GIUSTINIAN, Giorgio
Primogenito di Leonardo di Lorenzo e di Elisabetta Corner di Giorgio del procuratore Giacomo, nacque a Venezia, nell'avito palazzo a S. Moisè, il 21 nov. 1572. Ricche e prestigiose entrambe le famiglie (la madre apparteneva ai Corner "della Regina"), ritroviamo il giovane G. partecipe degli eventi mondani di Venezia: nel '93 è fra gli accademici riuniti per la recita dell'Almida di Troilo Savorgnan. In seguito la sua vita fu assorbita interamente dalla politica: il G. infatti non si sposò, preferendo lasciare al fratello Girolamo il compito di assicurare la continuità del casato.
Entrò a far parte del Collegio sin dal 1600 (fu savio agli Ordini per il primo semestre) e subito dopo (il 27 agosto dello stesso anno) rifiutò l'elezione - ritenuta evidentemente riduttiva - a camerlengo di Comun. Secondo una nota prassi non scritta, ma puntualmente osservata, del patriziato lagunare, il G. dovette scontare il gesto con un breve periodo di esclusione dalla politica attiva, e quando vi fu riammesso, il 27 sett. 1603, gli venne addossato un incarico fuori dello Stato, quello di ambasciatore presso il duca di Savoia. Tuttavia, nonostante quanto riportato dal Barbaro e dal Priuli, non si recò in Piemonte, né le deliberazioni senatorie forniscono spiegazioni circa la mancata esecuzione della nomina; solo nell'aprile 1606 la Repubblica inviò un nuovo titolare (Pietro Contarini) presso il duca Carlo Emanuele, in considerazione della gravità del momento segnato dalla crisi dei rapporti veneto-pontifici.
Il G. assunse, però, un'altra ambasceria, quella inglese, a cui venne eletto il 18 marzo 1605. Ricevute le commissioni il 6 ottobre, attraverso il Piemonte e la Francia giunse a Londra il 5 genn. 1606, accompagnato dal segretario Pietro Vico.
La congiuntura internazionale era delicata: in Inghilterra re Giacomo era da poco sfuggito alla "congiura delle polveri" organizzata da cattolici, mentre a Venezia gli eventi incalzavano: proprio in quei giorni (gennaio 1606) Paolo Sarpi veniva nominato consultore in iure e sul trono ducale, morto il "papalista" Marino Grimani, saliva l'energico Leonardo Donà, guida morale e politica del partito dei "giovani", considerato irriducibile antagonista della S. Sede, ora guidata da Paolo V Borghese. Il 17 apr. 1606 la Repubblica venne colpita dall'interdetto, che non rimase episodio circoscritto, ma coinvolse molti principi italiani ed europei, sollecitati sin dall'apertura della crisi a schierarsi con una delle parti in causa. Venezia contava molto sull'aiuto della Francia, che però non si mosse, risentendo ancora dei travagli delle guerre di religione; fortunatamente nell'altro campo la Spagna adottò analogo atteggiamento, provata dall'interminabile conflitto con l'Olanda. Chi si schierò, mettendo a disposizione della Serenissima le proprie forze, fu invece l'Inghilterra, i cui mercanti proprio in quegli anni stavano cercando di insediarsi nell'emporio realtino (la posta in palio era costituita dai traffici con il Levante, dove la crisi finanziaria ottomana poneva in discussione i tradizionali equilibri); così, in sintonia con quanto andava operando il rappresentante inglese a Venezia, Henry Wotton, a Londra re Giacomo fu largo di aperture verso la Serenissima.
In un dispaccio dell'11 ott. 1606 il G. informava il Collegio che il sovrano gli aveva rinnovato la "generosa offerta […] di unire, se venirà l'occorrenza in queste presenti controversie col papa, tutti li suoi amici, li suoi consigli et le sue forze terrestre et maritime con la Serenissima Repubblica", aggiungendo "che non essendosi [Venezia] mossa a ciò per alcun interesse proprio, ma per il solo fine del servicio di Dio et della conservatione della libertà dei principi […], rimetteva ancora allo arbitrio di lei il deliberar quando fosse il tempo proprio di pubblicare al mondo questa risolutione sua". Insieme con Inglesi, anche i Turchi offrirono appoggio a Venezia, ma siccome l'una e l'altra potenza erano lontane dal cuore di un eventuale conflitto, l'unica guerra tra la Repubblica e la Santa Sede fu quella "delle scritture", ossia di opposti proclami e proteste volti a conquistare l'opinione pubblica europea, fino a che la diplomazia francese, guidata dal cardinale François de Joyeuse, portò i contendenti al compromesso risolutorio del 21 apr. 1607.
