FUÀ, Giorgio
Nacque ad Ancona il 19 maggio 1919. Suo padre, Riccardo, era allora un giovane medico, che aveva percorso l’itinerario professionale seguito dai maschi della famiglia Fuà da almeno tre generazioni. Iscrittosi nel 1901 all’ateneo di Bologna, in seguito Riccardo Fuà si era trasferito a Firenze e qui aveva completato gli studi. Durante il periodo universitario era sempre rimasto in contatto con la sua città natale, dove rientrava durante le vacanze per prestare servizio presso l’Ospedale civile e il Manicomio. Dopo la laurea e la decisione di specializzarsi in pediatria, era andato a Vienna, quindi a Berlino, per frequentare il prestigioso Istituto di Heinrich Finkelstein. Durante la Grande Guerra aveva prestato servizio nel 13° reggimento fanteria di Monfalcone. Al termine di una degenza provocata da una caduta da cavallo, i luminari Gustavo Modena e Lorenzo Cappelli lo avevano voluto al loro fianco al Centro ferite del cranio di Ancona. Poco più tardi, era stato chiamato al timone del brefotrofio provinciale, prima tappa di una carriera che lo avrebbe condotto, fra l’altro, alla guida dell’ordine dei medici cittadino e della locale sede dell’Opera nazionale maternità e infanzia, cariche perdute con l’entrata in vigore delle leggi sulla razza.
La madre di Giorgio Fuà, Elena Segre, veniva da Torino. Suo padre, Corrado Segre, era uno dei più apprezzati matematici del Paese. Nel marzo 1893 questi aveva sposato un’ebrea anconitana, Olga Michelli, che in estate tornava nella casa d’origine insieme alle figlie Adriana e, appunto, Elena. Nel settembre 1917 Elena aveva incontrato Riccardo Fuà, per il quale aveva sciolto il fidanzamento con il rampollo di una famiglia ebrea anconitana di costruttori edili. I due si erano sposati all’inizio dell’anno seguente: dal loro matrimonio nacquero Giorgio e, il 2 dicembre 1920, Corrado.
A un discreto benessere economico, la famiglia di provenienza di Giorgio Fuà associava una notevole sensibilità per le arti e la cultura in genere: un aspetto determinante nel percorso formativo dell’economista anconitano, che si distribuì lungo due direzioni.
Una direzione fu segnata da Elena Segre. Questa si impegnò nel trasferire ai figli la predilezione per le belle lettere, il teatro e la musica che le era stata infusa in tenera età dal padre. Donna dallo straordinario attivismo e dalle altrettanto spiccate capacità organizzative, nel corso del secondo conflitto mondiale e nel dopoguerra riuscì prima a mantenere in vita, quindi a rilanciare sia la Società amici della musica – sodalizio fondato nel 1914 dallo zio, Guido Michelli –, sia la sede cittadina dell’ADEI (Associazione donne ebree d’Italia).
Da sua madre Fuà attinse l’amore per la lirica, ma non quello per il pianoforte, che pure imparò a suonare, sottoponendosi per alcuni anni, di malavoglia, a lezioni private. Da lei mutuò, più ancora, l’attrazione per la lettura, che esercitò intensamente sin dall’infanzia. Allo scopo di consentirgli un accesso diretto, non mediato cioè dalla traduzione, a romanzi e poesie d’Oltralpe, Elena Segre gli insegnò ben presto il francese, lingua che aveva appreso nei suoi anni torinesi e che continuò a coltivare ad Ancona. Fuà si dimostrò un allievo molto ricettivo, al punto da essere in grado, appena quindicenne, di pubblicare articoli in francese sui cani, sua grande passione, insieme con la caccia.
