RIOLI, Giorgio
RIOLI, Giorgio (Giorgio Siculo). – Nacque a San Pietro in Clarenza, sulle pendici dell’Etna presso Catania, da genitori il cui nome rimane ignoto. Una stima della data di nascita è permessa dalla notizia della sua professione nel monastero benedettino di S. Nicolò l’Arena il 24 febbraio 1534 (Bossi, 1983, p. 522). Il monastero catanese aveva aderito alla Congregazione cassinese, la riforma dell’Ordine benedettino partita dall’abbazia di S. Giustina a Padova e mirante a garantire ai monaci una maggiore mobilità e disponibilità di tempo per lo studio dei Padri della Chiesa. Visto che la Congregazione cassinese vietava l’ingresso ai minori di sedici anni, la nascita di Rioli dovette avvenire intorno al 1517 (Prosperi, 2000, p. 24).
La sistematica distruzione della memoria del profeta, visionario ed eresiarca Giorgio Rioli, detto il Siculo da parte delle autorità sia cattoliche sia protestanti rende difficile verificare financo i suoi dati biografici minimi.
Sugli anni trascorsi in Sicilia le conoscenze sono scarse. Uno dei pochissimi dati certi è che a San Nicolò l’Arena conobbe il confratello Benedetto Fontanini da Mantova, che proprio nel cenobio siciliano completò, nel 1537, la prima stesura del Beneficio di Cristo.
Rivisto dall’umanista Marcantonio Flaminio (il cui ruolo nella versione finale è ancora oggetto di disputa), il Beneficio, pubblicato anonimo a Venezia nel 1543, divenne il libro più diffuso tra gli eterodossi italiani. Su una serie di imprestiti da opere dei riformatori, soprattutto dall’Institutio Christianae Religionis di Calvino, il libretto innestava una visione della salvezza lontana dal pessimismo antropologico della teologia riformata e debitrice invece dell’Umanesimo erasmiano, della mai spenta memoria di Girolamo Savonarola, del misticismo benedettino e dello spiritualismo radicale del teologo spagnolo di origine ebraica Juan de Valdés. Tale impasto di influenze diverse, che intendeva percorrere una via libera da polemiche e controversie contro la Chiesa di Roma e volta invece a esaltare il valore salvifico del sacrificio di Cristo morto per tutti, si rivelò una miscela esplosiva. Il Beneficio divenne così il libro più ricercato sia da chi voleva una riunione con i protestanti, sia di conseguenza dagli inquisitori e da chi intendeva chiudere ogni porta ai ‘novatori’. Pur nell’impossibilità di ridurre la complessità del Beneficio a una sola tradizione religiosa, le sue tematiche erano più ampiamente condivise all’interno dell’Ordine benedettino, non solo da quel Benedetto Fontanini che fu autore della prima versione dell’opera e divenne uno dei più fedeli seguaci del Siculo, ma anche da altri suoi confratelli, come l’abate di S. Giorgio Maggiore e poi cardinale Gregorio Cortese e Isidoro Cucchi da Chiari (Clario), il quale nel 1540 compose un’Adhortatio ad concordiam per ricucire lo strappo con i protestanti, e da vescovo di Foligno avrebbe infarcito di passi tratti dalle opere del Siculo i quattro volumi delle sue prediche a stampa, uscite a Venezia tra il 1565 e il 1567.
Rioli, lasciata la Sicilia, si recò nel 1543 in uno dei più prestigiosi cenobi benedettini della penisola, San Benedetto Po. Lì riuscì a radunare intorno a sé un primo nucleo di seguaci – tra cui proprio Fontanini – e venne incaricato dall’abate di Pomposa, Luciano degli Ottoni, di redigere un parere sul tema allora più dibattuto tra cattolici e protestanti, quello della giustificazione. Il Siculo, «ignorantissimo de lettere humane» (Rotondò, 1962, p. 153), aveva composto un testo in volgare che poi era stato tradotto in latino dallo stesso Ottoni per essere recitato al Concilio di Trento, dove i rappresentanti dei cassinesi – tra cui proprio l’abate di Pomposa, il cui intervento sul tema era stato da molti giudicato eretico – intendevano invitare Filippo Melantone.
