FALCK, Giorgio Enrico
Nato il 12 maggio 1866 a Dongo (Como) da Enrico e da Irene Rubini, e rimasto orfano del padre a dodici anni, la sua educazione fu continuata dalla madre con l'aiuto dello zio Giulio Rubini: non vi ebbe influenza il nonno paterno Georges Henri, da tempo ritornato in Alsazia e al quale il nipote, suo omonimo, rese un paio di visite, nel 1882 e nel 1884. Compì gli studi elementari a Lecco e quelli medi prima all'istituto tecnico commerciale Hugentobler di Bergamo, che offriva anche la possibilità di un buon apprendimento del tedesco, e poi presso una scuola privata di Lecco. Approfittava intanto delle vacanze estive per cominciare l'apprendistato siderurgico presso la ditta Ferrari di Como.
Nel 1882, sedicenne, si trasferì a Zurigo alla Technische Hochschule, dove seguì un corso propedeutico alla sezione industriale di quel politecnico. Ammessovi non proseguì gli studi; si recò invece in Germania per un tirocinio in vari centri della Ruhr: fu nello stabilimento Union di Dortmund (dal dicembre del 1884 al giugno del 1885) nei reparti di pudellaggio prima e di laminazione poi, a Plettenburg presso la H.B. Seissenschmidt costruttrice di materiali ferroviari (dal luglio all'ottobre del 1885), alla trafileria Allhof e Müller (fino al febbraio del 1886), e quindi a Colonia alla Kalker Werkzeugmaschinen Fabrik (fino all'agosto del 1886). Completò l'apprendistato entrando nella società commerciale milanese Figli di Ippolito Sigurtà, per prepararsi a vendere la sua spettanza del prodotto del laminatoio di Malavedo. Ben presto i Redaelli, soci del laminatoio, gli affidarono l'installazione della nuova trafileria a Gardone Val Trompia, per la quale gli fu preziosa l'esperienza fatta presso la Allhof e Müller. A Hagen, in Germania, si recò per acquistare i macchinari.
L'attività del F. cominciava in un periodo di novità, e dal 1884 di netto miglioramento congiunturale per la siderurgia italiana. Negli anni '80 il governo aveva deciso di dar vita, sostenendo la Terni di V. S. Breda, ad una moderna acciaieria che affrancasse l'industria bellica dal ricorso alle forniture straniere producendo corazze e proiettili per la marina militare e rotaie per le ferrovie. La nuova società era legata alle commesse statali, alle sovvenzioni concesse ai cantieri navali (che, per fruirne, dovevano acquistare prodotti nazionali), alla politica protezionistica, alle agevolazioni fiscali, ed aveva forti vincoli con le banche (Credito mobiliare e Banca generale): sarà a lungo la caratteristica della siderurgia peninsulare rispetto a quella padana, e susciterà le aspre critiche di V. Pareto e di M. Pantaleoni. La mancata installazione degli altiforni a Civitavecchia dimostrò ancora una volta che il nostro paese poteva stare al passo - tecnicamente se non per quantità - con il resto d'Europa nella produzione di acciaio e nella laminazione, ma non riusciva a risolvere il problema della ghisa, strettamente connesso alla disponibilità di carbon fossile.
Nel 1887 venne approvata la nuova tariffa doganale, voluta soprattutto dai settori più moderni e dinamici dell'industria (ma non da quelli più avanzati dell'agricoltura), che modificò le basi stesse del sistema economico italiano. Fu larga di concessioni alla siderurgia, che secondo taluni danneggiarono l'industria rneccanica, ma è un giudizio non condiviso da altri, che non mancano di rilevare come la potenzialità di questo settore poté accrescersi grazie anche alle commesse pubbliche, alle ordinazioni di materiale ferroviario, alla crescente domanda di attrezzature da parte di settori in espansione.
Nel 1888 l'economia italiana entrò in una crisi gravissima, che si manifestò in una contrazione del reddito per abitante (quello complessivo, fra il 1888 e il 1892, aumentò di un modestissimo 0,29% medio annuo) e che colpì soprattutto le industrie metallurgiche e meccaniche. La produzione di ferro e di acciaio, fino a quell'anno in forte espansione - tra il 1881 e il 1889 era cresciuta da 98.571 a 339.552 tonnellate, con un tasso annuo del 16,7% -, scese a 180.816 nel 1892 e ancora a 166.343 tonnellate nel 1894, risultando più che dimezzata. Non tornerà ai livelli massimi del 1889 che nel 1903.