L’altra direzione assunta dal percorso formativo di Fuà fu quella scolastica e universitaria. Come molti altri giovani ebrei anconitani, frequentò il liceo classico Rinaldini, considerato dalla locale comunità israelitica un prezioso ascensore sociale. Gli anni liceali gli diedero l’occasione di conoscere Enzo Monferini, professore di storia e filosofia, già allievo di Augusto Monti al liceo D’Azeglio di Torino e amico stretto di Cesare Pavese. Ebreo, Monferini era un antifascista con cui Fuà restò in stretto contatto nel dopoguerra. All’indomani del conseguimento della maturità, Monferini lo aiutò a preparare la prova per accedere al collegio Mussolini di Pisa, convitto che dava ospitalità agli studenti dell’ateneo toscano e al quale si accedeva per concorso. Nell’autunno 1937 Fuà ottenne un posto nel collegio e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza pisana.
La sua permanenza in riva all’Arno durò appena un anno. Nell’ottobre 1938, a causa delle leggi sulla razza, venne espulso dal Mussolini, nonostante a suo favore si fosse espresso nientemeno che Giovanni Gentile. Pur breve, il periodo trascorso a Pisa gli permise di conoscere coetanei come Giovanni Pieraccini, Emilio Rosini e Carlo Zacchia, con cui strinse un’amicizia destinata a conservarsi nel tempo.
Lasciata la Toscana, emigrò in Svizzera. L’Università di Losanna consentiva, infatti, di conseguire il dottorato di ricerca anche agli studenti non ancora in possesso di una laurea. L’economista anconitano rimase oltreconfine per circa due anni, in buona parte spesi a Ginevra, dove seguì i corsi dell’Institut de hautes études. Qui fu allievo di docenti di grande levatura (Wilhelm Röpke, William E. Rappard, Guglielmo Ferrero, Liebmann Hersch). Nell’estate del 1940 conseguì il dottorato in Droit-Mention Economie politique, discutendo la tesi Population et bien-être. La conception économique de l’optimum du peuplement, che diede alle stampe qualche mese più tardi.
Rientrato in Italia, nella primavera del 1941 tornò a Pisa e sostenne gli esami lasciati in sospeso nel 1938. Le leggi razziali, infatti, imponevano l’immediata espulsione degli ebrei presenti nei convitti che ospitavano anche «ariani», ma consentivano agli stessi il completamento degli studi, se già iscritti a un corso universitario al momento dell'entrata in vigore dei provvedimenti. A giugno Fuà discusse la tesi Come misurare il livello di vita di una collettività, laureandosi in giurisprudenza.
Completati gli studi, si trasferì a Milano. Seguendo il suggerimento di Röpke, si presentò a Luigi Einaudi, che a sua volta lo indirizzò verso Marcello Boldrini, allora docente di statistica economica all’Università cattolica. Boldrini ne intuì le notevoli capacità, affidandogli una ricerca sul valore dell’uomo, da realizzare analizzando il bilancio annuale di un migliaio di famiglie del capoluogo lombardo. Lo stesso Boldrini, affiancato da Gustavo Del Vecchio, già rettore della Bocconi prima della promulgazione delle leggi razziali, si adoperò affinché Fuà fosse accolto come docente nella scuola ebraica di via Eupili. Qui, nella primavera del 1942, lo studioso anconitano maturò la sua prima esperienza nell’insegnamento, tenendo seminari in economia e in statistica.
Sul finire dell’anno precedente lo stesso Fuà aveva accettato un’altra proposta di lavoro. Ad avanzarla era stato Adriano Olivetti. Dopo averlo sottoposto a un serrato colloquio con Luciano Foà, titolare dell’Agenzia letteraria internazionale e suo collaboratore, Olivetti lo aveva coinvolto nelle Nuove edizioni Ivrea (NEI). L’‘Ingegnere’ era allora in procinto di avviare una casa editrice pronta a diffondere, all’indomani della caduta del fascismo, che egli considerava imminente, la letteratura italiana e soprattutto straniera per vent’anni soffocata dal regime.
