GABER, Giorgio
GABER (Gaberscik), Giorgio
Nacque a Milano il 25 gennaio 1939, secondogenito di Guido, di origini istriane e di professione impiegato, e di Carla Mazzoran. A nove anni un infortunio al braccio sinistro gli procurò una leggera paralisi alla mano. Per avviare la rieducazione motoria dell’arto venne iniziato dal fratello maggiore, Marcello, all’esercizio della chitarra, che non solo si rivelò una buona tecnica di riabilitativa ma gli aprì le porte della carriera musicale. Preso il diploma di ragioniere presso l’Istituto commerciale Carlo Cattaneo nel 1958, nell’autunno di quell’anno si iscrisse alla facoltà di economia e commercio dell’Università Bocconi ma non completò mai gli studi. In realtà la sua ‘scuola’ si svolse nei sobborghi di Milano, nei bar e nelle sale da ballo, dove incontrò un'umanità minore e quegli eroi di periferia che entrarono a far parte di alcune delle sue canzoni più conosciute, al punto che il critico Enzo Golino lo battezzò «l'Adorno del Giambellino» (Riotta, 2003), un marchio al quale Gaber stesso fece in più di una occasione il verso, definendosi «filosofo ignorante». Non a caso fu proprio in un bar che avvenne la conoscenza, del tutto occasionale, con il personaggio che – almeno da un certo punto in avanti – più di ogni altro influenzò la sua produzione: il filosofo e pittore toscano Sandro Luporini.
All’inizio i modelli di riferimento furono i chitarristi jazz americani Barney Kessel, Tal Farlow, Billy Bauer, o italiani, come Franco Cerri. Dopo l’esordio al Festival jazz del 1954, la sua carriera proseguì nella formazione musicale di Ghigo Agosti, poi, nel 1956, entrò a far parte dei Rock Boys, gruppo fondato da Adriano Celentano, nel quale suonava come pianista Enzo Jannacci. Nel 1958, su sollecitazione del musicologo Roberto Leydi, fondò i Rocky Mountains Ol’ Times Stompers, che oltre a lui comprendevano Gianfranco Reverberi alla chitarra, Luigi Tenco e Paolo Tomelleri al sax, Enzo Jannacci al pianoforte. Con Tenco iniziò un rapporto di amicizia e un sodalizio artistico che li condusse a firmare più di una canzone.
Alle serate d'intrattenimento nelle balere milanesi e in vari locali della riviera ligure alternò esibizioni al Santa Tecla, tempio del jazz milanese, fino ad approdare, nel 1957, alla prima apparizione televisiva in Voci e volti della fortuna, trasmissione abbinata alla lotteria Italia. Alla fine degli anni Cinquanta venne notato da Nanni Ricordi, direttore artistico dell'omonima casa editrice musicale per la quale registrò le sue prime canzoni da solista, a cominciare da Ciao ti dirò, scritta nel 1958 con Tenco e considerata il primo rock ’n’ roll italiano, per proseguire con Da te era bello restar (originale in italiano), Be bop a lula e Love me forever, due successi americani. In quelle incisioni comparì per la prima volta il suo nome d’arte, Giorgio Gaber, dopo che la casa editrice aveva cercato, cedendo alle mode americanizzanti del periodo, di lanciarlo come Rod Korda, Jimmy Nuvola e Joe Cavallo.
Nel 1959 formò con Jannacci il duo I due Corsari, che debuttò con il 45 giri Ehi!… Stella / 24 ore. Dell’anno successivo è uno dei loro brani più conosciuti, Una fetta di limone. Il successo definitivo giunse nel 1960 grazie a Non arrossire, con testo di Umberto Simonetta, autore televisivo e teatrale. Sempre con Simonetta Gaber scrisse in quegli anni alcune ballate ispirate al repertorio popolare milanese − Trani a gogò (1962), Porta Romana e Le nostre serate (1963) − ma soprattutto La ballata del Cerutti, che nel 1960 salì in vetta alle classifiche dei dischi più gettonati nei juke-box. In questa prima fase della carriera Gaber alternava gli ammiccamenti al rock ’n’ roll e ai gusti giovanili dell’epoca a questa vena milanese ispirata da Simonetta. Alle mode americane sovrapponeva l’ambiente delle osterie, al whiskey il barbera del Giambellino e dei quartieri popolari. In questo contesto le sollecitazioni commerciali e dello star system convivevano accanto alle più esclusive rappresentazioni nei jazz club. Di qui anche i generi musicali attraverso i quali Gaber giunse al successo.