Fra quanti ebbero a rallegrarsene fu anzitutto il G., esponente del partito dei "vecchi", nipote per parte materna di vescovi e cardinali, imparentato con il più accreditato portavoce della fazione filopontificia, il procuratore Giacomo Foscarini, che aveva sposato una sorella di suo padre, Elena. Egli non mancò ovviamente di riferire sulle reiterate profferte inglesi di aiuto alla Serenissima, ma con altrettanto scrupolo e non minor rilievo puntualmente inserì nei dispacci ogni notizia sui provvedimenti che nel paese si prendevano contro i cattolici, senza scostarsi molto dal taglio deprecatorio che aveva informato una delle sue prime lettere: "Si continua tuttavia nel Parlamento a inventare et formare nuove leggi contra la religione cattolica […], che tenderanno tutte alla totale estintione di essa in questo Regno" (10 marzo 1606).
Se egli non poteva prevedere la svolta che una quindicina d'anni più tardi avrebbe impresso alla politica inglese G. Villiers, duca di Buckingham, più grave appare l'incapacità di cogliere la portata di un diverso avvenimento, pur destinato a grande risonanza, di cui fu testimone nel 1606: la nascita della Virginia Company, che fece risalire alla sporadica iniziativa di ex corsari, mentre sembra essergli sfuggita la percezione del nuovo fenomeno di interi nuclei familiari che si spostavano oltre Atlantico. Come ha scritto l'Ambrosini, di "comertio", non di colonizzazione parlava Giustinian: identificando forse con le spezie orientali le "preciose marcantie" che allettavano i fondatori della Compagnia, e [più volte alludendo] alla "copia grande d'oro", alle miniere di metalli preziosi in cui speravano i pionieri". Nel solco della visione mercantilistica veneziana, dunque, non solo le reali conseguenze dell'iniziativa si sottraggono all'ottica del G., ma neppure le nuove strutture della Compagnia sembrano interessarlo. Con ben diverso risalto qualche anno dopo (il 19 ott. 1611), ambasciatore a Parigi, riportò la scoperta dell'esploratore S. de Champlain di "un camino molto breve et sicuro per viaggiare alla China", da cui la Francia avrebbe potuto trarre "molto proffitto et utile": una volta di più è il mitico Cataio la sede indiscussa dei tesori, delle spezie e delle ricchezze.
Il G. lasciò l'Inghilterra il 23 nov. 1608 e giunse a Venezia, attraverso Olanda e Germania, il successivo febbraio; non consegnò la relazione (quantomeno, di essa non vi è traccia), ma il suo segretario compose una descrizione del viaggio che riporta interessanti valutazioni del diplomatico sulle nuove strutture assistenziali e correttive da lui osservate in diverse città olandesi in favore di soldati, vecchi, donne. Il problema era ben noto a un veneziano, il cui porto da sempre conosceva la presenza di emarginati, invalidi o disertori: eppure la sensibilità e la capacità critica dimostrate dal G. lo riscattano almeno in parte dalle precedenti manchevolezze.
Rimpatriato con il titolo di cavaliere, fu savio di Terraferma per il secondo semestre del 1609, poi subito eletto (6 marzo 1610) ambasciatore in Francia. Subentrava ad Antonio Foscarini, lo sventurato diplomatico che militava allora nel "partito" opposto al suo, ossia tra i filoprotestanti; quale giudizio facessero costoro del G. si ricava dalla penna del Sarpi, che così scriveva a Francesco Castrino il 16 marzo 1610: "L'ambasciatore nuovo per costì è uomo di molta capacità, prudente e savio, ma papista; e non già per ignoranza, ma per elezione: onde merita tanto più esser guardato". Diversi mesi più tardi, il 30 ag. 1611, quando il G. aveva assunto la pienezza delle funzioni, il concetto fu ribadito dal Sarpi a Groslot de l'Isle: "Abbiamo in Parigi un ambasciator che cerca di estenuar quanto può e metter in cattivo credito le cose de' reformati, e questo acciocché i buoni qui non piglino animo, ed aggrandisce le cose de' papisti" (esemplare, a questo proposito, sarebbe stato l'elogio delle scuole tenute a Parigi dai gesuiti, stilato dal G. nel dispaccio del 28 dicembre dello stesso 1611: si badi, quattro anni dopo l'espulsione della Compagnia dai domini della Serenissima).