Intorno alle NEI Fuà e Olivetti cementarono un rapporto che nel dopoguerra avrebbe spinto il primo a partecipare sia alle Edizioni di comunità, sia all’omonima rivista. Nel 1942 al giovane studioso l’‘Ingegnere’ affidò la cura delle pubblicazioni di economia. Si trattava di un compito improbo, date le difficili condizioni in cui la casa editrice si trovò a operare, anche a causa della febbrile attività antifascista svolta dallo stesso Olivetti: Fuà scampò fortunosamente alla retata che nel luglio 1943 condusse l’imprenditore piemontese nella prigione romana di Regina Coeli.
Sebbene destinate a vita breve e tormentata, le NEI si rivelarono una straordinaria palestra e un non meno eccezionale luogo di incontri. Fuà vi conobbe fra gli altri Erika Rosenthal, segretaria della casa editrice, che sposò ad Ancona il 16 settembre 1943, con rito ebraico segreto suggerito da Elio Toaff, allora rabbino nel capoluogo marchigiano. Poche settimane più tardi, i bombardamenti alleati costrinsero la coppia a sfollare nelle campagne del circondario, dove i due restarono fino alla primavera del 1944, quando la sempre più feroce politica antisemita della Repubblica sociale italiana li spinse cercare riparo all’estero. Superarono il confine con la Svizzera il 18 maggio. Bellinzona, Lugano, Cossonay e Ginevra furono i luoghi del loro peregrinare da fuorusciti, sempre soggetti all’attento controllo delle autorità elvetiche. A Lugano, il 13 luglio 1944, nacque Silvano, il loro primogenito (gli altri due figli, Daniele e Lorenzo, videro la luce rispettivamente nel 1948 e nel 1950). Rientrarono in Italia nel luglio 1945.
Fu ancora grazie alle NEI che Fuà entrò in contatto Ernesto Rossi. All’inizio del 1943, da Ventotene, questi inviò alla casa editrice il manoscritto Il problema agrario, nel 1945 pubblicato da la Fiaccola con il titolo La riforma agraria. Lo studioso anconitano lo lesse, riservandogli alcuni rilievi critici che l’autore apprezzò. Sfumato un primo appuntamento all’indomani della liberazione di Rossi dal confino, i due si incontrarono nel 1944 in Svizzera, profughi, per poi ritrovarsi a Roma al termine del conflitto, quando l’economista casertano si adoperò per trovare a Fuà un’occupazione. Nell’estate del 1947 lo volle con sé all’ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati), ente pubblico da lui presieduto e sorto per smaltire i materiali bellici abbandonati durante la guerra. Nei tre anni trascorsi a fianco di Rossi, Fuà frequentò alcuni degli ambienti nei quali furono assunte le decisioni strategiche per la ricostruzione del Paese.
Nel dopoguerra tentò di percorrere la strada accademica, ma vide frustrate le proprie ambizioni. Nel 1948 fu bocciato al concorso per la libera docenza in economia politica. Sul giudizio della commissione incise, con ogni probabilità, la sua vicinanza alle posizioni economiche espresse in quel periodo dal Partito comunista italiano. Una collocazione ʽa sinistra’ di cui Fuà avrebbe apertamente dato conferma nel febbraio 1950, intervenendo alla conferenza indetta dalla CGIL al teatro Quattro Fontane di Roma per discutere del Piano del lavoro proposto da Giuseppe Di Vittorio.
Non meno sofferta, per lui, fu la ricerca di un lavoro in grado di garantire un reddito adeguato alle esigenze della sua famiglia. Tramite i buoni uffici di Rossi e Olivetti ottenne collaborazioni non solo con l’ARAR e le Edizioni di comunità, ma anche con l’Istituto mobiliare italiano, dove approdò allo scadere del 1946 e rimase per oltre tre anni. In tutti questi casi, però, si trattava di rapporti professionali temporanei, incapaci di assicurargli la stabilità sperata.
