DORIA, Giorgio
Nacque a Genova il 5 genn. 1800 dal marchese Ambrogio, conte di Montaldeo, morto quando il D. aveva dodici anni, e da Pellina Pallavicini. Appartenente a una famiglia che si era ben ralliée al regime napoleonico, studiò in Francia, nel celebre collegio di La Flêche trasformato dall'imperatore in convitto militare per i figli degli ufficiali e dei membri della Legion d'onore; quindi proseguì gli studi privatamente e forse approssimativamente, visto che gliene rimase una cultura eclettica ma superficiale. Nel 1821, secondo la polizia sabauda, il D. prese parte ai tumulti scoppiati a Genova nel mese di marzo.
La sua partenza per l'estero, nel maggio successivo, farebbe pensare a un esilio volontario e prudenziale, ma le lettere che egli inviò nel corso del viaggio rendono piuttosto l'atmosfera del grand tour di un giovane aristocratico alla ricerca di esperienze e divertimenti. "C'est en voyageant que l'on goûte les douceurs et les vrais plaisirs de la vie", scrisse appena giunto in Francia dove si entusiasmava per cose lontane dalla passione dell'esule: "aimables femmes, bonne table et bon lit" (Archivio Doria, 539). Per un anno e mezzo, con questo spirito, percorse l'Europa dall'Inghilterra ai Paesi Bassi, dalla Germania alla Danimarca, da Pietroburgo a Vienna, e tornò in patria con la consapevolezza di un'avvenuta maturazione: "Quante cose ho veduto, quanto ho imparato a vivere!" (ibid.).
Il 5 nov. 1823 sposò Teresa Durazzo, figlia del marchese Marcello, donna colta, vivace e politicamente impegnata, che gli diede quattro figli (Ambrogio, Marcello, Andrea e Giacomo) non tutti di paternità sicura e che contribui a far crescere in lui idee liberali e nazionali che negli anni seguenti si manifestarono in varie occasioni. Nel 1830 fu sospettato di essere carbonaro e un rapporto del governatore di Genova in data 9 maggio 1831 lo definiva persona "avversa al governo". Nel '33 lo si disse compromesso nella cospirazione mazziniana, ma la notizia non trova riscontro nei documenti ufficiali. Certo proprio allora il D. entrò a far parte di quel gruppo di aristocratici inquieti che avrebbero svolto un ruolo importante nelle vicende politiche genovesi a cavallo del 1848.
Nel 1846, al tempo dell'ottavo congresso degli scienziati che favorì a Genova contatti politici, il D. pare attestato su posizioni liberalmoderate e filomonarchiche: a lui si rivolsero F. Avogadro di Collobiano e C. G. Trabucco conte di Castagnetto, segretario privato del re di Sardegna, per raccomandare prudenza e moderazione. L'appello non cadde nel vuoto: ai primi di settembre del '47, quando la tensione patriottica aveva raggiunto a Genova punte rilevanti, si costituì sotto la presidenza del D. un Comitato dell'ordine che comprendeva liberali di diverse tendenze, dai più cauti riformisti ai mazziniani, ma che mirava ad assicurare ai primi il controllo dei movimenti popolari.
L'8 settembre, promossa dal Comitato, si svolse una grande manifestazione a favore di Pio IX e Carlo Alberto, della libertà di stampa e della guardia civica; il D. marciò alla testa del popolo impugnando la bandiera sarda al grido "Chi è italiano mi segua". Nei giorni seguenti fece mostra di grande attivismo, combattendo le pretese repressive delle autorità, ma insieme ebbe cura di ottenere - come egli stesso scrisse al ministro E. Pes di Villamarina - "che quelle manifestazioni non turbino menomamente il buon ordine" (G. Gallo, p. 5 2). Il 14 settembre presentò al re un indirizzo nel quale si chiedeva l'istituzione di tmilizie cittadine custodi della pubblica tranquillità" e una "onesta libertà dello scrivere" (ibid., p. 50).
A Torino però le richieste vennero male accolte: il 17 settembre il D., convocato nella capitale con G. Balbi Piovera e G. B. Raggi per una reprimenda, ribatté a F. Lazari, ispettore generale di polizia, "che non erano venuti ... per ricevere monizioni ma ringraziamenti, poiché essi non avevan fatto altro che conservare nel popolo il buon ordine" (Carteggi di V. Gioberti, III, p. 175). Il 20 settembre venne ricevuto da Carlo Alberto, ottenendo soltanto dichiarazioni vaghe e poco incoraggianti. Tuttavia il Comitato aveva ormai aperto una linea preferenziale di comunicazione col governo, scavalcando le autorità locali; e, nonostante l'opposizione di queste ultime, quando il re giunse a Genova al primi di novembre, poté organizzare in suo onore una festosa accoglienza popolare, nella quale il D. recitò una parte di primo piano.
