il falso profeta e falso messia, il mago nero apparentemente impegnato a scrutare e misurare la grotta deserta dove non c'è e non potrebbe esserci alcuna natività e alcun diverso messia, dove edera e fico - tradizionali simboli d'elezione - contrassegnano invece un vuoto oscuro, dove la roccia riproduce, stagliato contro il cielo, l'ingannevole profilo della sfinge.
Anche i Filosofi, come il fregio di Castelfranco, rinviano direttamente alle speculazioni di G.B. Abioso, che per la fatale congiuntura del 1503-04 e per gli anni successivi prevedevano il declino conclusivo del cristianesimo, l'ulteriore sviluppo dell'islamismo e, dopo il breve dominio lunare del pessimo mago, la restaurazione del ciclo nel segno di Saturno e dell'ebraismo. Siamo sul piano di una totale adesione, virata in termini astrologici, alle tendenze millenaristiche ricorrenti nel pensiero ebraico, dove la prospettiva della salvezza coincide sempre col riscatto dalla catastrofe e dall'annientamento. Eppure le aspettative messianiche ebraiche - incoraggiate da nuovi annunci e da nuove figure carismatiche, a cominciare dal vecchio patriarca Isaac Abarbanel (o Abrabanel), approdato a Venezia proprio nel 1503 e subito identificato dalla sua comunità come nuovo Mosè - non appaiono poi molto lontane dall'attesa del "papa angelico" promossa dalle correnti gioachimite cristiane. L'Abioso, G. e il suo committente sembrano rimandare a una cerchia rigoristica di cristiani colti e delusi, inclini a cercare nella religione e nella cultura ebraica l'alternativa al cristianesimo deteriorato.
Quale fosse la composizione di tale cerchia - se poi di questo davvero si tratta, e non della semplice somma di rapporti occasionali e di interessi isolati - è problema negli ultimi tempi dibattuto ma per ora irrisolto. Dalle annotazioni di Michiel si ricavano i nomi dei collezionisti che possedevano dipinti di G. tra il 1525 e il 1543: ma non sempre è chiaro se di quei dipinti, molti anni prima, fossero stati loro stessi i committenti. Almeno nel caso di Taddeo Contarini, il ricchissimo patrizio mercante che nel 1525 possedeva i Filosofi, c'è tuttavia un buon indizio documentario per collegare commissione e collezione. Nel 1524 - l'anno della grande congiunzione in Pesci e del terrore per l'imminente diluvio universale previsto dagli astrologi - Taddeo si fa prestare dalla Biblioteca Marciana (se non per sé, per lo studioso figlio Gerolamo) quattro codici: le Storie di Appiano, due manoscritti di Galeno, padre della medicina, e uno di Filone Ebreo, filosofo della progressiva decadenza dell'umanità e del suo riscatto sotto la guida di Mosè.
L'interesse suscitato in un cliente importante dai temi del fregio di Castelfranco aprì a G. la via di Venezia e la commissione dei Filosofi. Questa proposta geografico-cronologica fissa un netto spartiacque al 1503-04 fra Castelfranco e Venezia, a partire dal presupposto che un giovane pittore di provincia, una volta approdato al centro, si guarda bene dal ritornare in periferia; e rinvia agli anni veneziani le acquisizioni determinanti di mestiere e di linguaggio, a partire dal presupposto che tali acquisizioni si verificano normalmente al centro e non in periferia. Il ritagliato successo di G. presso i contemporanei dovette peraltro essere motivato non certo dai difficili dipinti allegorici, evidentemente destinati a una cerchia esclusiva, ma da prodotti socialmente più funzionali come i quadri di devozione privata e i quadri di mezze figure, ritratti e non. Queste due categorie, per la loro tipicità "commerciale" e quindi per il loro maggior adeguamento agli standard esecutivi correnti, sono anche quelle che permettono di verificare, almeno in termini generali, il percorso di G. dall'immancabile tirocinio belliniano all'innamoramento leonardesco.