Accanto alle vicende del ciclo economico proseguivano i mutamenti di tendenza a lungo termine. La produzione italiana di ghisa - definitivamente condannata perché priva di combustibile fossile - continuò la discesa nel corso degli anni '80 e nella prima metà del decennio successivo, registrando un minimo assoluto di 6.987 tonnellate nel 1896; nel frattempo le tonnellate importate salivano, arrivando a 250.000. Anche la tecnica del rimpasto del ferro vecchio, che usava rottami per ottenere ferro da pacchetto, era invecchiata e senza sviluppo e venne sostituita con la produzione di acciaio omogeneo nei forni Siemens-Martin.
La trafileria di Gardone Val Trompia fu messa rapidamente in opera ed a lavoro ultimato, nel 1889, i Redaelli nominarono il giovane socio direttore del Laminatoio di Malavedo e, poi, procuratore generale della società. Negli anni di massima depressione per la siderurgia, il triennio 1892-1894, la produzione del Laminatoio arriverà alle punte massime: ulteriori espansioni erano frenate dalla posizione degli impianti, e dalla stretta di Laorca (Lecco) che ostacolava i trasporti del materiale in arrivo e dei prodotti in uscita. Sul piano tecnico si rammenta che sotto la direzione del F. la società fu la prima in Italia a laminare vergella di acciaio dolce.
Negli anni della crisi e della stentata ripresa - occorsero ben nove anni per tornare ai precedenti livelli produttivi - il Laminatoio di Malavedo era riuscito ad andare controcorrente ed a mantenere i bilanci in attivo grazie ad una politica commerciale aggressiva e ad un continuo aggiornamento tecnico. Il F. capiva però che nel lungo termine ben altri mutamenti si rendevano necessari. La siderurgia lombarda, per motivi geografici ed economici, era esclusa dalla possibilità di adottare altiforni a coke, e quindi di produrre con il ciclo integrale che in quegli anni aveva ripreso a diffondersi in Europa: la recente scoperta del procedimento Thomas, che eliminava il fosforo durante le operazioni di affinazione, permetteva ormai lo sfruttamento delle minettes lorenesi e lussemburghesi e rendeva possibile la nascita di quei possenti distretti siderurgici. Lontano dalle materie prime - anche i minerali di ferro locali erano disponibili in quantità insufficienti per le nuove esigenze - l'avvenire della siderurgia lombarda non poteva essere che nei forni Siemens-Martin a carica fredda, la cui localizzazione era vincolata alla disponibilità di rottami e di mano d'opera e alle linee di trasporto per l'approvvigionamento del carbone e delle quantità supplementari di rottame da importare. L'idea del F. era che le prime operazioni di trasformazione metallurgica ed eventualmente le laminazioni di massa dovevano lasciare le tradizionali località alpine e prealpine per trasferirsi vicino ai grandi centri della pianura. Si trattava di una intuizione certamente corretta, ma che sollevava allora più di una obiezione, in parte dettate da attaccamento al passato e ad un ordine di cose collaudato, in parte dalla constatazione che molti elementi di persistenza - primo fra tutti la disponibilità di mano d'opera - continuavano ad operare nel tempo. Si aggiungeva la congiuntura, che scoraggiava ogni iniziativa e in particolare gli aumenti di capacità: la ferriera di Rogoredo, dopo aver più volte mutato proprietario, era fallita a pochi anni dalla fondazione.
La recessione stava tuttavia per finire: dopo un pessimo 1894 la produzione di ferro e di acciaio salì improvvisamente a 214.000 tonnellate, con una ripresa del 20% rispetto al minimo dell'anno precedente. In questo nuovo clima il F. ed i Redaelli acquistarono in società, il 10 dic. 1895, lo stabilimento della ferriera di Rogoredo messo all'asta dopo il fallimento, e il 17 seguente lo affittarono alla Società del Laminatoio di Malavedo (di cui essi stessi possedevano, insieme con i Bolis, il capitale) che a sua volta ne affidò al F. la conduzione. Il successo dell'iniziativa non apparve però subito: nel 1896 e nel 1897 la produzione nazionale di ferro e acciaio si stabilizzò sul livello di poco superiore alle 200.000 tonnellate, raggiunto nel 1895, restando di un buon 40% al di sotto del massimo registrato nel 1889.