La sua frequentazione con Celentano, all’insegna della comune passione per il rock ’n’ roll, non gli impedì di polemizzare, sia pure musicalmente, con lui dando origine a quella che i rotocalchi definirono la «guerra delle ballate»: Celentano lanciò, al Festival di Sanremo del 1966, Il ragazzo della via Gluck, canzone che esprimeva nostalgia per il passato e per la perdita della vita felice della campagna; Gaber gli rispose in Com’è bella la città (1969) che, sia pure in chiave ironica e con gli inviti a mitigarne gli eccessi, costituiva l’accettazione della vita urbana favorita dal boom economico.
All’inizio degli anni Sessanta Gaber era ormai lanciato nel firmamento della canzone italiana e la sua popolarità varcava i confini di Milano. Partecipò a quattro edizioni del Festival di Sanremo (1961, con Benzina e cerini; 1964, con Così felice; 1966, con Mai, mai, mai, Valentina; 1967 con ... e allora dai). Nell'estate 1966 ottenne il secondo posto al Festival di Napoli con ’A Pizza. Il pubblico televisivo lo scoprì e lo apprezzò in rubriche musicali e spettacoli di cui era ideatore-cantante-conduttore, come Canzoni di mezza sera (1962), Teatrino all'italiana (1963), Canzoniere minimo (1963), una delle prime trasmissioni dedicate alla musica popolare e d'autore, Milano cantata (1964), Questo e quello (1964), Le nostre serate (1965), Diamoci del tu (1967), Giochiamo agli anni Trenta (1968), E noi qui (1970), varietà del sabato sera.
Partecipò inoltre alle edizioni del 1968, 1969 e 1970 di Canzonissima e fu invitato come ospite in programmi televisivi di successo come Studio Uno (1966), Teatro 10 (1972) e Senza rete (1968, 1969, 1972, 1973).
Nel 1965 sposò Ombretta Colli, anche lei proveniente dall’ambiente del teatro (aveva studiato al Piccolo). Nel 1966 nacque la figlia, Dalia.
Per capire la vicenda di Gaber e l’originalità dei suoi testi conviene collocarlo nella storia più generale della canzone italiana, nei confronti della quale operò una vera e propria azione di rottura e di rinnovamento. Nasceva infatti, fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il fenomeno dei cantautori, che nobilitò il testo della canzone sull'onda delle risonanze della chanson francese. Fu l’inizio della rottura con la canzone melodica, di quella tradizione cioè costruita su ritmi orecchiabili con testi che potevano essere letti come mezzi sia per allontanare e dimenticare i problemi quotidiani, sia per diffondere sentimenti di tranquillità e di rassicurazione. Sotto questo profilo la canzone svolse un ruolo primario come veicolo del desiderio di rimozione della guerra appena terminata. La restaurazione della melodia si consolidò e si amplificò attraverso il Festival di Sanremo che, a partire dal 1951, anno della prima edizione, diventò la vetrina della canzone italiana. Dal palcoscenico sanremese la canzone accentuò quel senso di ‘smemoratezza’ che la condusse a ignorare la cronaca e la realtà proponendo testi come Grazie dei fior, la canzone con la quale Nilla Pizzi vinse la prima edizione del Festival, motivetti nonsense, come Papaveri e papere (1952) e Una casetta in Canadà (1957), o amori melensi, come Viale d’autunno (1953) o Buongiorno, tristezza (1955).