In realtà non c'è traccia di una presenza di G. nella bottega di Giovanni Bellini. Il suo "bellinismo" ammodernato e passeggero si spiega assai meglio alla luce dell'importantissima iscrizione dietro la Laura che lo dice "collega" di Vincenzo Catena, pittore, in quegli anni, di calibro medio-basso e di stretta osservanza belliniana, peraltro ricco del suo e quindi a sua volta indipendente dal composito atelier del vecchio maestro. Nel 1506, ossia a un punto piuttosto avanzato del suo breve percorso, G. non aveva bottega propria e doveva ancora appoggiarsi a quella ben avviata di Catena con cui era entrato in rapporti commerciali (Robertson, 1954, pp. 12-14) fin dal suo arrivo a Venezia. Presso questa bottega erano arrivate commissioni come quella del Ritratto Giustiniani (Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, 1504), ritratto sperimentale e innovativo (che poco deve a Bellini o a Catena, e niente a umbri, emiliani e lombardi, niente a fiamminghi e tedeschi) di un giovane dallo sguardo franco, la mano affacciata al parapetto, la veste color ciclamino; e quelle di quadri medio-piccoli di privata devozione cristiana, del tutto congeniali alla produzione di Catena ma con ogni probabilità per nulla congeniali alla cultura di Giorgione. Ne fece qualcuno, senza troppo impegno, per necessità di denaro e di mestiere, e senza nemmeno darsi una riconoscibile identità di linguaggio, tanto che per queste opere, prive di documentazione, non c'è tuttora una sola attribuzione che non sia ampiamente discussa: sono l'Adorazione dei magi (Londra, National Gallery, 1503-04) e la Sacra famiglia già Benson (Washington, National Gallery of Art, 1503-04), indebitate più con le stampe tedesche che con la tradizione belliniana, e soprattutto l'Adorazione dei pastori già Allendale (dello stesso museo, 1504), attraversata dalla sottile tensione di un annuncio angelico quasi nascosto in un angolino tra gli alberi, ad alcuni offerto e ad altri negato, che premia con una centralità del tutto inusitata i due umili pellegrini alla grotta, dignitosissimi a dispetto delle vesti stracciate.
I più importanti dipinti degli anni immediatamente successivi sono contrassegnati sul piano linguistico dal totale abbandono della tradizione belliniana e sul piano tematico dal ritorno ai concetti fondamentali del fregio di Castelfranco. Il Doppio ritratto, oggi a Washington, National Gallery of Art (1505-06), molto restaurato, può essere ragionevolmente identificato con il dipinto visto da Vasari a Firenze in casa di Giovanni Borgherini, ossia "il ritratto d'esso Giovanni quando era giovane in Venezia, e nel medesimo quadro il maestro che lo guidava" (Vasari, IV, 1879, p. 94).
L'adolescente ben vestito, dallo sguardo intelligente ma distratto, stringe nella mano chiusa gli strumenti della pittura e della scrittura, della musica e della geometria. L'uomo che l'accompagna non è solo il suo maestro ma un astrologo dall'espressione grave, che gli ostenta la sfera armillare indicandogli platealmente il cartiglio ammonitore: "non vale l'ingegno se non varranno i fatti". Che le promesse diventino realtà dipenderà evidentemente dalle disposizioni celesti e dall'impegno del giovane ad affrontarle con la ragione, a integrare le arti e le scienze, segnalate dagli strumenti in suo possesso con lo strumento che qualifica l'astrologia, arte e scienza della previsione.