La vecchia ferriera di Rogoredo, con i suoi impianti di ribollitura, venne rimpiazzata da una moderna acciaieria con due forni Siemens-Martin da 16 tonnellate per colata, terminata nel 1898 e in produzione nel maggio dello stesso anno. Per prima produsse in Lombardia e su vasta scala lingotti di acciaio dolcissimo usando ghisa mista a rottami di diverse qualità. La produzione andava in parte ad alimentare il Laminatoio sociale di Malavedo, affrancandolo dalle importazioni dalla Germania, in parte veniva venduta sul mercato. Nel 1902, come era nei disegni originari, il laminatoio fu trasferito da Malavedo a Rogoredo: operazione non esente da difficoltà e causa di parecchie preoccupazioni. Il programma di laminazione venne comunque ampliato e nel 1904 fu esteso ai prodotti piatti.
Nel 1898 il F. si era sposato con Irene Bertarelli; nacquero quattro figli, tre maschi - Enrico, Giovanni e Bruno, che continuarono la sua opera - e una femmina, Giulia.
La sua vita fra i trentacinque e i cinquant'anni, nei primi quindici anni del secolo XX, coincise con una lunga fase di espansione congiunturale che diede all'Italia mutamenti definitivi rispetto al passato. Crebbero il reddito complessivo e quello per abitante, i risparmi, gli investimenti; aumentò la partecipazione dell'industria alla formazione del prodotto lordo privato e decrebbe, parallelamente, quello dell'agricoltura. L'industria conobbe profondi mutamenti strutturali: il suo sviluppo si basò meno sul vapore e sui suoi costosi impianti e più sull'elettricità, che dopo il 1884, pur avendo suscitato qualche eccessiva euforia, ebbe una crescita eccezionale. I settori manifatturieri più tradizionali furono affiancati da nuovi quali la chimica e l'industria automobilistica; la siderurgia adottò importanti innovazioni e vide crescere notevolmente la quantità dei prodotti, accentuando nel contempo quel dualismo che già si era delineato nell'ultimo scorcio dell'Ottocento fra industria peninsulare - che produsse finalmente la prima ghisa italiana con altiforni a coke - e quella padana.
Nell'agosto del 1902 entrò in funzione il primo altoforno di Portoferraio nell'isola d'Elba, alimentato con minerale locale e con coke di importazione, cui seguì nel 1903 un secondo; nel 1905 quello di Piombino, il primo stabilimento a ciclo siderurgico completo, fino ai laminati; nel 1909 quello di Bagnoli. Oltre ad errori di localizzazione (ad esempio con Portoferraio non si era tenuto conto dello spazio carente, che impediva di completare il ciclo, e della distanza pur breve dalle miniere, che comportava tuttavia pesanti oneri di trasporto), ai creatori delle nuove imprese si rimproveravano eccessiva disinvoltura nelle manovre finanziarie e speculative, e legami troppo stretti con le banche (che coinvolsero poi il sistema creditizio nella crisi del settore) e con la cantieristica e la grande meccanica (che permettevano la spartizione di un mercato garantito dal protezionismo e dalle sovvenzioni statali). La rivalità tra i maggiori gruppi portò ad un eccesso di capacità produttiva che rese la siderurgia peninsulare più vulnerabile alla recessione del 1907.
Del tutto diversa la situazione a Nord degli Appennini. Qui la tendenza della siderurgia era verso la costruzione di acciaierie di tipo moderno che sostituissero le vecchie ferriere: già nel 1896 i trafilatori di Lecco, riuniti in consorzio, avevano costituito la Ferriera del Caleotto che, dotata di forni Siemens-Martin, avrebbe prodotto l'acciaio e la vergella loro occorrenti; a Torino la FIAT assorbì alcune imprese per assicurarsi l'acciaio necessario, e nel 1906 la Mannesmann diede vita a Dalmine alla filiale italiana per la produzione di tubi senza saldatura, dotata di una acciaieria elettrica con forni Hérault.