Così, quando si prospettò la possibilità di trovare posto presso la sede ginevrina delle Nazioni unite, colse subito l’occasione. Sergio Steve, economista che aveva conosciuto alla fine del conflitto e che divenne uno dei suoi mentori, per qualche anno aveva ricoperto il ruolo di esperto nella Economic commission for Europe (ECE) dell’ONU, istituita e presieduta da Gunnar Myrdal. Tornato in Italia per prendere servizio all’Università di Urbino, Steve sollecitò Fuà ad andare in Svizzera per sostituirlo.
A Ginevra Fuà giunse, per la terza volta nella sua vita, nell’agosto 1950 e vi rimase quattro anni e mezzo. Alla Research and planning division, guidata da Nicholas Kaldor, fu chiamato a raccogliere dati, svolgere analisi e stilare rapporti, per lo più, sull’andamento dell’economia nell’Europa meridionale. I suoi studi confluirono nelle Survey pubblicate annualmente dalla stessa Divisione. Il periodo che trascorse alle Nazioni unite fu fortemente influenzato dalla guerra fredda: non di rado si trovò a fronteggiare aspri attacchi provenienti sia da alcuni colleghi, sia dal governo italiano, che non apprezzava certo le osservazioni critiche da lui mosse alla politica economica nazionale.
Nel marzo 1955 l’ECE diede alle stampe Le prix des produits pétroliers en Europe occidentale, report crudo e dettagliato sul funzionamento del mercato mondiale del greggio, dominato dai maggiori paesi industrializzati. Il report era stato redatto da Fuà, che al momento della sua pubblicazione era in procinto di lasciare Ginevra. Al desiderio di tornare in Italia e ritentare la via accademica si abbinò, in quei mesi, l’offerta che il suo vecchio maestro Boldrini gli fece pervenire a nome dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), di cui era vicepresidente. Costituito nel marzo 1953, l’ENI stava definendo la propria organizzazione interna, che prevedeva anche un Servizio studi economici, sulla falsariga di quanto Pasquale Saraceno aveva fatto pochi anni prima all’IRI. Boldrini, con il placet di Enrico Mattei, chiese a Fuà di allestirlo.
Entrato in servizio nell’aprile 1955, lo studioso anconitano restò all’ENI cinque anni, nel corso dei quali cooptò nel Servizio studi giovani attesi a un radioso futuro, come Sabino Cassese, Marcello Colitti, Luigi Spaventa, Antonio Pedone e Giorgio Ruffolo. A lui e alla sua squadra fu chiesto, anzitutto, di raccogliere numeri e stendere rapporti sul settore degli idrocarburi. Con il crescere dell’articolazione e delle necessità di comunicazione esterna dell’ente, il Servizio studi economici si trovò investito però anche di numerosi altri compiti, fra cui la cura delle pubbliche relazioni. Cercò, tuttavia, di non perdere di vista la propria missione costitutiva. All’interno di quest’ultima andò a collocarsi il ʽPianino’, che nel 1957 Fuà presentò a Mattei. Sebbene non ne sia rimasta copia, il ʽPianino’ fu uno dei primi esempi di programmazione di una grande impresa italiana. Forse proprio a causa di questa alta cifra innovativa o per il timore che il suo accoglimento avrebbe limitato i poteri del presidente, Mattei lo ignorò.
Nel 1960 lasciò l’ENI. Difficile dire in che misura su questa scelta pesarono la vicenda del ʽPianino’ e la progressiva torsione del Servizio studi verso obiettivi diversi da quelli originariamente stabiliti. Di certo incisero le opportunità professionali che si aprirono ad Ancona, dove nel 1959 vide la luce la facoltà di economia e commercio.
