Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Padre della metafisica, Giorgio de Chirico apre una strada del tutto nuova alla pittura, quella del “citazionismo”, termine associato solitamente alle sperimentazioni artistiche postmoderne dei primi anni Ottanta del Novecento, e che utilizziamo qui per indicare quel vasto attingere del pittore alla tradizione quattro-cinquecentesca o barocca, quel suo citare linguaggi o temi abbandonati da tempo, secondo una analogia con procedure oniriche, consapevolmente messe in atto dal pittore.
Nei primi anni del Novecento Monaco è una tra le più vivaci capitali culturali, ed è qui che nel 1906 la famiglia de Chirico si trasferisce in seguito alla morte del padre. Iscrittosi all’Accademia di Belle Arti della città, Giorgio de Chirico è inizialmente influenzato dai maestri romantici e simbolisti, Friedrich, Max Klinger (1857-1920) e Böcklin. Ciò che egli apprezza non è tanto la composizione o il colore, quanto l’atmosfera simbolico-allegorica che emana dalle loro opere. Sono questi gli anni in cui il pittore esegue tele “dal sapore böckliniano”, quali Lotta di centauri (1909) in cui è evidente l’influsso del maestro tedesco nell’interesse per temi mitologici.
Nel 1909 l’artista visita Roma e Firenze alla scoperta di quei monumenti che tanto influenzeranno la sua produzione, dall’antichità classica al Quattrocento. Da quelle architetture pare sprigionarsi una nuova forza estetica; è infatti in questo periodo che si prefigura il distacco dal modello di Böcklin. Dopo Firenze è la volta di Parigi (città in cui il fratello Andrea si è già stabilito), con una breve sosta a Torino che si rivelerà essenziale. Qui de Chirico elabora alcuni temi iconografici in seguito ricorrenti: la Mole Antonelliana, il monumento equestre a Carlo Alberto, le lunghe teorie di portici, e altri particolari architettonici che colpiscono la sua immaginazione.
A Parigi l’artista sviluppa compiutamente il suo linguaggio. Risalgono a quel periodo La nostalgia dell’infinito (1913) e Mistero e malinconia di una strada (1914), opere enigmatiche e silenti, secondo quella che diverrà la cifra stilistica delle pitture dechirichiane metafisiche. Lo spazio che inquadra le scene appare sbilenco e fuori asse mentre la luce, fredda e mentale, inonda gli oggetti inseriti in un’ambientazione assurda. La pittura produce in tal modo effetti di spiazzamento. Non per nulla Mistero e malinconia di una strada apparteneva ad André Breton, capofila dei surrealismo, che scorgono in de Chirico il maestro assoluto, in grado di evocare il mistero nella pittura. Tra le vedute di “piazze italiane”, che de Chirico esegue in questi anni, c’è L’enigma di un giorno (1914), in cui l’artista riesce a tradurre in immagini un “sentimento”, la stimmung nietzschiana. Si trattava, com’egli stesso ebbe ad affermare, di quella “malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio nelle città italiane”.
Quella che de Chirico rappresenta non è una veduta reale, ma un’impalcatura scenografica di legno o cartone, effimera e solida insieme. Su quel palcoscenico, dalla prospettiva distorta, si dispongono gli oggetti più disparati e banali, accostati secondo il processo di condensazione tipico dell’esperienza onirica. Un carrozzone, una statua, due ciminiere e una bandierina: abbinamenti incongruenti e illogici, che dunque accrescono l’effetto straniante.
In uno scritto intitolato Sull’arte metafisica (1919) de Chirico affermerà infatti che ogni oggetto è dotato di due aspetti: l’uno corrisponde alla facies corrente e sempre visibile, l’altro è il lato spettrale o metafisico della cosa, il quale può essere scorto soltanto da rari individui in momenti di particolare chiaroveggenza. È questo, in fondo, un richiamo all’idea simbolista del genio, dell’artista o poeta voyant, che si distingue dai comuni mortali per questo suo potere rabdomantico e che, proprio per questa ragione, ha pieno diritto a essere collocato al di sopra dell’uomo comune, con lo scopo di indirizzarlo verso la verità. Una fonte figurativa cui attinge probabilmente de Chirico, nella sua ricerca di atmosfere inquietanti, è stata l’opera di Henri Rousseau, che per primo aveva trasposto il mondo del sogno sulla tela e lo aveva restituito più reale del reale. Anche nell’opera di Rousseau gli oggetti appaiono sproporzionati, i colori compatti e assoluti e la luce sospesa in un tempo non misurabile; in de Chirico però la dimensione onirica è molto più intellettuale, meno “ingenua” di quella di Rousseau. È più giusto allora per de Chirico fare riferimento a Sigmund Freud, che ne L’interpretazione dei sogni aveva aperto un mondo sino ad allora insondato, quello dell’inconscio.