Anche il giovinetto delle Tre età (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 1506-07) sta ricevendo un insegnamento e un monito, che in questo caso sembrano riguardare esclusivamente la musica: il ragazzo ha infatti in mano un foglio leggermente piegato a mostrarci due righe di pentagramma, e lo sta osservando con la massima attenzione, a ciò sollecitato dall'indicazione perentoria del bel signore al suo fianco. Non si tratta, beninteso, di una lezione di canto, o di un trio vocale: la differenza d'età fra i tre protagonisti spiega assai chiaramente che la musica in questione non è momento d'esecuzione tecnico-artistica ma metafora dell'armonia dell'esistenza umana, a sua volta dipendente dall'armonia dell'universo. Il tema delle età introduce quello della vanitas, di un'armonia mondana condizionata inevitabilmente dall'incerta e variabile durata. Per questo è così importante passare il testimone per tempo a colui che ha ancora davanti a sé tutto il tempo; a contrasto con il vecchio dallo sguardo malinconico - straordinario exploit di ricerca psico-fisiognomica - che si volge fuori del quadro a coinvolgere irresistibilmente lo spettatore nella consapevolezza della fine, dell'uscita imminente dall'effimero concerto della vita.
La Vecchia (Venezia, Gallerie dell'Accademia, 1506-07) è impietosamente piazzata sotto una luce violenta che tradisce le rughe scavate, i denti sconnessi, i capelli sfibrati, lo sguardo appassito. Il celebre cartiglio "col tempo" - che è disposto dietro la mano e non dentro come dovrebbe, e sarà un'aggiunta a fine opera, il risultato di un ulteriore ripensamento didascalico - appare del tutto superfluo, perché il pittore ha realizzato integralmente per immagine, senza alcuna reticenza, la cruda consapevolezza del consumo del corpo e del degrado della mente: non un ritratto socialmente impossibile ma l'allegoria di una sconsolata senilità.
Mentre testimonia con la preziosa iscrizione nel verso il suo rapporto col Catena, il ritratto allegorico di Laura sancisce quasi paradossalmente sul piano figurativo il distacco di Giorgione da qualsiasi tipo e livello di bellinismo e la sua adesione alla maniera di Leonardo. Sarà opportuno ribadire che l'indubitabile "leonardismo" di Giorgione è peraltro parziale, tardivo, di seconda mano, mediato dai pittori lombardi sicuramente attestati in Venezia a cavallo dei due secoli, prima Andrea Solario e poi Giovanni Agostino da Lodi; e, soprattutto, che è tutto di superficie, mirato a stemperare la fisiognomica in malinconiche penombre o ad accentuarla con illuminazioni repentine, a sfumare gli incarnati per rilevare progressivamente i volti dal fondo scuro. Lo troviamo nella Laura, nelle Tre età e nella Vecchia, nello splendido quanto ambiguo Garzone con la freccia (Vienna, Kunsthistorisches Museum, 1507-08): splendido per l'espressione assorta e per l'abbondante capigliatura lentissimamente sottratta all'oscurità; ambiguo perché, teatralmente abbigliato all'antica, non sa dirci cosa vuol fare di quel dardo ingombrante, non sa essere convincentemente né Eros, né Apollo, né il martire Sebastiano.
La Laura (Vienna, Kunsthistorisches Museum, 1506) è il ritratto di una sposa promessa o di una sposa novella (Dal Pozzolo, 1993; Gentili, 1995, pp. 95-103): col lauro, diffusissimo simbolo di castità, che s'accompagna al velo nuziale e al seno - porta dell'animo e del cuore, segnale di fecondità, offerta amorosa e seduttivo richiamo - non semplicemente nudo ma proprio in questo momento denudato con gesto discreto; e che un seno sia scoperto e l'altro coperto non significa antitesi tra voluttà e virtù ma compresenza di erotismo enunciato, offerto, vissuto ed erotismo moderato, sorvegliato, regolato. Questa compresenza si realizza nella sola dimensione socialmente e figurativamente possibile, il matrimonio; e per il solo pubblico socialmente e figurativamente possibile, lo sposo, committente e spettatore del ritratto della sposa.