In quegli stessi giorni fu tra i promotori di un corpo volontario di vigilanza; il 29 novembre ospitò nella sua casa di strada Nuova una riunione di patrioti che decise la fondazione del giornale La Lega italiana; il 10 dicembre partecipò da protagonista alla grande manifestazione per la ricorrenza della rivolta di Balilla. Il 5 genn. 1848 venne eletto in una deputazione incaricata di recarsi a Torino per chiedere l'espulsione dei gesuiti da Genova e la concessione di una vera guardia civica; ma la deputazione non venne ricevuta dal re e il ministro dell'Interno G. Borelli ne contestò la rappresentatività e la legittimità. Alberto Ricci, fratello del futuro ministro Vincenzo che era membro della deputazione, scrisse a quest'ultimo aspre parole di rimprovero e lo accusò di essersi esposto a "dividere la riputazione di leggerezza di un Giorgio Doria e di un Giacomo Balbi" sfidando il ridicolo (B. Montale, p. 36).
A dispetto di questi giudizi, il D. era sulla cresta dell'onda. Il 9 febbr. 1848 il governatore di Genova, G. A. Paliacciu della Planargia, lo convocò per annunciargli confidenzialmente che il re aveva deciso di concedere lo statuto e per raccomandargli la tutela dell'ordine. Il 29 dello stesso mese, dopo una violentissima dimostrazione contro i gesuiti che vennero cacciati dalla città, si costituì finalmente la guardia civica, nella quale il D. ottenne il grado di capitano. In tale veste partì il 20 marzo per la Lombardia con circa duecentocinquanta uomini e il 24 arrivò a Milano (si vanterà d'esser stato "fra i primi ad entrare in aiuto de' Lombardi in Milano che sentivasi ancora il cannone de' barbari austriaci" [A. Neri, p. 72]), dove effettuò pattuglie, svolse propaganda a favore della monarchia sabauda, si adoperò "onde far prevalere il principio della nazionalità italiana, formando uno Stato più grande che sia possibile, dal quale ne risulti forza e peso nella bilancia europea" (ibid., p. 71). Il 5 aprile pubblicò e diffuse a sue spese in tutte le città liberate un proclama ai "fratelli di Lombardia e della Venezia" nel quale combatteva le tendenze repubblicane, municipalistiche, antipiemontesi e ribadiva la necessità di uno Stato forte ed unito sotto la monarchia.
Tornato a Genova alla metà di aprile, vi trovò una situazione mutata. Il Comitato dell'ordine non esisteva più; il Circolo nazionale, che lo aveva sostituito, presto si scisse in due partiti - costituzionale e democratico -, il secondo dei quali prese decisamente il sopravvento a scapito degli elementi moderati. Il D. frattanto, abbandonate le vesti di leader delle associazioni spontanee, aveva assunto cariche ufficiali, nominato dal re tra i primi senatori e chiamato a far parte, dall'intendente di Genova (19 aprile), di una giunta per liquidare i conti degli istituti pii della città.
L'8 maggio era a Torino per l'apertura del Senato, dove subito prese la parola per proporre un indirizzo di ringraziamento "al re cavalleresco e al forte esercito, che tanto valorosamente propugnano l'indipendenza e la gloria d'Italia" (Atti..., Senato, 10 maggio 1848); e nella tornata del 6 luglio, allorché si discusse il progetto di legge sull'unione delle nuove province, si mostrò decisamente "fusionista". A Torino restò, per i lavori del Senato, sino alla fine di luglio, membro della commissione per l'esame della legge sui pieni poteri e di quella che propose le sovvenzioni alle famiglie dei militari.
Il 2 agosto, mentre stava maturando la sconfitta del Piemonte, ricevette la nomina a commissario regio nella divisione di Genova: col governatore pro tempore G. D. Regis e con C. L. Bixio formò un Comitato di sicurezza pubblica incaricato anche di riattare le fortificazioni e di distribuire soccorsi agli emigrati. A Genova il D. pensò di poter riprendere la sua azione di moderatore dell'opinione pubblica e dei gruppi politici, ma ormai la situazione gli sfuggiva di mano. I proclami emanati "per tranquillizzare la popolazione avviandola a libertà ordinata" vennero ricoperti di insulti, egli ricevette minacce e attentati. Rapidissima fu allora la sua metamorfosi in senso autoritario. Il 4 settembre, in una lettera a Carlo Alberto, accusò i repubblicani di voler "gettare la città in calamità ed orrori grandissimi non escluso il saccheggio", sollecitò un intervento repressivo dell'esercito e l'invio di un commissario straordinario con ampi poteri (G. Gallo, p. 158). Il 29 Ottobre, a conferma di queste parole, con una compagnia del reggimento "Aosta" caricò alla baionetta alcuni repubblicani, poi chiese al generale C. G. De Launay un battaglione di fanteria per il servizio d'ordine pubblico (Arch. Doria, 536). Quanto al commissario straordinario, esso arrivò a dicembre nella persona di D. Buffa, che in passato era stato assai vicino al D. e pensò di riannodare la vecchia collaborazione in funzione antimazziniana; ma ormai i due uomini erano troppo distanti.