Dopo aver partecipato con tre tele al Salon d’Automne del 1912, ricevendo i favori della critica, il pittore si lega in amicizia al poeta Guillaume Apollinaire, che gli consiglia di esporre al Salon des Indépendants dell’anno seguente. Incontra il mercante d’arte Paul Guillaume, con il quale avvierà un lungo sodalizio. La fama di de Chirico, dunque, valica i confini francesi per toccare l’Italia, dove sulle pagine di riviste importanti alcuni critici e artisti segnalano il suo lavoro.
C’è ormai un’aria di guerra, e allo scoppio della prima guerra mondiale i fratelli de Chirico si presentano al Consolato italiano. Destinazione: Ferrara. Si giunge così alla fatidica data che sancisce la nascita della scuola metafisica, in seguito all’incontro tra de Chirico e Carrà presso la struttura ospedaliera di Ferrara in cui entrambi erano ricoverati.
Gli anni ferraresi sono quelli in cui il pittore produce icone memorabili (Ettore e Andromaca, Il grande metafisico e Le Muse inquietanti) e interni misteriosi come Interno metafisico con sanatorio (1917) in cui, accanto agli oggetti di sempre, si vedono anche i tipici pani ferraresi, elemento ricorrente nelle tele di questo periodo. Gli accostamenti sono del tutto arbitrari e privi di logica, se non quella che sta alla base dei procedimenti del sogno. Si coglie inoltre la particolarità del “quadro nel quadro”, vale a dire la cosiddetta mise en abîme, un altro gioco intellettuale che de Chirico non esita a utilizzare per spiazzare ancor più l’osservatore.
Nel 1919 il pittore si trasferisce a Roma dove entra in contatto con Mario Broglio, che aveva fondato, l’anno precedente, la rivista “Valori plastici”, titolo già di per sé indicativo del programma teorico del periodico: sostenere un’arte volta al recupero della tradizione. Sulle pagine della rivista, de Chirico espone in alcuni saggi la propria poetica; in Il ritorno del mestiere (1919) chiarisce la svolta verso un nuovo classicismo: “La politica insegna. Gli isterismi e le cialtronerie sono condannate nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia politiche, letterarie o pittoriche. Col tramonto degli isterici, più di un pittore tornerà al mestiere, e quelli che ci sono già arrivati potranno lavorare con le mani più libere e le loro opere potranno essere meglio apprezzate e ricompensate. Per mio conto sono tranquillo, e mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d’ogni mia opera: Pictor classicus sum”. Appartiene a questo periodo il dipinto I pesci sacri (1919), che rappresenta una sorta di passaggio verso una nuova fase. Sebbene de Chirico non abbia del tutto abbandonato quella pittura ad “alta definizione” che aveva contraddistinto il suo periodo metafisico e che ritroviamo nella rappresentazione degli oggetti sullo sfondo, i pesci in primo piano annunciano una pennellata che si è fatta più densa e materica.
Nel 1925 il pittore è di nuovo a Parigi. Nelle sue tele inserisce elementi archeologici, gladiatori, cavalli, rovine, ruderi classici, rigorosamente trattati all’insegna di uno stile ben lontano dal lucido stupore quattrocentesco. Nella tela con il Combattimento di gladiatori (1928), chiuso tra le pareti di una stanza, un groviglio di personaggi domina la scena. La chiarezza compositiva, la linearità e la paratassi cedono il posto all’ipotassi, alla costruzione complessa e articolata, mentre la pennellata perde la sua compattezza per dividersi in sottili striature. Si potrebbe affermare che de Chirico, stanco di visitare le stanze del museo dedicate al Quattrocento, s’indirizzi ora verso un Cinquecento più sofisticato e dinamico.
Mentre le sue opere metafisiche ottengono crescente attenzione (conquistando l’Europa grazie anche a rassegne importanti tra cui la famosa Das Junge Italien del 1921), l’artista abbandona sempre più il rigore e la misura delle tele precedenti, cedendo alle seduzioni dei valori atmosferici e fenomenici. Famosa, ed inevitabile, l’abiura di André Breton e dei surrealisti, che nel 1926 celebrano in suo “onore” addirittura un funerale fittizio, poiché non riconoscono più in lui lo sperimentatore e il maestro di un tempo.
Rientrato in Italia nel 1929, de Chirico si trasferisce a Firenze. Fanno la loro comparsa le tele dei Bagni misteriosi, in cui assorti personaggi si bagnano in piscine di parquet, in un’atmosfera bizzarra e inquietante, ma anche ironica e giocosa.
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti e numerosi altri viaggi che lo vedono spostarsi tra Parigi (dove si dedica allo studio della pittura del Seicento) e diverse città italiane, nel 1944 de Chirico si stabilisce definitivamente a Roma, inaugurando una nuova fase caratterizzata da una pittura fortemente neo-barocca. Le tele di questo periodo (nature morte, autoritratti in costume, scene mitologiche) mostrano una pennellata sinuosa e materica e, quanto allo spazio compositivo, un horror vacui quasi ossessivo.