L'iscrizione dietro la Laura testimonia che al 1506 Giorgione era ben lontano dal successo e dalla notorietà. Non dovette aiutarlo gran che un'altra opera famosa, e di analoga funzione, vista da Michiel (p. 169) nel 1525 in casa di Gerolamo Marcello: "La tela della Venere nuda, che dorme in uno paese cun Cupidine forono finiti da Titiano". Si tratta della Venere di Dresda, plausibilmente commissionata per le nozze di Gerolamo Marcello con Morosina Pisani, celebrate il 9 ott. 1507 (Anderson, 1980). Ma Giorgione scelse dall'antico una dea dormiente e pudica, tutt'altro che incoraggiante, tutt'altro che pronuba. Anche in questo caso la ragione di quella vera e propria modifica che Michiel chiama finitura è evidentemente di ordine tematico e funzionale: quando Giorgione uscì di scena, Tiziano fu chiamato dal Marcello ad aggiungere un tantino di erotismo alla castissima nuda. Tentò i più appropriati trucchi iconografici: sistemò ai piedi di Venere il Cupido con l'uccellino che si dibatte (scomparso, riapparso, di nuovo celato perché rovinatissimo), inventò il paese civettuolo, il lenzuolo bianco stropicciato e il comodo cuscino vermiglio. Insomma, rifece quasi tutto il dipinto; ma non riuscì minimamente a scuotere quell'idolo silenzioso.
Non c'è aggettivo squillante che non sia stato usato per magnificare la Tempesta (Venezia, Gallerie dell'Accademia, 1507-08), e soprattutto il suo paesaggio. Non c'è ambito o livello di cultura, di fonti, di significato che non sia stato perlustrato alla ricerca del soggetto: racconto biblico, mito classico, leggenda cristiana, episodio letterario, vicenda storica, congiuntura politico-militare, concetto filosofico, allegoria ermetico-alchemica, personificazione emblematica. C'è chi il soggetto nemmeno lo cerca, perché - dice - non c'è soggetto, è solo un paesaggio con figure, una fantasia poetica. E c'è chi sostiene che il soggetto è semplicemente la tempesta con la zingara e il soldato, ossia quello indicato da Michiel (p. 218) nel 1530 quando vede il quadro in casa di Gabriele Vendramin, committente e/o collezionista, anche lui ricchissimo patrizio-mercante, nonché cognato e vicino di casa di Taddeo Contarini.
La Tempesta è un chiarissimo esempio dello scarto esecutivo tra figure e paesaggio che si verifica in diverse opere di Giorgione. La donna (che non è certo una zingara) è collocata sulla sponda erbosa in una posizione goffa e scomoda che rischia di farla scivolare in basso da un momento all'altro, non soccorsa dai grandi piedi attaccati alle gambe senza traccia di snodi di caviglie; il faticoso incrocio del braccio sinistro sul ginocchio destro lascia scoperto un seno senza farci capire dove sia quello coperto; belli, però, il viso, lo sguardo, i capelli. Il bambino sembra soffrire la terribile umidità. L'uomo (che non è certo un soldato) ha un lungo bastone nella mano destra, non si sa come e dove metta la sinistra, e veste braghe teatrali e fantasiose; il viso è indefinito, privo di qualsiasi espressione, apparentemente molto guasto e rifatto. Ma ecco la stupefacente apparizione della città fluviale nel controluce improvviso del lampo, il clima elettrico e bagnato, le tinte unite e sfumate come le ricordava Vasari.
La Tempesta non è il capolavoro di G. né il caposaldo della pittura veneziana del Cinquecento: un capolavoro definisce con chiarezza il suo soggetto e lo serve funzionalmente con proprietà e coerenza d'iconografia e di linguaggio, senza costringere lo spettatore a giochi d'indovinelli; un caposaldo genera una rete di relazioni e sviluppi, di esperimenti e superamenti, e non due o tre semianonime imitazioni. È particolarmente difficile anche la datazione, perché la discontinuità esecutiva fa saltare i parametri del giudizio "stilistico" (che dunque si rivelano approssimativi, congetturali, illusori). Non c'è narrazione o informazione, non ci sono indicazioni gestuali o suggerimenti espressivi, e nemmeno elementi simbolici repertorialmente riconoscibili: la Tempesta è il più reticente fra tutti i reticenti quadri di Giorgione.