In questa temperie, accompagnato da odi e amori, il G. aveva intrapreso la sua legazione sebbene con qualche ritardo: l'assassinio di Enrico IV (14 maggio 1610) comportò infatti il rinvio del suo ingresso a corte per lasciare spazio all'ambasceria straordinaria di Andrea Gussoni e Agostino Nani, sicché egli assunse l'incarico solo il 9 maggio 1611, pur trovandosi a Parigi già da due mesi. La tragica morte del re di Francia, benché dolorosa alla Repubblica, che riconosceva in lui il campione dell'opposizione alla Spagna, di fatto non fu sopportata troppo male a Venezia: ne fa fede lo stesso tenore dei dispacci del G., dai quali trapela il desiderio di rassicurare il Senato sulla continuità della politica francese e sulle speranze che suscitava il giovane successore: "Cresce la Maestà sua - scriveva il 18 maggio 1611 - e si fa grande; viene con esquisita disciplina educato, ed in tutte le azioni scopresi ogni dì più la vivacità e lo spirito del padre"; in realtà la situazione venutasi a creare dopo l'attentato del Ravaillac aveva finito per far emergere nei governi europei una comune inclinazione alla pace: all'inizio del 1611 Venezia poteva registrare con sollievo il disarmo delle truppe spagnole in Lombardia. Sennonché ora sembrava addirittura prospettarsi l'eventualità di un rovesciamento delle alleanze, con un'intesa tra Parigi e Madrid sancita dal duplice matrimonio tra il giovane Luigi XIII e l'infanta Anna, figlia maggiore di Filippo III, mentre il futuro Filippo IV avrebbe sposato Elisabetta, sorella del re di Francia. Le trattative, lunghe e complesse, furono attentamente seguite dal G., timoroso di possibili riflessi negativi per la situazione italiana, come risulta da un dispaccio del 24 genn. 1612: "È nato sospetto che tra le condizioni di questi matrimoni ve ne sia una di lega et unione non solo tra le due Corone, ma anco col pontefice e granduca, il più apparente fine della quale per la parte della Spagna credono sia di levar agli Stati la protezione della Francia per rinnovar qui la guerra con loro, colla speranza di soggiogarli". Il tempo, però, avrebbe fatto decantare la situazione, e il 30 ottobre il G. inviava al Senato le clausole del duplice contratto matrimoniale accompagnandole con termini rassicuranti; non dalla corte sabauda o medicea o pontificia si sarebbe attentato agli equilibri della penisola, mentre altri e più pressanti focolai di tensione andavano manifestandosi nella Valtellina e, cosa che più direttamente toccava la Repubblica, nell'Adriatico, dove la pressione uscocca pareva ormai incontrollabile, specie dopo il fallimento del convegno di Linz dell'agosto 1613, che aveva evidenziato la distanza delle posizioni veneziana e arciducale.
Fu probabilmente per il concatenarsi degli eventi, per l'abilità sino allora dimostrata da lui e soprattutto per l'utilità di avere in quel momento presso la corte di Vienna un inviato dai noti sentimenti filogesuitici, che poche settimane dopo il suo congedo dal re di Francia (4 dic. 1613) il G. fu eletto ambasciatore presso l'imperatore Mattia (11 genn. 1614).
Non tornò a Venezia: con inusitata celerità le commissioni gli furono fatte pervenire il 29 genn. 1614 e due giorni dopo spediva il suo primo dispaccio da Augusta, donde si recò a Linz per essere ricevuto dall'imperatore in udienza privata, insieme con il predecessore Girolamo Soranzo, il 17 marzo 1614. Il problema che urgeva (specie dopo l'efferato eccidio del sopracomito Venier e del suo equipaggio) era costituito dai pirati uscocchi, formalmente sudditi dell'arciduca Ferdinando; donde un ambiguo gioco di sotterfugi e scarico di responsabilità tra quest'ultimo e il cugino imperatore, entrambi, in realtà, disposti a giocare quei feroci predoni in funzione antiveneziana: la vera posta in palio era rappresentata dalla sovranità sull'Adriatico. Già un anno prima dello scoppio della cosiddetta guerra di Gradisca il G. poteva constatare il fallimento delle risorse diplomatiche; così infatti riferiva l'udienza accordatagli dall'imperatore il 3 ott. 1614, nella quale quest'ultimo lo aveva informato "di certi danni fatti nuovamente da Uschochi ai sudditi della Repubblica, de' quali l'Altezza Serenissima [Ferdinando] ne haveva sentito molto disgusto, et che essendo tutti contrarij alla sua volontà, era risoluta punir severamente i delinquenti et haveva spedito subito commissarij con ordini tali che senz'altro si sarìa veduto essemplar castigo, che stante ciò pregava la Maestà Sua voler col mio mezzo operar con la Republica, che non procedesse di fatto alla vendetta dei detti danni, perché ciò sarìa un far patir gl'innocenti, dove esso prometeva dar ai colpevoli il meritato castigo". Il G. aveva risposto in termini decisi, rammentando che le "insolenze et temerità loro [degli Uscocchi] erano homai gionte a segno così insopportabile che la Republica mancheria troppo alla propria dignità et all'obbligo impostole dal Sig. Dio, se trascurasse di risentirsene"; sicché, aveva concluso, "gl'andai togliendo ogni speranza che la M.S. potesse in ciò restar compiaciuta".