Il De iustificatione (la cui unica copia manoscritta – non essendo pervenuta la stampa uscita postuma per le cure dei suoi confratelli dell’abbazia bresciana di S. Faustino – è conservata alla Bibliothèque municipale di Besançon) era dedicato non a caso al cardinale Cristoforo Madruzzo, prelato di parte imperiale e quindi favorevole alla conciliazione con i luterani e principe vescovo della città in cui si teneva l’assise conciliare. Tale volontà di dialogo con i protestanti non si manifestava solo nella scelta del dedicatario e nelle circostanze che avevano sollecitato l’opera, ma anche nel suo contenuto che, pur distanziandosi dall’interpretazione luterana nel sottolineare l’importanza del libero arbitrio umano per la salvezza, aveva un tono conciliante e soprattutto era interamente basato su citazioni scritturali. Già nel De iustificatione compariva però quello che sarebbe divenuto il tratto più caratteristico della predicazione del Siculo: la conciliazione con i protestanti doveva avvenire sì al concilio, ma in virtù della speciale rivelazione profetica che lo stesso Siculo aveva ricevuto direttamente da Cristo. Tali attese profetiche andarono però ben presto deluse: il decreto tridentino sulla giustificazione confermò la permanenza della corruzione della natura umana anche a seguito del sacrificio salvifico di Cristo e la necessità delle opere per la salvezza, sconfessando dunque tanto la tesi protestante quanto quella del Siculo, secondo il quale esisteva un’elezione universale alla salvezza da cui l’uomo poteva decadere solo per propria libera scelta.
Se il decreto sulla giustificazione e lo spostamento delle sedute conciliari da Trento a Bologna vanificarono le attese maturate intorno al Siculo, egli rimase comunque nei dintorni di Trento, a Riva del Garda, ai cui cittadini indirizzò la sua prima opera a stampa, l’Epistola alli cittadini di Riva di Trento (Bologna, A. Giaccarello, 1550). Ancora una volta erano le circostanze concrete a muovere la penna del Siculo. Nel dicembre del 1548 era morto a Cittadella il giurista Francesco Spiera: convertitosi al calvinismo, Spiera aveva abiurato ed era perciò morto dalla disperazione di non essere nel numero degli eletti e di aver commesso, con la sua apostasia, l’irredimibile peccato contro lo Spirito Santo. Intorno al caso Spiera si sviluppò un dibattito europeo: i cattolici accusarono i protestanti di lasciare la coscienza dell’uomo nuda e sola davanti al giudizio divino, mentre questi ultimi colsero l’occasione per esortare i filoprotestanti italiani ad avere il coraggio che era mancato a Spiera e a fuggire dal giogo papistico.
In un contesto così polarizzato l’Epistola sosteneva un punto di vista originale e alternativo ai due schieramenti: benché si rivolgesse fin dal titolo «contra il mendatio di Francesco Spiera et falsa dottrina di protestanti», superando così la censura preventiva del teologo domenicano Reginaldo de’ Nerli, l’Epistola non abbracciava le tesi cattoliche, ma si configurava come un invito esplicito alla simulazione religiosa in tempi di persecuzione e all’attesa di un annuncio profetico che avrebbe appianato tutte le divergenze religiose. Cristo era infatti apparso all’autore «una sera a hora di compieta» e gli aveva «aperto il petto e dentro si vedeva tutti i dubbi della scrittura sacra» che lui avrebbe dovuto spiegare recandosi a Trento «al concilio a parlare al Card. Polo d’Inghilterra» (cit. in Prosperi, 2000, p. 194). Il cardinale inglese Reginald Pole, prelato di parte imperiale, protettore dei cassinesi e capo del partito degli ‘spirituali’, era forse quel «personazo di respeto» su richiesta del quale il Siculo, secondo le deposizioni dell’anabattista pentito Girolamo Allegretti, aveva composto l’Epistola (p. 203).
Nello stesso anno e per lo stesso stampatore dell’Epistola, il Siculo pubblicò poi un’Espositione […] nel nono, decimo, et undecimo capo della epistola di san Paolo alli romani, interamente modellata sui passi scritturali centrali nell’esegesi luterana e dedicata a un «don Alfonso», che andrà forse identificato in Alfonso Zorrilla, segretario dell’inviato di Carlo V al concilio Diego Hurtado de Mendoza (p. 160). Il messaggio nicodemitico affidato dal Siculo a queste due opere parlava sia ai cattolici sia ai protestanti invitandoli a superare la frattura religiosa in nome di una rivelazione profetica trasmessagli da Cristo in persona. Gli ambiziosi piani del Siculo si sgretolarono rapidamente di fronte all’irrigidimento del clima politico-religioso europeo intorno alla metà del secolo, quando al conclave del 1549 la candidatura di Pole venne fermata dai dossier inquisitoriali raccolti dal cardinale Gian Pietro Carafa, e con essa naufragò la speranza, condivisa dal Siculo e da molti altri, di vedere in lui un «papa angelico» che restaurasse la concordia nella Chiesa.