Questo può significare che il soggetto è ancora più esclusivo del solito e che ancora ci manca la chiave, il codice, il contesto, la cultura; oppure che nell'originario processo da invenzione a esecuzione del dipinto, e magari nella sua storia materiale successiva, c'è qualcosa che non va; oppure che, dopo cent'anni e più d'indagini e proposte, gli elementi della ricostruzione possibile si sono irrimediabilmente mescolati e confusi; o forse un po' di tutte queste cose. In attesa di nuovi studi che sappiano tenere in conto anche i vecchi, potrebbe intanto esser utile rimeditare - nel quadro culturale che qui abbiamo ricomposto - lo spunto d'apertura della prima interpretazione di Calvesi (1962), in seguito da lui stesso abbandonata: la Tempesta come storia di Mosè bambino, sottratto dalla figlia del faraone alle acque del Nilo e restituito alla nutrizione della madre ebrea.
Le imprese private nel giro delle grandi famiglie dovettero infine introdurre G. nella sfera pubblica e procurargli due importantissime occasioni: la commissione di un telero per la sala dell'udienza del Consiglio dei dieci in Palazzo Ducale; e quella per la decorazione a fresco della facciata sul Canal Grande del fondaco dei Tedeschi, ricostruito in brevissimo tempo dopo il disastroso incendio del gennaio 1505.
Il telero in palazzo, documentato da anticipi di pagamento tra l'agosto 1507 e il gennaio 1508, non ha poi lasciato altre tracce o memorie, nemmeno del soggetto. Gli affreschi del fondaco vennero compiuti nella buona stagione del 1508, e in novembre G. richiese alla magistratura competente il saldo delle sue spettanze, che nel mese successivo gli venne riconosciuto con una consistente riduzione rispetto alla cifra stimata dall'apposita commissione di autorevoli pittori. Gli affreschi si deteriorarono piuttosto rapidamente, e le poche parti staccate difficilmente si leggerebbero senza l'ausilio delle incisioni settecentesche di Anton Maria Zanetti.
Il programma della decorazione giorgionesca non è purtroppo ricostruibile. Vasari (IV, p. 96) rilevava con fastidio di non capirci nulla ("non si ritrova storie che abbino ordine"), il che non fa che confermare quanto si può dedurre - oltre che dalla sua stessa incertezza e impazienza - dal rovinatissimo affresco staccato di una Nuda (Venezia, Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro) e dalle descrizioni sei-settecentesche, e cioè che si trattava con ogni probabilità di un programma di contenuto astrologico: la Nuda mostra ancora nella mano sinistra la traccia di un oggetto rotondo, che potrebbe essere (o meglio essere stato) la sfera della terra o del cielo, o magari uno strumento di studio, una sfera armillare o un astrolabio; in qualche altra parte della facciata, Ridolfi (I, p. 100) vedeva "geometri che misurano la palla del mondo" e Zanetti (p. 94) "filosofi che misurano un globo". Se era ritornato su questi temi con lo stesso rigore divinatorio, con la stessa fede nei pronostici esibita qualche anno prima, G. non doveva aver tracciato magnifiche e progressive sorti per Venezia in quel momento fatale di isolamento politico alla vigilia della Lega di Cambrai. Si capirebbe allora perché i magistrati decisero un compenso ritardato e decurtato, e perché sospesero l'incarico a G. per affidare subito dopo la decorazione della facciata di terra a Tiziano, prontissimo ad accettare il ruolo di pittore di propaganda e a rappresentare la figura allegorica di una Venezia giusta e forte, casta e savia come Giuditta, inviolata e inviolabile come la Vergine Maria.