Gli eventi precipitarono sino alla guerra, al termine della quale venne un altro e più vasto conflitto, quello dei Trent'anni (1618), dal quale però Venezia riuscì a tenersi fuori, sebbene non mancassero tentativi di coinvolgerla: il più efficace fu posto in atto dai ribelli boemi - come riferiva al Consiglio dei dieci il G., in data 17 nov. 1618 - tramite un mercante italiano che diceva di agire per conto del "conte della Torre [Heinrich Mathias Thurn], general dei Stati boemi", la cui armata comprendeva "tutti i prìncipi dell'Unione dentro et fuori d'Alemagna" che combattevano il filospagnolo Ferdinando.
Nei suoi ultimi dispacci (lasciò la capitale asburgica al principio di novembre 1619) il G. presentò un quadro disastroso delle condizioni dell'Austria, con molte province perdute e altre sul punto di sollevarsi, mentre il neoeletto imperatore Ferdinando II d'Asburgo, stretto a Vienna dai Boemi e dagli Ungheresi, si dibatteva fra durissime angustie finanziarie. Neppure di questa lunga ambasceria possediamo la relazione. Forse neppure stavolta il G. ebbe il tempo di stenderla, poiché dovette presto assumere un altro non meno importante incarico: il bailato a Costantinopoli, pure destinato a protrarsi ben oltre i termini usuali. Egli aveva già accusato problemi di salute (a Vienna l'aveva a lungo sostituito il segretario Antonio Padavino), e durante l'assenza gli era stata riservata la carica di consigliere ducale (nella circostanza aveva eletto per residenza il sestiere di S. Croce, benché dimorasse a S. Marco); ma evidentemente i larghi emolumenti connessi al bailato, resi urgenti dai dispendi sostenuti nel corso di tre legazioni, ebbero la meglio su ogni altra considerazione. Così, dopo pochi mesi trascorsi in patria, il G. si imbarcava alla volta del Bosforo.
Fu assente da Venezia per oltre sette anni: il primo suo dispaccio è datato 10 maggio 1620, l'ultimo 4 luglio 1627. La missione fu più agevole della precedente dal punto di vista politico, considerati i buoni rapporti allora esistenti tra la Repubblica e la Porta, ma ben più defatigante sotto l'aspetto diplomatico a causa delle continue turbolenze e intrighi nella corte ottomana: nella relazione finale il G. ricorda - oltre alla cruenta deposizione del sultano Osman II - il frenetico alternarsi dei ministri che l'aveva costretto ad autentici funambolismi: "perché essendo nel corso del mio bailaggio per le continue sollevationi delle militie et sovversione di tutte le cose, seguite frequentissime mutationi de' primi visiri, che nel spatio di sette anni diciassette se ne son fatti […], quando mi trovavo haver fatto acquisto della sua volontà, resolo informato dei negotii et ben disposto, veniva deposto […], et assuntone un nuovo, per il più di genio et pensieri contrari all'altro, nova et dupplicata industria mi voleva per ben disporlo, et non sì tosto fattolo altro succedeva in suo luoco con una perpetua fluttuatione di governo, et di me medesimo in addattarmi per servitio della Serenità Vostra a nature e cervelli tanto vari d'affetti et di massime repugnanti, se ben tutti nella superbia, avaritia et ignoranza molto conformi".
Frammezzo a tanto disordine e instabilità un punto di equilibrio sembrava tuttavia rappresentato dall'ascesa al trono del nuovo sultano Murād IV, di cui nella lunga, dettagliata e penetrante relazione (forse una delle più belle pervenutaci sull'Impero ottomano) il G. traccia un lusinghiero ritratto, come giovane "dotato dalla natura di preclare dotti della persona ben fatta et disposta, di faccia così venusta et gentile che non rappresenta punto l'effigie delli imperatori otthomani suoi progenitori, nel volto dei quali vi regnava l'orgoglio et il rigor, dove in lui negl'occhi et nell'aspetto riluce una dolcezza et benignità grande, con la quale […] s'affettiona sommamente gl'animi d'ogn'uno memori dell'orgoglio d'Osman et della stupidità di Mustafà. A questi eccellenti doni del corpo corrispondono […] quelli dell'animo, inclinato più alla clemenza et mansuetudine che alla severità […]; si dimostra particolarmente lontano dall'orgoglio, pertinacia, avaritia et altri vitii".