Da quel momento iniziò contro di lui una vera e propria caccia all’uomo, orchestrata tanto dai cattolici quanto dai protestanti. Non a caso – come intuì il primo studioso a riscoprirne la figura e a metterne in luce l’irriducibilità a entrambi gli schieramenti confessionali in formazione (Cantimori, 1992) – lo stesso Calvino scrisse contro di lui nel De aeterna Dei praedestinatione del 1552. L’ex agostiniano Giulio da Milano nell’Esortatione al martirio (1552), dedicata alla duchessa di Ferrara Renata di Francia, diffidava gli evangelici italiani dal seguire gli ammaestramenti del «satanico Giorgio Siculo». L’ex vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, una volta divenuto uno dei polemisti di punta del mondo protestante, gli riversò contro strali ancora più insidiosi. In un libretto stampato nel 1550 e indirizzato «a quegli venerabili padri dominicani che difendono il rosario per cosa buona», dietro la cortina fumogena dell’attacco alla devozione mariana, Vergerio denunciava ai domenicani, l’Ordine religioso a cui era affidata l’Inquisizione, il pericolo insito, tanto per i cattolici quanto per i protestanti, nell’eresia di Giorgio Siculo.
«Egli sarà trattato da ribelle da tutt’e due le parti, insieme evangelica e papistica» – profetizzava Vergerio – dato che la sua professione di appartenenza alla Chiesa era una semplice manovra tattica, mentre il nucleo riposto della sua dottrina era del tutto incompatibile con entrambi gli schieramenti confessionali. «Se egli conosce che il papato è così fatto et che in esso gli errori vi sono – si chiedeva Vergerio – perché attende egli a stabelirsi con l’essempio che ne dà a’ semplici et stampandone libri in defensione, et fra tanto tiene occolto un suo pensiero di voler a certo tempo fare il contrario et di darli addosso?» e concludeva facendo i nomi dei suoi seguaci: «li don Luciani et li don Benedetti et gl’altri che lo inalzano et quasi l’adorano», fornendo così agli inquisitori motivi e indizi per scatenare la caccia contro il Siculo e i suoi seguaci (cit. in Prosperi, 2000, p. 213).
Vergerio era ben informato: Siculo, infatti, dietro la polemica antiprotestante e le dichiarazioni di conformità al cattolicesimo, rivelava ai suoi seguaci più stretti «un nucleo dottrinale che portava decisamente a una fuoriuscita dal cristianesimo storico» (p. 376). Tali insegnamenti erano contenuti nella sua opera più radicale: Della verità cristiana e dottrina apostolica rivelata dal nostro signor Giesù Cristo al servo suo Georgio Siculo della Terra di San Pietro o, come lo chiamavano i suoi seguaci, il Libro maggiore o Libro grande. Circolante in volgare in forma manoscritta, tradotto in latino da Luciano degli Ottoni e stampato anonimo e con accrescimenti – da cui forse il nome – prima del 1566 dai monaci bresciani di S. Faustino, del Libro grande e delle dottrine in esso contenute possiamo farci un’idea dalla sentenza ai danni del suo autore: «Negava costui tutti gli sacramenti della chiesa, la libertà della chiesa et più diceva l’anima nostra non esser creata da Iddio ma dagli huomini insieme col corpo. Diceva non esservi né inferno né purgatorio ma l’anima nostra andar volando per aria sino al giorno del giudizio et quando serà in gratia più non potere peccare et quando serà peccato più non poter ritornar in gratia, negava costui la trinità et molte altre cose et tutti gli miracoli dil sacramento esser fatti per opera dil diavolo», (p. 232). Il tutto era poi condito da attese di palingenesi non solo religiosa, ma anche sociale: «aspettare la giustitia et spirito di sanctificatione in terra, sicome Giorgio havea detto dover venire» (costituto inquisitoriale di Nascimbene Nascimbeni, p. 276).
Di fronte a capi d’accusa di tale entità, non stupisce che l’invito di Vergerio all’Inquisizione affinché «questa, accorgendosi un giorno ch’egli sia vario et duplice, lo caccierà in una prigione» fosse presto accolto, fornendo il canovaccio per la collaborazione tra giudici di fede cattolici e protestanti che di lì a pochi anni doveva portare alla condanna a morte del medico e umanista spagnolo Michele Serveto.
Nel settembre del 1550 il Siculo era a Ferrara, dove fu arrestato e processato. Nonostante avesse dismesso l’abito benedettino, secondo un privilegio del suo Ordine l’inchiesta fu svolta in parallelo dall’Inquisizione di Ferrara (gli atti del processo vennero inviati a Roma e andarono al macero all’inizio dell’Ottocento) e dall’abate di S. Faustino a Brescia, Girolamo Scroguerro. Tra gli imputati ci furono anche i tre principali seguaci del Siculo: il suo protettore e traduttore Luciano degli Ottoni, Benedetto Fontanini (nella cui stanza a San Benedetto Po venne ritrovata una copia del Libro grande) e l’umanista ferrarese Nascimbene Nascimbeni. Mentre i privilegi monastici garantirono ai primi due una punizione relativamente mite – furono privati di ogni dignità all’interno dell’Ordine e confinati nel monastero benedettino di Campese, nei pressi di Bassano – Nascimbeni fu coinvolto in vicissitudini inquisitoriali che si conclusero solo nel 1577, quando venne scarcerato per motivi di salute.