Il D., che conservava ora soltanto il grado di maggiore della guardia nazionale, diffidava dei "commissario democratico" e si indignò quando questi propose di allontanare l'esercito dai forti di Genova. Il 14 genn. 1849 si dimise dalla guardia nazionale, dove l'elemento repubblicano era prevalente. Il 20 gennaio andò a Torino per riprendere il posto in Senato, dove si schierò contro il ministero Gioberti, da lui accusato di tradire il re e la patria. Il 4 marzo in un colloquio con Carlo Alberto gli sconsigliò la ripresa della guerra insistendo sulle cattive condizioni dell'esercito e sostenendo l'inconsistenza del pericolo della guerra civile agitato dal governo Rattazzi. Dopo Novara venne chiamato più volte nel Consiglio dei ministri per esprimere pareri sulla rivolta di Genova e sulle misure da adottare contro gli "anarchisti"; ma si guardò bene dal tornare nella sua città, dove i democratici lo cercavano "per fargli la festa come codino" e si sfogavano lasciando sfregi di baionette sulla sua casa (A. Codignola, p. 700).
Coi ritorno della quiete a Genova e nel Regno sardo si concluse, per il D., una sorta di periodo eroico durante il quale egli si era molto adoprato e agitato senza per questo ottenere una posizione di rilievo e di prestigio nel panorama politico subalpino. Certo, era uomo conosciuto da tutti, legato da rapporti di familiarità con molti personaggi influenti - Cesare Alfieri, Giacomo Durando, Camillo Cavour ed altri - ma non godeva di un'alta reputazione. Quando nel 1853 il governo austriaco gli rifiutò l'ingresso in territorio lombardo, il plenipotenziario imperiale a Torino scrisse al proprio ministero che "on a de la peine, ici, à comprendre cette mesure de rigueur envers un homme dont la complète nullité est presque proverbiale" (Le relaz. diplom. fra l'Austria e il Regno di Sardegna, p. 122).
In Senato continuò ad occupare il suo posto con assiduità, ma senza entusiasmo. Erano infatti le faccende domestiche a prendergli il maggior tempo: la sistemazione dei figli ed in particolare dello scapestrato Marcello che gli cagionava spese e fastidi; e soprattutto l'amministrazione del vasto patrimonio immobiliare, comprendente proprietà a Genova, La Spezia, Milano e Lorenteggio, Montaldeo, Tortona, Mornese, Pecorara.
Questi suoi affari privati s'intersecavano talora, come è ovvio, con l'attività pubblica e le amicizie politiche. Tra il '53 ed il '54 lo vediamo brigare in Senato e presso influenti personaggi di Torino perché fosse bloccato il progetto della società Nicolay di deviare le acque dello Scrivia, progetto che avrebbe danneggiato alcune sue proprietà nel Tortonese. Nel giugno del '54 si adoperò perché la ferrovia da Alessandria al confine piacentino non gli attraversasse, presso Novi, alcuni terreni piantati a gelsi e passasse invece nei campi dei suoi vicini (Arch. Doria, 181, reg. 1069). Nel '55 scomodò Cavour per ottenere il trasporto in franchigia doganale di certa biancheria usata della sua villa di Lorenteggio (ibid., reg. 1070). Nel '57 cercò di avere notizie riservate sulla ferrovia da Genova al confine estense e sul trasferimento dell'arsenale a La Spezia "per faccende sue particolari" (ibid., reg. 1071).
Sul versante ufficiale i suoi interventi in Senato si mantenevano dignitosi e opportuni. Il 5 apr. 1850 appoggiò l'abolizione del foro ecclesiastico, professandosi cattolico convinto ma insieme desideroso di "conseguire l'alleanza della religione con la libertà". Nel 1851 parlò a favore del riordinamento della Cassa invalidi della marina. Il 26 nov. 1852 lodò la nuova convenzione sanitaria internazionale, "richiesta dai bisogni del commercio e dagl'interessi i più vitali della navigazione nazionale". L'11 maggio 1853, in garbata polemica con Cavour, chiese per la marina militare maggiori cure e finanziamenti da parte del governo, e negli anni seguenti le preoccupazioni per una forza navale bene organizzata restarono un filo conduttore dei suoi interventi.