Il ritorno di Fuà nella sua città natale coincise con l’avvio della stagione della programmazione economica in Italia. Lo studioso anconitano vi prese parte attiva. Nel 1962 venne inserito nella pattuglia di esperti della Commissione istituita sull’onda della Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio Ugo La Malfa. La Commissione nazionale per la programmazione economica (CNPE) si riunì per un anno e mezzo circa, sotto la guida di Saraceno, senza peraltro pervenire a risultati concreti. Per rendere pubblico il lavoro svolto, nel 1963 Fuà e Paolo Sylos Labini diedero alle stampe, senza esserne autorizzati, il volumetto Idee per la programmazione economica. Sorta di road map a uso dei policy maker, il libro fu criticato dalla Banca d’Italia, osteggiato dalla Confindustria e biasimato dal governo. Oltre dieci anni dopo, in un momento storico affatto diverso, sarebbe uscito Il modellaccio, elaborazione econometrica in quattro tomi, realizzata da Fuà e dai suoi collaboratori della facoltà di economia e commercio di Ancona in vista di una programmazione nazionale di breve periodo.
Notevole fu il contributo che Fuà diede anche in sede di programmazione regionale. Nel 1959 prese vita la Commissione di studio per lo sviluppo economico delle Marche. Promossa da Mattei e presieduta da Boldrini, essa si attribuì l’obiettivo di indicare la strada che la regione avrebbe dovuto battere per modernizzare la propria struttura socio-produttiva, ancora largamente legata a un’agricoltura di stampo mezzadrile. Nel 1963 questo obiettivo passò all’Istituto di studi per lo sviluppo economico delle Marche (ISSEM), due anni dopo affiancato dal Comitato regionale per la programmazione economica delle Marche (CRPEM), istituito dal ministero del Bilancio. Fuà partecipò a tutte queste iniziative, con compiti di coordinamento delle ricerche intraprese.
Nella cornice della programmazione regionale va collocata anche la facoltà di economia e commercio di Ancona. Sorta per volontà degli enti locali e dell’ateneo di Urbino, sotto la cui amministrazione rimase fino al 1982, essa coronò il sogno di diventare sede universitaria a lungo coltivato dal capoluogo marchigiano. Una vigorosa spinta in questa direzione venne impressa da Mattei, che proprio grazie a questa facoltà e al contemporaneo avvio della Commissione presieduta da Boldrini realizzò il progetto di rendere disponibili due strumenti utili alla «grande trasformazione» cui le Marche avrebbero dovuto attendere. Di questo disegno Fuà costituì un tratto rilevante, riuscendo peraltro a soddisfare le sue ambizioni accademiche, mai abbandonate. L’economista sfruttò il suo ormai ricco bagaglio di esperienze scientifiche e professionali per comporre una squadra di docenti di prim’ordine, ai quali presto si aggiunsero allievi capaci, che in pochi anni contribuirono a garantire alla facoltà anconitana una solida reputazione in Italia e all’estero.
Fulcro di progetti di ricerca ad ampio spettro, nella visione di Fuà la facoltà di economia e commercio aveva anzitutto il compito di formare capitale umano, ovvero laureati preziosi per l’auspicata modernizzazione delle Marche. Per l’ulteriore perfezionamento di questo capitale umano, nel 1967 Fuà promosse l’Istituto superiore di studi economici Adriano Olivetti (Istao). Inizialmente rivolto a giovani economisti, l’Istao aprì poi una seconda branca di studi, diretta a plasmare competenze imprenditoriali e manageriali sulla scorta del modello offerto dall’‘Ingegnere’, dunque con particolare attenzione per il rispetto del territorio e del lavoro.
All’Istao Fuà riservò gran parte delle proprie energie. Qui, fra l’altro, nel 1988 stabilì la sede della neocostituita Associazione per la collaborazione tra gli economisti di lingua neolatina, l’ultima delle grandi iniziative a cui legò il suo nome.
È consuetudine trovare associata l’attività scientifica di Fuà al modello del NEC (Nord-Est-Centro) o della ʽTerza Italia’. Industrializzazione senza fratture, titolo del volume che nel 1983 egli curò con Zacchia, divenne presto un’espressione d’uso comune, ancora oggi ampiamente adoperata per indicare la via di sviluppo alternativa a quella seguita dalle regioni del triangolo industriale sin dalla fine dell’Ottocento.