L'acciaieria di Rogoredo era stato un primo importante passo nella riorganizzazione tecnica e territoriale della siderurgia lombarda, secondo il disegno del F.; si trattava ora di coinvolgere altre ferriere prealpine ed ampliare adeguatamente lo stabilimento principale. I Redaelli non se la sentirono di seguire il socio in questa nuova dimensione. Aderirono invece i Rubini - zii e cugini materni del F. - che apportarono lo stabilimento di Dongo, e Angelo Migliavacca e Alfredo d'Amico della Ferriera di Vobarno. La Società anonima Acciaierie e ferriere lombarde venne costituita il 26 genn. 1906; presidente era Migliavacca (lo resterà fino al 1921) mentre il F. ebbe le cariche di vicepresidente e di amministratore delegato. La Banca commerciale, già fortemente interessata nel gruppo Ilva, e molti interessi privati sottoscrissero il capitale sociale di 6 milioni. La Soc. an. Ferriera di Milano, di Porta Romana, si unirà al gruppo qualche anno dopo, nel 1911.
Costruire lo stabilimento principale, che rifornisse di acciaio e di semilavorati gli altri centri produttivi sociali, non era facile, anche per le limitazioni geografiche, tecniche ed economiche rispetto alla concorrenza estera. I forni Siemens-Martin, grazie alla flessibilità della carica, potevano usare rottami in elevata quantità - fino al 65-70% del totale - ma erano svincolati solo parzialmente dalla necessità di ghisa mentre avevano un elevato consumo di carbone, e le loro spese di trasporto mantenevano i costi dell'acciaio italiano a livelli più elevati.
Fu scelto Sesto San Giovanni perché era vicino a Milano (uno dei principali centri di consumo), il costo dei terreni era relativamente basso, vi passava una strada ferrata internazionale che collegava direttamente con le fonti di approvvigionamento di carbone ed eventualmente di lingotti e di semilavorati (Francia, Belgio, Lussemburgo), aveva buona accessibilità per la mano d'opera bergamasca e lecchese, insieme con quella bresciana assai esperta nelle lavorazioni siderurgiche. L'acciaieria venne dotata di quattro forni Siemens-Martin, da 35 tonnellate per colata, e il laminatoio di treni per travi e profilati; la produzione di acciaio grezzo cominciò nel marzo del 1908, e quella di laminati nell'agosto successivo. Gli stabilimenti di Dongo e di Vobarno, a loro volta, furono notevolmente rafforzati eliminando gli impianti tecnicamente sorpassati (come il treno per lamiere sottili di Dongo), installandone di nuovi e specializzati (come la bulloneria di Vobarno), rendendo ove possibile economiche le produzioni più tradizionali, come la rilaminazione del ferro da pacchetto. Dongo si specializzò nella produzione di getti di ghisa, con quattro cubilotti; di profilati mercantili, con tre treni mossi da turbine idrauliche e alimentati con il ferro da pacchetto prodotto con cinque forni; di fucinati. Vobarno ribolliva i rottami in cinque forni e produceva barre tonde e quadre, profilati, rotaie ed era dotato di quattro laminatoi. Lo stabilimento di Porta Romana aveva originariamente due treni per travi, sagomati e profilati, ed un reparto per tubi saldati che non stavano ormai più alla pari con quelli di Sesto e Vobarno; venne quindi dotato, nel 1913, di un treno vergella e di impianti per tubi senza saldatura laminati a caldo e a freddo.
Gli inizi di Sesto presentarono le difficoltà tipiche dello stabilimento greenfield, che non può contare sulle economie derivanti dalla presenza di infrastrutture, di mano d'opera addestrata, di consuetudine con i fornitori. Per di più l'avvio avvenne tra la recessione del 1907 e la ricaduta del 1909, che ridussero la domanda ma non la produzione; la quale, spinta dal continuo aumento delle capacità ampiamente eccedenti il fabbisogno, fra il 1902 e il 1910 raddoppiava ogni quattro anni. Lo squilibrio fra domanda e offerta, aggravato dal dumping dei produttori stranieri, specialmente tedeschi, mise in crisi molte acciaierie peninsulari e condusse al salvataggio del 1911 e alla costituzione del Consorzio Ilva per la gestione comune degli impianti. Un parziale sollievo venne dalla creazione di un sindacato commerciale, la Società anonima Ferro e acciaio, alla quale il F. partecipò.
