LIECHTENSTEIN, Giorgio di
Nacque intorno alla metà del XIV secolo da una famiglia di origine ministeriale, poi denominata dal castello di Liechtenstein, presso Vienna, che, a partire dal 1249, si era affermata nell'area di confine fra Austria, Moravia e Boemia, svolgendo un ruolo di prima grandezza nelle vicende dell'Impero, fino alla creazione, nel 1719, del principato di Liechtenstein.
La posizione di baroni di frontiera consentì alla casata un particolare spazio di libertà e di iniziativa; nei primi anni di vita del L. essa stabilì più stretti legami con gli Asburgo tramite Giovanni (I), zio del L., che dal 1368 al 1394 fu magister curie del duca Alberto III d'Asburgo. Nel 1386 Giovanni divenne consigliere di Venceslao IV re dei Romani e di Boemia; si impegnò con successo ad ampliare i possessi di famiglia ed ebbe un ruolo decisivo per l'ascesa della casata. Morì nel 1397.
Immatricolatosi all'Università di Vienna nel 1377 presso la facoltà di diritto, il L., fra il 1381 e il 1383, fu scelto da Alberto III d'Asburgo come preposito della collegiata di S. Stefano in Vienna e cancelliere dello Studio; venne così coinvolto nella riorganizzazione della giovane Università e proiettato nella prima fase del grande scisma d'Occidente. Almeno dal 1389 il L. fu detentore di un canonicato a Passavia e nei primi mesi del 1390 fu attivo nella Curia di papa Bonifacio IX, a Roma. Nominato probabilmente in quell'occasione protonotario apostolico, il L. era ancora alla Curia pontificia come inviato ducale quando morì il vescovo di Trento, Alberto di Ortenburg. Il duca, che dopo la morte del fratello Leopoldo III (1386) esercitava la tutela dei nipoti e quindi la reggenza anche per la Contea del Tirolo, cui era connessa l'avvocazia dell'episcopato trentino, si mosse subito presso Bonifacio IX, chiedendogli di nominare il L., persona a lui grata.
Nella lettera egli sottolineava le proprie funzioni di avvocato dell'episcopio e rivendicava la dipendenza giurisdizionale di quest'ultimo dalla Contea tirolese. Negli stessi termini Alberto III si era espresso in una contemporanea lettera a un cardinale: era chiara la volontà di ribadire quella soggezione politica dei vescovi di Trento che la casa d'Austria si era assicurata con Alberto di Ortenburg.
Nel frattempo il capitolo di Trento aveva affidato l'elezione per compromissum al vicario generale del vescovo defunto, il decretorum doctor Bartolomeo da Bologna, abate di S. Lorenzo, il quale, il 29 settembre, designò il L., che poco dopo fu anche provvisto della medesima sede da Bonifacio IX; sulla persona del L. convergevano così l'elezione del capitolo della cattedrale e la provvista papale, una concorrenza che in ogni caso non portò a conflitti di competenza.
Il 18 ott. 1390 il L. accettò l'elezione e alla fine del marzo 1391 fece il suo ingresso nella diocesi, non senza essersi fatto precedere dalla notifica della nomina papale. A Trento si impegnò in un'intensa attività di governo che si espresse in una ricca produzione cancelleresca.
La rivendicazione dei diritti dell'episcopato nei confronti della feudalità locale si accompagnò al rinvio delle "compattate" stipulate nel 1363 da Ortenburg: tali convenzioni, che definivano le relazioni con i conti del Tirolo in termini di forte dipendenza, furono più volte rimandate e rinnovate dal L. nove anni dopo la sua elezione (24 dic. 1399), con un ritardo interpretato da diversi studiosi come segno di riluttanza ad accettare una soggezione così gravosa. I rapporti con il capitolo della cattedrale furono segnati da una collaborazione più stretta rispetto all'epoca di Ortenburg, anche se il L. si avvalse di diversi coadiutori provenienti dalla Boemia e dalla Moravia, inserendone alcuni nel capitolo medesimo. Dalla Boemia provenne presumibilmente il maestro del Ciclo dei mesi, capolavoro del gotico internazionale, realizzato nella torre Aquila del castello del Buonconsiglio nei primi anni dell'episcopato. Gli affreschi, insieme con i paramenti e altri oggetti sacri conservati, le suppellettili e i libri ricordati nell'inventario dei suoi beni, testimoniano gli ampi orizzonti culturali e "l'internazionalità consapevole del mecenatismo" del L., la cui collezione artistica "non ha nulla da invidiare a quella dei maggiori sovrani europei" (Wetter, pp. 332, 337).