Nel tentativo di contrastare quella tendenza nacque, nel 1957, il gruppo torinese Cantacronache, al quale collaborarono poeti e intellettuali come Italo Calvino, Franco Fortini, Umberto Eco, Gianni Rodari, Emilio Jona e Giorgio De Maria, con palese richiamo alla collaborazione fra il mondo della cultura e quello della canzone che negli stessi anni univa in Francia personaggi come Jean-Paul Sartre e Jacques Prévert alla generazione degli chansonniers. Non a caso il modello di riferimento di uno dei fondatori, Fausto Amodei, era Georges Brassens. Cantacronache operò dal 1957 al 1963, un periodo chiave dell'Italia del dopoguerra: erano gli anni del boom economico e della grande trasformazione. Ma erano anche gli anni in cui al Festival di Sanremo trionfava quella che i protagonisti del gruppo definivano polemicamente la canzone ‘gastronomica’, vale a dire di consumo. La loro esperienza rimase un fenomeno tutto sommato isolato sul piano della diffusione commerciale. Tuttavia la loro lezione influenzò la nascita e l’evoluzione della nuova generazione dei cantautori.
Fu a Genova, città di frontiera prossima alla Francia, che autori come Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi e Luigi Tenco si fecero interpreti di una nuova sensibilità musicale. Contemporaneamente, dalle parti di Bologna Lucio Dalla e Francesco Guccini inaugurarono la via emiliana al rinnovamento della canzone. A Milano, infine, Jannacci e Gaber collaborarono per dare nuovo timbro e significato ai testi. A fare da sfondo comune alle tre esperienze fu la lezione degli chansonniers francesi. Ma l’azione di questi (da Jacques Brel a Brassens, da Boris Vian a Charles Trenet) non va colta solo nell’opera di divulgazione che ne fecero vari interpreti presso il pubblico italiano. Più profonda fu l’influenza che esercitarono nel rinnovare moduli desueti e introducendo categorie e concetti fino ad allora assenti: in primo luogo quello relativo al tempo del reale.
A Brel si ispirò anche Gaber, che ne ereditò soprattutto il senso della delusione e del disincanto proprio di tanti suoi motivi. Il brano Che bella gente (1971) è la versione di una canzone di Brel, Ces gens-là, con il testo italiano scritto da Herbert Pagani. Mai il debito nei confronti di Brel va oltre l’omaggio che gli rese con quella canzone. Con il cantautore francese condivideva l’idea che le convenzioni e la classe sociale che se ne faceva interprete, la borghesia, erano una malattia, una sorta di condizione esistenziale. Di qui le sue analisi. Di qui anche le invettive contro la borghesia e l’idea che «i borghesi son tutti dei porci, più sono grassi più sono lerci», come cantò in I borghesi nel 1971. Ma non fu meno tenero con la sinistra e i suoi miti, spesso al centro delle sue critiche e polemiche. Ciò che contava per Gaber «è cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro che è un’altra cosa», come recitava, nel 1972, uno dei testi dello spettacolo Dialogo fra un impegnato e un non so. Da ciò anche l’irrisione nei confronti di certi atteggiamenti della sinistra extraparlamentare che Gaber espresse, nello stesso spettacolo, con Al bar Casablanca.
L’idea del mondo di Gaber era dunque aliena da ogni compromesso. Nel mettere tutto in discussione, nel fare del dubbio e dell’interrogativo un metodo di analisi fu l’essenza della sua produzione più impegnata, le sue considerazioni sui falsi miti del Sessantotto e gli interrogativi che «solo per il fatto che sono giovani hanno ragione per forza?», come si chiedeva in Il signor G. dalla parte di chi (1970).
La vera svolta di Gaber avvenne con il teatro canzone. Fin dall’origine della sua attività aveva flirtato con il teatro: nel 1959, al Gerolamo di Milano, mise in scena con Maria Monti, allora sua fidanzata, un recital dal titolo Il Giorgio e la Maria. Monti recitava monologhi su Milano, Gaber interveniva con le sue canzoni. Fu l’inizio di un sodalizio, non solo artistico, destinato a incidere profondamente sulla sua carriera. Nella collaborazione con Monti sperimentò un modo nuovo di fare canzoni, che lo avvicinò ancor più al mondo della periferia e dell'emarginazione metropolitana. Nel 1962 insieme con Dario Fo registrò il 45 giri Il mio amico Aldo, nel quale lui cantava, l'altro recitava. Nacquero così un sodalizio e un’amicizia destinati a far appassionare Gaber alla forma teatrale. Nelle stagioni 1969-70 e 1970-71 fu protagonista di una tournée teatrale con Mina. Il teatro insomma divenne per lui una forma di comunicazione del linguaggio musicale che gli si rivelò sempre più congeniale. Il 21 ottobre 1970, su invito di Paolo Grassi, debuttò con Il signor G al Teatro San Rocco di Seregno, nell'ambito del decentramento regionale del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giuseppe Recchia e la direzione musicale di Giorgio Casellato. Lo spettacolo segnò l’inizio di un genere di rappresentazione e di un progetto: una forma di teatro civile attraverso la scelta del linguaggio autonomo della canzone a teatro.