Rimpatriato alla fine di luglio del 1627, il 1° ottobre assumeva finalmente la carica di consigliere ducale, alla quale era stato eletto ben undici anni prima, dopo di che (11 nov. 1628) fu tra gli inquisitori sui processi formati a Candia, magistratura eccezionale e temporanea.
Ma il G. era ormai un uomo finito: il 4 febbr. 1629 morì nel suo palazzo sul Canal Grande, lasciando i nipoti eredi di ingenti ricchezze. Come discendente di s. Lorenzo Giustiniani, fu sepolto nella chiesa patriarcale di S. Pietro di Castello.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Stor. ven. 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, VII, p. 454; Segretario alle voci, Elez. delMaggior Consiglio, regg. 8, c. 19; 11, cc. 3, 175, 208; 12, cc. 1, 175; 14, c. 3; Ibid., Elezioni deiPregadi, regg. 6, c. 21; 7, cc. 71, 131; 8, cc. 12, 13, 70, 131; 9, cc. 12, 68; 12, c. 144; Senato, Dispacci Inghilterra, filze IV-VII; Senato, DispacciFrancia, filze 42-45; Senato, Dispacci Costantinopoli, filze 89-104; Capi del Consiglio deidieci, Lettere di ambasciatori, bb. 7, nn. 129-150; 11, nn. 208-216; 13, nn. 230-239; Senato, Dispacci Germania, filze 47-58; Notarile, Testamenti, b. 56/240; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, cc. 74r-75r. Il Viaggio per Francia, Fiandra, Germania fatto dall'ecc.mo… Zorzi Zustignan nel ritorno a Venetia dalla ambasceria ordinaria inInghilterra. 1608, si trova in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 214 (= 8163), cc. 192-215; una lettera del G. (Zara, 19 luglio 1627) a Francesco Grimani provveditore della cavalleria in Dalmazia è Ibid., Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P.D., Misc.Correr 2655; Calendar of State papers… relating to English affairs existingin the archives… of Venice, X-XII, a cura di H.F. Brown, London 1900-05, ad ind.; XIII-XX, a cura di A.B. Hinds, London 1907-14, ad ind.; P. Sarpi, Lettere aiprotestanti, a cura di M.D. Busnelli, I-II, Bari 1931, ad ind.; un breve compendio dei dispacci dell'ambasceria francese è in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, VI, Francia (1600-1656), a cura di L. Firpo, Torino 1975, pp. 9-17; I "documenti turchi" dell'Archivio di Stato di Venezia, a cura di M.L. Pedani-Fabris, Roma 1994, pp. 335, 340 s., 354, 357, 361, 364 ss.; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, XIV, Costantinopoli. Relazioni inedite (1512-1789), a cura di M.L. Pedani-Fabris, Padova 1996, pp. 527-633. Cfr. inoltre: E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, p. 93; Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatoriveneziani nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 3, Italia, I, Torino, Venezia 1862, pp. 1, 8 (sulla mancata ambasceria in Savoia); G. Bühring, I ribelli boemie la Repubblica di Venezia, in Archivio veneto, XXV (1883), pp. 146 s.; B. Cipolla, Venezia e la guerradei Trent'anni, in Riv. stor. italiana, IV (1887), pp. 277 ss.; F. Seneca, La politica veneziana dopol'interdetto, Padova 1957, pp. 12, 56-60, 74, 83, 144; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 134; Relazioni di ambasciatori venetial Senato, I, Inghilterra, a cura di L. Firpo, Torino 1965, p. XIX; II, Germania (1506-1554), ibid. 1970, pp. XLII-XLIII; V, Francia (1492-1600), ibid. 1978, p. XXII; F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana(secoliXVI-XVIII), Venezia 1982, pp. 206 ss., 216, 236, 271 s.; A. Bin, La Repubblica di Venezia e la questioneadriatica. 1600-1620, Roma 1992, p. 111; G. Scarabello, Strutture di assistenza e correzione nelle relazioni degli ambasciatori veneziani daiSignori Stati di Olanda, in Studi veneti offerti a GaetanoCozzi, Venezia 1992, pp. 239 ss.; B. Ulianich, I gesuiti e la Compagnia di Gesù nelle opere e nel pensierodi Paolo Sarpi, in I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di M. Zanardi, Padova 1994, p. 255; Diz. biografico degli Italiani, XXII, p. 218; XLIX, p. 363.