Lo sforzo bellico impegnò notevolmente l'industria italiana: tra il 1914 e il 1917 la produzione siderurgica totale (ferro e acciaio: ma ormai il secondo era predominante) crebbe del 9,1% l'anno, un tasso ancora inferiore della metà a quello registrato fra il 1904 e il 1910. L'Ilva e l'Ansaldo andarono a gara nell'accaparrarsi le commesse belliche, la seconda estendendo le produzioni ai settori più diversi. Le imprese lombarde, che risentivano delle generali difficoltà di rifornimento e del mutamento di alcune tra le principali fonti di materie prime, accrebbero il ricorso al rottame sviluppando l'elettrosiderurgia: notevole il fatto che la produzione di ghisa al forno elettrico - che impiegava in gran parte materie prime nazionali - passò da 2.000 tonnellate nel 1914 a 62.000 nel 1918. Nel 1917 il F. volle assicurare agli impianti sociali una disponibilità diretta di energia elettrica che evitasse anche le oscillazioni stagionali ed iniziò la costruzione di un sistema idroelettrico che comprendeva centrali nelle Alpi e negli Appennini, completandolo poi con una centrale termica nella pianura. Aveva anche un preciso disegno di ampliamento del centro sestese attorno al nucleo originale, che porterà ben presto la società ad acquisire, già nel corso degli anni Venti, una posizione di rilievo nell'ambito della siderurgia italiana.
La Società sarà annoverata, insieme con la FIAT, che nel frattempo aveva attuato il suo progetto di integrazione verticale nell'acciaio, tra "i migliori e più tipici rappresentanti del nuovo corso intrapreso dalla siderurgia italiana" (Pozzobon, L'industria padana). Lo stabilimento originario, poi denominato Unione (acciaieria e laminatoi a caldo per profilati e barre), verrà ampliato ed affiancato dal Concordia (laminatoi a caldo per lamiere, reparto tubi saldati, bulloneria), dal Vittoria (laminatoio a freddo e trafilerie), e quindi dal Vulcano, dotato di forni elettrici per ghisa, che utilizzavano un sottoprodotto, le ceneri di pirite, e l'energia elettrica di supero prodotta nei tempi morti dalle centrali sociali. Sempre negli anni Venti due forni Siemens-Martin da 90 tonnellate verranno ad aggiungersi ai quattro esistenti e ai cinque forni elettrici, facendo dell'Unione la più grande acciaieria italiana prima di Torino (FIAT), Bagnoli (Ilva), Piombino (Magona), Piombino (Ilva). In questo periodo vennero portati a compimento i due principi di base del disegno del F.: accentramento della produzione di acciaio grezzo in un unico centro nella pianura e specializzazione, flessibilità e adattamento al mercato degli altri stabilimenti; costruzione di impianti ausiliari che, con le centrali elettriche, assicurassero la regolarità degli approvvigionamenti: lo stabilimento di Zogno per la produzione di materiali refrattari e le miniere di ferro a Schilpario.
Nel 1931 la società mutò la ragione sociale in Acciaierie e ferriere lombarde Falck, aggiungendovi il nome del fondatore; il carattere familiare dell'impresa (uno dei suoi punti di forza che la mise al riparo dalle tentazioni speculative) era sottolineato dall'entrata nel consiglio di amministrazione dei figli Enrico, Giovanni e Bruno (che erano anche direttori centrali) e del genero Giovanni Devoto; direttori generali erano lo stesso F. e Ludovico Goisis. Negli anni fra le due guerre si formò anche, attraverso l'acquisizione di partecipazioni e la creazione di nuove imprese, il gruppo Falck, che arrivò a controllare le Officine metallurgiche Broggi (1922) e i Cantieri metallurgici italiani (1924), le Trafilerie e corderie italiane (insieme coi Redaelli), l'Acciaieria e tubificio di Brescia (con l'Ilva). Vennero create le Acciaierie di Bolzano, dotate di forni elettrici, sbozzatori e treni di laminazione e specializzate nella produzione di acciai di elevata qualità; la costruzione degli stabilimenti cominciò nel 1935 e nel 1938 ebbe luogo la prima colata. A Sesto lo stabilimento Vittoria venne affiancato nel 1933 dallo stabilimento Vittoria S per la trafilatura a freddo; nel 1938 entrò in attività il Centro ricerche e controlli per la ricerca sulla natura e sulle caratteristiche dei materiali ferrosi nonché per il controllo ed il perfezionamento dei cicli produttivi.