Il teatro-canzone − lo spettacolo a tema con canzoni inframmezzate da monologhi e racconti − fu il genere originale più rappresentativo nel percorso artistico di Gaber. Il teatro, in definitiva, fu un ulteriore strumento per aumentare la resa emotiva della canzone, un processo di progressivo approfondimento del mezzo e delle possibilità espressive, sostenute da percorsi di scrittura sempre più articolati e complessi: macro-canzoni e interventi recitativi, dove anche il momento della composizione musicale si adattava, con uno stile eclettico difficile da classificare, ai diversi registri interpretativi richiesti dall'attore-cantante, dall'ironico al tragico, dal sentimentale all'elegiaco, dall'introspezione all'invettiva. Fu l'inizio della svolta artistica: l'impegno teatrale, la rinuncia cosciente oltre che alla televisione anche all'attività discografica e la scelta del teatro come luogo di espressione diretta senza condizionamenti e filtri tra l'artista e il suo pubblico. Il suo percorso artistico divenne lineare e conseguente: fare della canzone non più un fine, ma un mezzo da adattare alla forma di comunicazione teatrale. Il teatro-canzone mescolava teatro, cabaret e canzone, con Gaber unico interprete in scena. Con quella formula nacque anche il Signor G, destinato a rappresentare l’identificazione del protagonista con i dubbi, gli interrogativi e i problemi e della gente comune.
Con la sua nuova casa discografica, la Carosello, Gaber pubblicò sia le riprese dal vivo degli spettacoli teatrali sia album registrati in studio. Dietro quella che sarebbe passata alla storia come la ‘canzone intelligente’ c’erano Fo, l’esperienza degli chansonniers francesi ma, soprattutto, Luporini. Fu Luporini a far conoscere a Gaber il gruppo dei pittori del realismo esistenzialista e a introdurlo nell’ambiente artistico che ruotava attorno all’Accademia di Brera. Il successo di quella formula fu immediato e crescente. Il signor G. registrò 18.000 spettatori; Dialogo tra un impegnato e un non so toccò le 166 recite con 130.000 presenze; Far finta di essere sani (1973) in 182 recite raggiunse i 186.000 spettatori. Dal 1972 al 1982 gli spettacoli del teatro-canzone totalizzarono 2 milioni di biglietti venduti; nel 1991, in una stagione, Il Grigio (che aveva debuttato a Belluno il 19 ottobre 1988) arrivò a 170.000 spettatori in 150 recite.
Il parlamentare Carlo Carli del gruppo dei Democratici di Sinistra, il 23 settembre 2003 in sede commissione cultura alla Camera dei Deputati, avanzò la proposta di legge (C. 4036), per ottenere la tutela e il riconoscimento da parte dello Stato del 'teatro-canzone', definito «un genere espressivo legato alla teatralità, alla parola e alla musica», dalla struttura «costituita da un'alternanza di canzoni e monologhi o, più precisamente, di parti cantate e recitate».
Con gli spettacoli degli ultimi anni Ottanta, Gaber e Luporini cambiarono registro, spostando il piano dall'analisi dei malesseri collettivi a quello più intimo dei sentimenti. Attraverso il personaggio solista che rifletteva e comunicava i propri pensieri, il dialogo era sintetizzato all'essenziale, si ricostruiva un percorso più letterario. Non si trattava del monologo del teatro classico: era l'io interiore a parlare. Parlami d'amore, Mariù (1986-88) era un racconto a struttura aperta con brevi atti unici in forma monologica e canzoni, che costituivano un'ampia indagine sulla tematica dello spettacolo; Il Grigio (1988-91), un vero e proprio racconto in prosa (con il quale nel 1989 vinse il premio teatrale Curcio).