Il L. non fu estraneo alle vicende della sua famiglia: nel 1386 condivise e sigillò il patto che doveva rafforzare l'unità della casata, prevedendo per i singoli membri solo un diritto di sfruttamento del patrimonio comune; negli anni successivi (1396, 1398) fu arbitro in questioni ereditarie. Nel 1394, quando lo zio Giovanni cadde in disgrazia presso Alberto III d'Asburgo insieme con altri parenti e perse definitivamente l'ufficio di magister curie, l'atto di sottomissione fu confermato anche dal L., già vescovo di Trento, secondo quanto richiesto dai duchi d'Austria (probabilmente il duca temeva la pericolosa crescita politica della famiglia, che si muoveva con grande spregiudicatezza, in particolare tra Sigismondo di Lussemburgo e il fratello, il citato Venceslao).
La sottomissione rapida e senza condizioni, pur comportando notevoli sacrifici patrimoniali, consentì alla famiglia di rientrare nell'orbita asburgica e l'anno successivo, a Vienna, il L. poté presenziare all'importante accordo fra i duchi Guglielmo e Leopoldo IV circa l'amministrazione dei loro beni.
Anche dopo il rientro a Trento fu impegnato nella politica europea: agli inizi del 1401 il fratello Giovanni era a Norimberga al seguito di Ruprecht von der Pfalz (re dei Romani dall'anno precedente); pochi mesi dopo il L. accolse a Trento Ruprecht, durante il suo Romzug. Egli si mosse abilmente nel gioco diplomatico fra la corte del re dei Romani e le forze politiche italiane, in particolare in funzione antiviscontea: un ravvicinato scambio epistolare del 1402 testimonia gli stretti contatti con Francesco Novello da Carrara riguardo ai movimenti e ai propositi di Ruprecht, con lo scambio d'informazioni e di opinioni. All'azione del L. faceva riscontro il rinnovato dinamismo della famiglia: dopo che Venceslao era stato catturato da Sigismondo e consegnato ai duchi d'Austria, furono proprio i fratelli del L. a favorirne la fuga; nonostante la lega stipulata con Venceslao il 19 nov. 1403 a Brno, questi riuscirono comunque a ristabilire buoni rapporti con il duca d'Austria Guglielmo, ottenendo di rientrare nelle sue grazie.
Nel frattempo, indebolitasi la posizione di Milano a seguito della morte di Gian Galeazzo Visconti (3 sett. 1402), il L. intervenne a riscattare l'importante avamposto gardesano di Riva e a recuperare altre terre già appartenenti al dominio vescovile nella stessa area meridionale. Allo sforzo finanziario connesso con tali operazioni è stata in parte legata la "rivoluzione" scoppiata a Trento nel febbraio 1407, diffusa poi nelle valli di Non e di Sole. Inizialmente la violenta contestazione riguardò solo gli officiali episcopali, ma finì per coinvolgere lo stesso L., che dovette abbandonare la città. Gli si rimproveravano una politica fiscale vessatoria, la preferenza per collaboratori esterni al Principato e l'inosservanza delle prerogative cittadine (motivo per cui la rivolta sarebbe da collegare, secondo Girgensohn, al movimento che nel Tirolo, attraverso la nascita di "leghe" locali, reclamava una più forte autonomia nei confronti dell'autorità superiore). Il L. dovette piegarsi: il 28 febbraio concesse una carta edictorum et provisionum che trasformava in modo sostanziale il governo urbano, fra l'altro ripristinando il Consilium sapientum e introducendo un borgomastro referendario con mansioni anche militari, diretta emanazione della Comunità urbana. Ulteriori concessioni in materia giudiziaria contribuirono a scalzare di fatto il suo governo nella città e nel territorio, ma le tensioni non si allentarono, provocando l'intervento di Federico IV d'Asburgo conte del Tirolo, ormai maggiorenne e titolare dei poteri comitali.