Il programma dì ampliamento e di ammodernamento degli impianti dovette subire una stasi forzata negli anni della seconda guerra mondiale, che cominciò quando il creatore della società aveva ormai 74 anni; alcuni stabilimenti subirono anzi danni non lievi a causa degli eventi bellici. La ricostruzione e la ripresa dello sviluppo avverranno ad opera dei figli e successori.
Il F. ebbe anche una intensa partecipazione alla vita pubblica. Tra il 1901 e il 1912 fu presidente della Camera di commercio di Lecco; nello stesso 1901, dopo due anni di sforzi, riuscì a costituire l'Associazione fra gli industriali metallurgici italiani, di cui fu eletto presidente. Come tale patrocinò la creazione della rivista La metallurgia italiana (I, n. 1, novembre 1909), ancor oggi autorevole voce del settore. Nel 1910 fu vicepresidente del Congresso milanese degli esportatori in Oriente e nello stesso anno venne nominato cavaliere del lavoro; nel 1911 l'elezione a vicepresidente onorario del British iron and steel Institute aggiunse un importante riconoscimento internazionale. Il politecnico di Milano gli conferì nel 1933 la laurea honoris causa in ingegneria industriale; nel 1934 fu nominato senatore.
Nell'aprile del 1945 si ritirò a vita privata, affidando la presidenza della società al figlio Enrico; spirò due anni dopo, a San Remo (Imperia), il 12 genn. 1947.
Bibl.: G. Scagnetti, La siderurgia in Italia, Roma 1923, passim; Annuario dell'industria metallurgica italiana, Milano 1939, passim; A. Frumento, Imprese lombarde nella storia della siderurgia ital. Il contributo dei Falck, I, Dal 1833 al 1913, Milano 1952, passim; La siderurgia ital. negli ultimi 25 anni, Milano 1972, passim; R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, 1861-1961, Bologna 1974, passim, e App. tavv. 1, 7, 8, 9, 12, 13 A e B, 17; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, 1894-1906, III, L'esperienza della Banca commerciale italiana, Milano 1976, passim; L. Bosisio-G. Devecchi. Localizzazione e primo sviluppo dell'industria siderurgica a Sesto San Giovanni..., in La siderurgia ital. dall'Unità ad oggi, Atti del Convegno, Piombino 30 sett.-12 ott. 1977, in Ricerche storiche, VIII (1978), I, pp. 57-70; F. Bonelli, La siderurgia ital. dal 1900 al 1930, ibid., pp. 95-104; P. Hertner, La società "Tubi Mannesmann" a Dalmine. Un esempio di investimento internazionale (1906-1917), ibid., pp. 105-124; G. Barbalace, La siderurgia ital. nel 1911: protezionismo, liberisti, scioperi di Portoferraio e Piombino, ibid., pp. 125-42; M. Pozzobon, La siderurgia milanese nella ricostruzione (1945-1952). Ristrutturazioni produttive, imprenditori, classe operaia, ibid., pp. 277-306; Id., L'industria padana dell'acciaio nel primo trentennio del Novecento, in F. Bonelli, Acciaio per l'industrializzazione, Torino 1982, pp. 159-214; A. Carparelli, I perché di una "mezza siderurgia", ibid., pp. 3-158; F. Bonelli-F. Carparelli-M. Pozzobon, La riforma siderurgica IRI tra autarchia e mercato (1935-1942), ibid., pp. 215-333; Le A. F. L. Falck hanno compiuto ottant'anni, in La Ferriera, XXXV (1986), 2, pp. 1-15; P. Cafaro, Il progressivo affermarsi dell'industria, in Il Comasco dal Settecento al Novecento, II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880), a cura S. Zaninelli, in Annali dell'economia comasca, Como 1988, pp. 151-334.