Pian piano, però, quel municipalismo che nel '48 egli aveva combattuto con discorsi e proclami finì per diventare l'ago della sua bussola politica. Alle perplessità per le strade ferrate della Savoia e del Novarese corrispose l'appoggio incondizionato a quelle liguri. Peggio: la concessione della ferrovia a cavalli di Sampierdarena, nella primavera del '54, venne da lui combattuta come "pregiudizievole agl'interessi di Genova" perché scoraggiava i capitalisti che avrebbero dovuto investire nel dock commerciale della darsena genovese (Arch. Doria, 181, reg. 1069). Anche il progettato tronco ferroviario Voltri-Sampierdarena gli apparve, in quello stesso anno, pericoloso, in quanto avrebbe sviluppato le aree a ponente di Genova, che "in pochi anni... diverrebbe deserta, poiché il porto di questa venendo ad essere anche il porto di San Pier d'Arena le ricchezze tutte colà si radunerebbero" (ibid.). Nessuna meraviglia che il D., nel 1855, si opponesse all'intervento in Crimea sia per motivi di principio ("qual diritto andremo noi a difendere, quale ragione a rivendicare?"), sia ancora più per timore di "compromettere gli interessi dei negozianti della Liguria e della marina mercantile" (Atti..., Senato, 1º-3 marzo 1855).
Negli anni seguenti il tema fisso della sua attività diventò la ferrovia delle Riviere liguri, che egli sollecitò ripetutamente e in diverse sedi con il proposito di riservare a Genova il monopolio dei collegamenti con l'entroterra (a scapito soprattutto della vicina Savona, che premeva per una seconda linea tra il Piemonte e il mare) e di favorire altresì La Spezia, centro di molti suoi interessi patrimoniali, mediante l'apertura della Spezia-Parma. Proprio a questa strada ferrata dedicò, il 17 ag. 1870, l'ultimo discorso in Senato. Già da qualche anno, peraltro, nel suo copialettere la corrispondenza di argomento pubblico andava scomparendo, e si diradava anche la sua presenza nella civica amministrazione e nella Congregazione di carità.
Morì a Genova il 23 genn. 1878.
Fonti e Bibl.: Le fonti manoscritte relative al D. conservate a Genova nell'Istituto Mazziniano e nell'Archivio di Stato sono state ampiamente utilizzate dagli storici del Risorgimento genovese, in particolare da G. Gallo, L'opera di G. D. a Genova negli albori della libertà, Genova 1927. Restano invece del tutto ignorate le moltissime carte del D. (da noi usate in piccola parte) contenute nell'Archivio Doria presso la facoltà di economia e commercio dell'università di Genova, che consentirebbero una ricostruzione dettagliafissima soprattutto della sua vita privata e dell'attività economica: si tratta principalmente delle scatole 181-195, 515-533, 535-562, 564-569, 571 s., 574 s., 577, 590, 592 s., 599 s., 602. Quanto alle fonti a stampa ed ai saggi, va detto che gran parte del materiale relativo alla storia di Genova tra il 1846 e il 1849 reca testimonianze sulla persona del D. e sulla sua azione politica.
Per la stesura della presente voce ci si è serviti particolarmente di: Atti del Parlamento subalpino, Senato; Atti parlamentari, Senato, ad Indices; A. Neri, Catalogo del Museo del Risorgimento, Milano 1915, I, pp. 67-88; A. Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri. Lettere del conte I. Petitti di Roreto a M. Erede dal marzo 1846 all'aprile del 1850, Torino 1931, pp. 264, 291, 333 s., 336 s., 344, 371, 374, 376, 379, 385, 390, 467 s., 470, 499 s., 617, 700; Carteggi di V. Gioberti, II, Lettere di I. Petitti di Roreto a V. Gioberti (1841-1850), a cura di A. Colombo, Roma 1936, pp. 81, 91; III, Lettere di G. Baracco a V. Gioberti, a cura di L. Madaro, Roma 1936, p. 175; Epistolario di Nino Bixio, a cura di E. Morelli, I, Roma 1939, pp. 11 s.; Le relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna, s. 3, a cura di F. Curato, I, Roma 1961, pp. 35, 37 ss., 348; Le relazioni diplomatiche fra l'Austria e il Regno di Sardegna, s. 3, IV, a cura di F. Valsecchi, Roma 1963, p. 122; Il Regno di Sardegna nel 1848-49 nei carteggi di D. Buffa, a cura di E. Costa, I, Roma 1966, pp. 12 ss., 42, 44, 89 s., 99, 101 s., 110 ss., 184, 199, 209 ss.; II, ibid. 1968, pp. 18, 61, 73 s., 145, 303 s.; V. Vitale, O. Scassi e la vita genovese del suo tempo, in Atti della Società ligure di storia patria, LIX (1932), pp. 306, 309; Genova e l'impresa dei Mille, Roma 1961, pp. 28-31, 33 s., 37 s., 47; B. Montale, Genova nel Risorgimento, Savona 1979, pp. 30-38, 91 s., 136; Diz. del Risorgimento naz., II, ad vocem.