Questo libro si pose, in realtà, lungo un percorso di ricerca che per lungo tempo aveva visto Fuà allinearsi alle tesi classiche, secondo le quali il decollo economico di un territorio dipendeva, necessariamente, dalla presenza di grandi imprese ad alta intensità di capitale. Occorreva, dunque, imitare la strada percorsa dai paesi avanzati. Solo a partire dagli anni Settanta, sollecitato dalla crisi mondiale del sistema fordista, dalla fine del boom in Italia e dalle evidenze fornite dall’ultimo censimento della popolazione, Fuà diresse lo sguardo verso l’industrializzazione diffusa o, per ricorrere a un’espressione del suo amico Becattini, all’economia dei distretti industriali. Questo passaggio è testimoniato da Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell'economia italiana negli ultimi cento anni, opera in tre volumi che raccolse i risultati di uno studio d’équipe compiuto su impulso del Social science research council di New York. Il secondo e terzo volume uscirono infatti nel 1969, mentre per licenziare il primo Fuà attese il 1981 e un’attenta revisione sia dei dati raccolti, sia della più generale prospettiva di analisi.
Nel suo itinerario di ricerca, al tema dello sviluppo Fuà aggiunse altri filoni di indagine, come quelli della demografia economica e del benessere – si ricorderà che a essi dedicò le tesi di dottorato e di laurea –, dell’occupazione, del risparmio e della politica fiscale. Interessanti furono anche alcune sue incursioni nel campo dell’inflazione: nel 1947, in particolare, sulla rivista marxista «Critica economica» mise in discussione i fondamenti della stretta creditizia attuata da Einaudi.
Non meno incisive furono alcune sue osservazioni di carattere epistemologico. Già nel dopoguerra, dalle colonne dell’olivettiana «Comunità», Fuà ammoniva i colleghi a usare un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori e a non circoscrivere il proprio lavoro all’analisi dei fenomeni, ma spingersi anche a ipotizzare soluzioni ai problemi segnalati. La convinzione che gli economisti non potessero eludere la questione della propria utilità sociale emerse con forza in una lettera aperta a «la Repubblica» che firmò con Becattini, Sylos Labini, Onorato Castellino, Orlando D’Alauro, Siro Lombardini e Sergio Ricossa. I sottoscrittori di questa missiva lamentarono come la cura per le tecniche di indagine, giunte a un elevato grado di sofisticazione, avesse ormai prevalso sull’interesse per i temi trattati e la reale significatività dei risultati raggiunti. Con il volume Crescita economica. Le insidie delle cifre, cinque anni più tardi Fuà – pur convinto sostenitore dei metodi di ricerca quantitativi – ribadì il proprio monito contro l’eccessiva fiducia spesso attribuita ai numeri nella comprensione dei processi economici.
Fu, questo, il suo ultimo saggio. Fuà morì ad Ancona il 13 settembre 2000.
Fra i saggi di Fuà si segnalano: Population et bien-être. La conception economique de l’optimum du peuplement, Lausanne 1940; La valutazione monetaria della vita umana. Discussione del problema generale con una applicazione concreta all’assicurazione-vita, in Statistica, V-VI (1945-1946), pp. 199-290; Il dramma dei creditori nell’inflazione. Il monito dell’inflazione tedesca, Milano 1947; «Momento critico» dell’inflazione (Nota alla relazione della Banca d’Italia), in Critica economica, 1947, n. 6, pp. 89-101; Reddito nazionale e politica economica, Torino 1957; Lo Stato e il risparmio privato, Torino 1961; Idee per la programmazione economica, Bari 1963 (con P. Sylos Labini); Notes on Italian economic growth, 1861-1964, Milano 1965; Occupazione e capacità produttive. La realtà italiana, Bologna 1976; Crescita economica. Le insidie delle cifre, Bologna 1993. Ha inoltre curato: Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana negli ultimi cento anni, 3 voll., Milano 1969-1981; Il modellaccio. Modello dell’economia italiana elaborato dal Gruppo di Ancona, 4 voll., Milano 1976-1977; Industrializzazione senza fratture, Bologna 1983 (con C. Zacchia); Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, Bologna 1986.