È difficile condurre a unitarietà la sterminata produzione di Gaber. Dopo un inizio di carriera nel quale alternò il rock ’n’ roll al jazz e all’intimismo neomelodico, l'impegno civile lo portò, dagli anni Settanta, a confrontarsi con i grandi temi della vita pubblica e sociale dell’Italia di fine Novecento. Ricorrente fu, per esempio, l'evocazione delle possibili deviazioni autoritarie nel paese, come in La presa del potere (1973), in cui immaginava che i golpisti non fossero militari, ma scienziati e tecnocrati i quali occupavano i gangli vitali della società (le questure, la RAI, le industrie, le scuole e infine il Parlamento) mentre «l’Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei bar». Serrata anche la critica nei confronti del terrorismo: erano passati due anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, e alcuni brigatisti responsabili di quel delitto erano già in carcere, quando, nella canzone Io se fossi Dio (1980), dedicò a quella terribile pagina alcune parole in musica di una durezza sconvolgente, che riflettevano sulle trasformazioni che la vittima più illustre delle Brigate rosse aveva subito nella memoria collettiva, trasformazioni indotte proprio dal modo terribile in cui Moro era morto: «Di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento Ⅰ ma se io fossi Dio Ⅰ non mi farei fregare da questo sgomento Ⅰ e nei confronti dei politicanti Ⅰ sarei severo come all’inizio Ⅰ perché a Dio i martiri Ⅰ non gli hanno fatto mai cambiar giudizio». Al crollo del comunismo e dei suoi miti dedicò Qualcuno era comunista (1992), nel quale ripercorse i motivi dell’adesione al comunismo della gente comune («Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà ... la mamma no. Ⅰ Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa …») per terminare con la fine delle utopie e delle illusioni («ormai il sogno si è rattrappito»).
Gaber espresse un credo civile che gli costò in più di un'occasione l’accusa di qualunquismo. La polemica costante contro le contraffazioni e l’ipocrisia delle ideologie, e lo sguardo disincantato sulla realtà, se da una parte fecero di lui un campione di chi elevava l’etica a regola di vita, dall’altra gli attirarono le critiche dei partiti ortodossi, soprattutto della sinistra. Le accuse di qualunquismo tornarono puntuali in occasione di alcuni suoi spettacoli, come quando, all’indomani di Un'idiozia conquistata a fatica, Luca Canali (Il triste tramonto di un menestrello, sull'Unità , 7 gennaio 1998) lo incolpò di snobismo da salotto, di aver fatto opera di revisionismo sulla Resistenza, di avere sferrato un attacco ad Antonio Di Pietro e al pool di Mani Pulite. Pesò certamente su quelle critiche anche l’attività della moglie, Ombretta Colli, che negli anni Novanta aveva iniziato una fortunata carriera politica nelle file di Forza Italia. Altri – e fra questi Dario Fo − lo definirono un anarchico individualista.
In realtà fu frequente in Gaber la polemica contro lo Stato e le sue istituzioni. Già nel 1966 scrisse Ma voi ma voi ma voi, non certo un brano tra i più noti del suo repertorio, ma dal contenuto inequivocabile: «Ma voi, ma voi, ma voi che sputate sentenze cretine Ⅰ ma voi, ma voi, ma voi che vivete di cose meschine Ⅰ voi sprecate la vita ingrassando ogni giorno di più». Ma chi erano i 'voi' ai quali si riferiva? Erano innanzitutto le istituzioni. A cominciare dalla scuola, alla quale dedicò alcune strofe in Immagini (1968): «Una scuola, una grande scuola, piena di grandi professori, dove ti insegnano cose importanti, dove ti abituano a non pensare e poi da grande non sai cosa fare». Convenzionalismo e conformismo anche fra Gli intellettuali (1972), ritenuti snob e inetti: «Poi dicono, gli intellettuali. È chiaro, siamo su un altro livello Ⅰ Loro vanno lì, si picchiano coi fascisti e con la polizia. Ⅰ Cosa risolvono? [...] È che tanto non si può far niente». Ancora più corrosiva la satira in La Chiesa si rinnova (1971), dove prese di mira non i comportamenti dei fedeli, ma quelli delle gerarchie: per Gaber, di fronte a una società profondamente stravolta dal rapido processo di modernizzazione consumatosi negli anni precedenti, la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, aveva limitato il proprio rinnovamento ad aspetti marginali ed esteriori, lasciando pressoché immutato il rapporto con la società: «E si è stabilito, dopo mille discussioni, Ⅰ che il prete, essendo uomo, può portare i pantaloni. Ⅰ [...] e la Chiesa si rinnova per la nuova società Ⅰ e la Chiesa si rinnova per salvar l’umanità».