Nel mese di marzo, a Bolzano, questi si propose come mediatore fra le parti in causa e dopo un nuovo tumulto nel mese successivo, sfociato addirittura nell'imprigionamento del L., su sollecitazione dei rivoltosi, il conte fece il suo ingresso in città (16 aprile). Il L. fu rilasciato e tuttavia obbligato ad affidare a Federico IV l'amministrazione del Principato in cambio di una pensione annua di 1000 ducati (24 aprile): si sospettava che avesse cospirato per la cessione del Principato alla Repubblica di Venezia o per favorire la conquista di esso da parte della stessa, la quale peraltro non sembra avesse preso in considerazione tale eventualità. Il L. non si rassegnò all'esautorazione, dichiarando ben presto nulla la concessione delle temporalità e pronunciando il bando contro Federico IV. Questi si risolse a sequestrare il L., facendolo tradurre a Brunico e ottenendo, insieme con il fratello Ernesto, la consegna dei castelli di Pergine, Riva, Ledro e Tenno. Il L. fu costretto a partire per Vienna, ove rimase fino al 1409 in condizioni di semiprigionia, senza però darsi per vinto: se il Consiglio cittadino di Trento si era premurato di chiedere un parere giuridico (consilium) a Francesco Zabarella per garantirsi contro l'interdetto in cui la città sarebbe potuta incorrere per i fatti di aprile, il L. si avvalse appunto dell'interdetto generale (a suo dire osservato in tutte le chiese viennesi) e coinvolse l'Università perché intercedesse presso i duchi Leopoldo IV ed Ernesto "pro eius totali liberacione" (8 ott. 1407).
Un anno dopo, l'interdetto persisteva, pur se solo parzialmente osservato, tanto che il duca Ernesto poteva chiedere all'Università un parere al riguardo. Lo Studio viennese ritenne di non potersi esprimere sulla legittimità dell'interdetto, ma da parte sua continuò a intercedere con insistenza presso i duchi e presso lo stesso Federico IV, benché con scarsi risultati. A due anni dall'esilio furono i potenti parenti del L. (il fratello Enrico era divenuto magister curie del duca Leopoldo IV e il fratello Giovanni consigliere di Jobst di Moravia), insieme "con gli altri signori della Boemia", a sollecitare nuovamente l'Università. Il rettore rispose con un invito alla pazienza, in vista di una soluzione che effettivamente era matura: pochi giorni dopo, difatti, grazie alla mediazione dell'arcivescovo di Salisburgo, si giunse a una pacificazione che permise al L. il reintegro nei suoi diritti e nei suoi beni; Federico IV ottenne lo scioglimento dal bando e alcuni castelli episcopali.
Alla fine del dicembre 1409, dopo più di due anni di assenza dalla sua diocesi (e senza aver partecipato, come pare, al concilio di Pisa), il L. poté dunque ritornare a Trento, dove Federico IV aveva intanto soffocato la rivolta di Rodolfo Belenzani, già referendario cittadino. La pace però non durò a lungo, e solo nel luglio 1410 si giunse a una sentenza arbitrale pronunciata dal duca Ernesto. Il L. dovette rinnovare gli impegni del 1363, ma pochi mesi dopo Federico IV riuscì a strappargli nuovamente le temporalità dell'episcopato dietro pagamento di una pensione annua di 1000 ducati e a fargli affidare la giurisdizione vescovile a un vicario in spiritualibus. Il L. abbandonò Trento per ritirarsi nel castello avito di Nikolsburg; da qui annullò le sue concessioni in quanto estorte con la forza, scomunicò il duca con i suoi collaboratori (10 ag. 1411) e lanciò sulla diocesi l'interdetto.
Nell'aspro confronto con il duca, il L. si avvalse di relazioni privilegiate con il vertice regio e con il Papato pisano: il 5 giugno 1411 Giovanni XXIII lo creò cardinale.