Il suo archivio personale e familiare è custodito dalla Fondazione Giorgio Fuà (Ancona). Documenti utili alla ricostruzione del suo itinerario biografico e professionale sono conservati anche presso: Roma, Archivio centrale dello Stato, Divisione polizia politica; ibid., Fondo Saraceno Pasquale; Berna, Archivio federale svizzero, Dossier n. 22666; Archivio di Stato di Torino, Archivio Giulio Einaudi editore, Corrispondenza con autori e collaboratori italiani; Roma, Archivio storico della Banca d’Italia, Studi, Carte Baffi; ibid., Carte Rey; Pomezia, Archivio storico ENI, Fondo ENI spa; Ancona, Archivio storico Istao, Carte varie; Ivrea, Archivio storico Olivetti, Fondo Adriano Olivetti; ibid., Fondo Renzo Zorzi; Pisa, Centro archivistico della Scuola normale superiore, Fascicoli personali; Firenze, Historical archives of the European Union, Fondo Ernesto Rossi; Ginevra, United Nations Archives at Geneva, Carte varie.
Fra gli scritti su Fuà si ricordano: Un incontro che vale una vita. Intervista a G. F., a cura di G. Sapelli, in Synchron, 1996, n. 1-2, pp. 108-125; G. Gemelli, G. F. e le origini dell’Istao di Ancona, in Scuole di management. Origini e primi sviluppi delle business schools in Italia, a cura di Ead., Bologna 1997, pp. 295-324; Trasformazioni dell’economia e della società italiana. Studi in onore di G. F., a cura del Gruppo di Ancona, Bologna 1999; P. Alessandrini, G. F.: ricordo di un maestro, in Rivista italiana degli economisti, 2000, n. 3, pp. 503-510; A. Niccoli, G. F.: l’uomo, l’economista, il maestro, in Rivista di politica economica, 2001, n. 1, pp. 7-14; P. Sylos Labini, L’opera di G. F.: concezioni feconde e problemi aperti, in Rivista italiana degli economisti, 2002, n. 1, pp. 141-152; E. Rosenthal Fuà, Fuga a due, Bologna 2004, passim; P. Alessandrini - M. Crivellini, Fuà e la scuola di economia di Ancona, in La formazione degli economisti in Italia (1950-1975), a cura di G. Garofalo - A. Graziani, Bologna 2004, pp. 311-359; Sviluppo economico e benessere. Saggi in ricordo di G. F., a cura di G. Canullo - P. Pettenati, Napoli 2012; P. Alessandrini, G. F., in Il Contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma 2013, http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-fua_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/ (20 ag. 2020); G. Canullo - G. Garofoli - P. Pettenati, G. F. e lo sviluppo economico, in I maestri dello sviluppo economico, a cura di G. Garofoli, Milano 2016, pp. 83-117; F. Lavista, Analisi economica, politica estera e sviluppo. G. F., l’ufficio studi dell’ENI e la governance delle partecipazioni statali, Bologna 2016; G. Garofoli, G. F. e le trasformazioni economiche e sociali, in Istao, Le competenze per costruire il futuro, Roma-Ivrea 2018, pp. 344-362; M. De Felice - F. Traù, Giorgio Fuà e i suoi allievi. Appunti minimi per una filosofia della formazione, ibid., pp. 315-332; R. Giulianelli, L’economista utile. Vita di G. F., Bologna 2019.
Foto per cortesia prof. Marco Cucculelli/Fondazione Giorgio Fuà