Stato, Chiesa e borghesia furono al centro della satira e della polemica di Gaber, che teorizzò la sua idea di libertà in una canzone del 1972, La libertà, il cui ritornello è divenuto quasi un inno all’anticonformismo e all’anticonvenzionalismo: «La libertà non è star sopra un albero Ⅰ non è neanche avere un’opinione Ⅰ la libertà non è uno spazio libero Ⅰ libertà è partecipazione».
Il 13 aprile 2001 Gaber pubblicò un nuovo disco realizzato in studio: La mia generazione ha perso, che presentava alcune canzoni di spettacoli precedenti (Destra-Sinistra e Quando sarò capace d'amare) e alcuni inediti, di cui il più significativo era La razza in estinzione, il brano in cui compariva la frase che dà il titolo al disco.
Già segnato dalla malattia, partecipò nello stesso anno al programma su RaiUno 125 milioni di caz...te, di e con Adriano Celentano, insieme ad Antonio Albanese, Fo, Jannacci: i cinque cantarono insieme Ho visto un re. Iniziò in contemporanea la lavorazione di un nuovo disco, Io non mi sento italiano, poi pubblicato postumo.
Da tempo malato di cancro, morì il 1° gennaio 2003 nella sua casa di campagna a Montemagno, in provincia di Lucca. Il corpo riposa nel Cimitero monumentale di Milano.
E. Vicini, G. nella foresta, Venezia 1975; M. Straniero, Il signor G., Milano 1979; G. G. Canzoni e spettacoli, a cura di R. Piferi, Roma 1979; M. De Luigi, Cultura & canzonette, Milano 1980, passim; M. Serra, G. G. La canzone a teatro, Milano 1982; Il dizionario della canzone italiana, a cura di G. Castaldo, Milano 1990; G. Riotta, L' utopia del Cerutti, in Corriere della sera, 3 gennaio 2003; M. Emanuelli, Il suo nome era G. G. Storia del Signor G, Milano 2003; C. Carli, G. G. e il Teatro canzone. Definizione del Teatro canzone ed atti parlamentari, Roma 2003; F. Cuccurullo, Il teatro di G. G., Foggia 2003; G. Curi, Chiedo scusa se parlo di G., Roma 2003; A. Scanzi, C'è tempo: ritratti a scomparsa, Ancona 2003; G. G. Frammenti di un discorso…, a cura di M. Bonavia, Milano 2004; G. Casale, Se ci fosse un uomo. Gli anni affollati del signor G., Roma 2006; A. Pedrinelli, Non fa male credere. La fede laica di G. G., Milano 2006; Dizionario completo della canzone italiana, a cura di E. Deregibus, Firenze 2006; S. Neri, G. La vita, le canzoni, il teatro, Firenze 2007 (con la discografia più completa pubblicata in un’opera a stampa); E. Torre, G. G., l'ultimo Sileno, Firenze 2008; G., l’illogica utopia, a cura di G. Harari, Milano 2010; S. Luporini - R. Luporini, G. Vi racconto Gaber, Milano 2013.
Vari siti internet aggiornano periodicamente la discografia e le iniziative culturali promosse attorno all’opera e alla figura di Gaber. Fra questi si segnalano il sito della Fondazione Giorgio Gaber, nata nel 2006, che prosegue l’attività svolta dall’omonima associazione culturale costituitasi all’indomani della scomparsa dell’artista (www.giorgiogaber.it) e Far finta di essere…Gaber, sito creato nel 1997, che negli anni ha assunto la forma di archivio monografico (www.giorgiogaber.org).