G. aveva perduto la grande occasione, e probabilmente non ne ebbe altre, o non fece in tempo a procurarsele. Gli ultimi due anni sono, o sembrano, clamorosamente vuoti, nonostante molti si siano provati a riempirli con spostamenti o annessioni discutibili. Forse cadono in questo momento i perduti "inferni", che potrebbero essere identificati con le "notti" ricordate dal carteggio tra Isabella d'Este e Taddeo Albano dell'autunno 1510 e dall'incubo al femminile - il cosiddetto Sogno di Raffaello - lasciato in incisione da Marcantonio Raimondi (Nova, 1998). Forse, tra le mezze figure, il bell'Uomo in armi del malridotto dipinto di Vienna: Michiel (pp. 168, 185) ne conosceva due, in casa di Gerolamo Marcello e in casa di Giovan Antonio Venier, ma non è detto che il quadro viennese debba essere identificato con uno di questi. Forse il serio giovanotto dall'improbabile capigliatura del Museo di San Diego (Ritratto Terris) e l'intenso ma impoverito Garzone con flauto delle reali collezioni inglesi a Hampton Court. Mentre continua a oscillare tra G. e Tiziano il Cristo portacroce di S. Rocco, restano sospesi tra assensi e dissensi (e tra variabilissimi scarti di cronologia) i ritratti di personaggi più spavaldi o affettati o sentimentali, insomma più disposti a scoprirsi, a relazionarsi o a misurarsi con gli altri: ricordiamo almeno il Ritratto di giovane di Budapest, probabilmente riferibile a un'occasione matrimoniale, dato che il protagonista è colto in un appassionato gesto di fedeltà; il Ritratto Goldman di Washington, conteso fra G., Tiziano e altri quattro o cinque pittori, e in realtà quasi ingiudicabile per le ridipinture che, oltretutto, nascondono le motivazioni dell'atteggiamento iroso e respingente del personaggio; il Doppio ritratto del Museo del Palazzo di Venezia a Roma, col languoroso giovane caratterizzato dalla posa melanconica e dal melangolo dell'amore amaro, e per di più compatito dal sorriso scettico del suo compagno; e quello di Guerriero e scudiero degli Uffizi, dove il protagonista non è certo il Gattamelata come vuole la tradizione ma è con ogni probabilità un condottiero altrettanto celebre e di tutt'altra attualità, Bartolomeo d'Alviano. Resta da dire che questi ritratti sono diversissimi tra loro, e che dunque ogni singola attribuzione va inevitabilmente a discapito delle altre.
In questo momento di evidente insuccesso e di plausibile disillusione (tanto più che la tentata ascesa era costata qualche compromesso), G. sembra tuttavia ritrovare a sprazzi l'orgoglio della sua cultura. Già nel febbraio 1508 s'era impegnato con tal Alvise di Sesti per l'esecuzione di quattro tele con storie di Daniele: il giovane sapiente ebreo tra i Caldei, interprete di visioni e sogni, astrologo, indovino, profeta. Infine - stando all'inventario (1528) della collezione del cardinale Domenico Grimani, coltissimo "ebraista" - si ritrae nella malinconica fierezza di David guerriero all'esordio, stordito dal confronto con Golia anche ora che questi è ridotto a cimelio. L'Autoritratto come David di Brunswick (Herzog Anton Ulrich-Museum) è solo un frammento; ma la traduzione incisoria di Wenzel Hollar (1650) restituisce il significato completo dell'immagine mostrandoci la mano destra dell'eroe che affonda nelle morte chiome del gigante filisteo, lasciando però in evidenza l'indice con l'unghia che rivela il leone della stirpe di Giuda e la sua gloria imperitura. Per essere contemporaneamente un autoritratto, questo David stralunato segnala nel vissuto del pittore l'aperto autoriconoscimento finale, l'esplicita dichiarazione dell'identità giudaica. Poi venne la peste, il contagio, la morte precoce. A Venezia in un giorno imprecisato dell'ottobre 1510.
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