Alla base di questa scelta fu forse, secondo Girgensohn, l'intento di smorzare il contrasto e allontanare uno dei contendenti dal luogo della competizione, mentre Decker propone, più in generale, le ragioni che spinsero Giovanni XXIII alle altre promozioni cardinalizie contemporanee: desiderio di contare su cardinali delle diverse nationes, auspicato collegamento con le Università (e Vienna era stata fortemente impegnata al concilio di Pisa), conoscenza personale. Per motivi ancora oscuri il L. non si giovò della nomina, ma non perché avesse a cuore in modo particolare la sede trentina; appena un mese dopo la sua creazione, l'Alma Mater viennese dovette infatti rispondere a una petizione da lui presentata insieme con i fratelli, perché lo Studio sostenesse con supplica al papa la sua richiesta di trasferimento a Frisinga (in realtà quest'episcopato era stato occupato tramite provvista papale solo pochi mesi prima e l'Università non poté che promettere il suo sostegno nel caso di futura sedevacanza). Ancora nelle vesti di vescovo di Trento, il L. si rivolgeva a Giovanni XXIII chiedendogli un'indagine cardinalizia sul suo caso e censure ecclesiastiche contro Federico IV, che pure al pontefice si era appellato.
Un sostegno efficace, anziché dal papa, giunse al L. da Sigismondo di Lussemburgo, re dei Romani, in attrito con Federico IV per diverse ragioni, non ultima l'ingerenza nella guerra con Venezia (1412-13). Già nel maggio 1412 Sigismondo adottò severe misure nei confronti del duca e il mese successivo nominò il L. suo consigliere, affidandogli poi importanti e delicati incarichi politici e giudiziari.
Due anni dopo, il L. figurava al seguito del re dei Romani alle Diete di Coblenza e di Norimberga, intervenendo probabilmente anche alla sua incoronazione a re di Germania ad Aquisgrana; fin dal 28 nov. 1414 partecipò alle sedute del concilio di Costanza, con un ruolo di rilievo come oratore regio. Furono plausibilmente i suoi legami con la nobiltà boema, la fedeltà a Sigismondo di Lussemburgo e le relazioni con Giovanni XXIII a farne uno dei mediatori nella vicenda di Jan Hus: il 28 novembre il L. fu tra coloro che i cardinali inviarono al teologo boemo per indurlo a un'audizione e, di fronte alle reticenze di questo, fu lui a sottolineare le buone intenzioni dell'ambasceria.
Nel 1415 il L. rappresentò Sigismondo di Lussemburgo nell'approvazione delle costituzioni di Narbona e portò davanti al concilio anche la sua vertenza con il duca d'Austria: il processo canonico, iniziato il 12 agosto e concluso solo l'11 marzo 1417 con la scomunica di Federico IV, si intrecciò con le dure iniziative di Sigismondo nei confronti del duca, colpevole anche di aver favorito la fuga di Giovanni XXIII. Anche in quegli anni il L. risulta variamente impegnato nel Tribunale imperiale, addirittura come presidente e, grazie alle notevoli disponibilità finanziarie della famiglia, creditore di Sigismondo per un'ingentissima somma.
Solo nel 1418, in seguito all'accordo raggiunto da Sigismondo con Federico IV e grazie alla mediazione di papa Martino V, il L. poté ritornare finalmente alla sua sede, ma dopo pochi mesi il conflitto con il duca si riaprì, inducendo il capitolo di Trento a invocare presso il papa sostegno e soccorso. Nella primavera 1419 il L. fu quindi costretto ad abbandonare di nuovo Trento e a rifugiarsi nel castello di Sporminore; da qui, il 5 aprile, raggiunse una tregua tramite la moglie di Federico IV, ma prima di una definitiva rappacificazione, forse in seguito ad avvelenamento, il L. morì il 20 ag. 1419.
L'infelice irrisolto contrasto con Federico IV ne segnava la fama e monopolizzava l'attenzione degli studiosi, con la conseguenza di oscurare la forte dimensione "internazionale" della sua personalità, evidente non solo nella raffinata cultura, ma anche nelle capacità d'azione nel contesto mitteleuropeo durante il grande scisma e in seno al concilio, alla Curia romana e alla corte imperiale.
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