La sorte del Siculo prese una brutta piega quando le indagini furono affidate non all’inquisitore di Ferrara Girolamo Papino, uomo di fiducia del duca estense e non avverso alle dottrine dell’ex benedettino, ma al «reverendo fra Mihiel già inquisitore», ovvero Michele Ghislieri, futuro inquisitore generale e poi papa Pio V. Siculo fu dichiarato colpevole di eresia e, contrariamente al nicodemismo predicato nelle sue opere, non volle abiurare e anzi approfittò dell’occasione pubblica per un estremo atto di proselitismo.
Consegnato al braccio secolare, fu giustiziato per strangolamento a Ferrara la notte del 23 maggio 1551, senza spettatori né confortatori.
Dopo la morte dell’eresiarca, la «setta georgiana» continuò a sopravvivere in modo sotterraneo. Tra Brescia e Venezia l’eredità del Siculo rimaneva ben viva nella persona di un suo confratello, Basilio da Brescia, che nel 1558 circolava per Venezia in abiti borghesi e con il nome secolare di Ercole Cattaneo, mostrandosi «consentiente di detta dottrina», ma deciso di «andar fuori di questa terra mostrando d’haver paura per questa scoperta già fatta di noi altri» (Prosperi, 2000, p. 249). Questo seguace del Siculo va probabilmente identificato nel benedettino Basilio Millanio o Milani da Salò (Biasiori, 2012). Lo confermano le somiglianze tra le opere note del Siculo e due operette che Millanio pubblicò a Basilea presso Giovanni Oporino, l’Ad eos qui iniuria de natura queruntur (1545), un atto d’accusa contro il predestinazionismo protestante aperto a sbocchi radicali sul libero arbitrio e la teoria dei sacramenti, e il De Christi Iesu Passione (1549), un testo apparentemente devozionale, ma in realtà attento a superare la divisione confessionale in nome della fede nel sacrificio di Cristo. Le opere di Millanio, nate nello stesso contesto di quelle del Siculo e a esse così simili, miravano forse a impiantarne la dottrina nell’Europa riformata, come dimostra la sede in cui vennero pubblicate, estendendo a un livello più ampio la sottile strategia propagandistica attuata dal confratello con i filoprotestanti italiani. Come che sia, tali sbandamenti dottrinali – nel 1552 Millanio aveva pubblicato anche i Carmina di Marcantonio Flaminio – rientrarono però ben presto nei ranghi dell’ortodossia e, negli stessi mesi in cui veniva sorpreso per Venezia «vestito alla spagnola con una cappa di panno cottonato», egli dedicava l’edizione degli Scholia in Apocalypsin dell’esegeta del terzo secolo Vittorino da Pettau a Girolamo Scroguerro, il commissario che nel frattempo stava organizzando la resa dei conti interna all’Ordine contro le frange compromesse con la predicazione del Siculo. Gli Scholia, usciti per Giaccarello (lo stesso editore del Siculo) e con una prefazione piena di professioni di pentimento e di umiltà, furono il tributo che Millanio dovette pagare perché il suo nome non venisse coinvolto nella capillare repressione dei seguaci del Siculo. Sempre nel 1558, infatti, gli inquisitori si interessarono del monaco bresciano don Stefano, che continuava a tenere viva la memoria del Siculo (di cui si considerava l’erede) e ambiva a portarne il messaggio tra i turchi «nella Morea» (Ginzburg, 1966, p. 205). Nonostante le dimensioni non fossero ormai più quelle di un movimento ma di una setta, il gruppo non rinunciava a una strategia di un certo respiro, se è vero che stampava le opere principali del Siculo, tra cui il De iustificatione e lo stesso Libro grande.
Quando nel 1567 salì al soglio pontificio quel Michele Ghislieri già responsabile da semplice inquisitore del processo ai danni del Siculo, i ‘giorgiani’ furono vittime di un’ondata repressiva senza precedenti, guidata di concerto dagli inquisitori di Ferrara e Bologna, con l’aiuto del cardinale Carlo Borromeo e con la regia del pontefice stesso. Decisivi per smascherare la setta furono i processi contro il benedettino Antonio da Bozzolo, Nascimbeni e il medico ferrarese Francesco Severi, detto l’Argenta. Quest’ultimo fu prima condannato al carcere perpetuo. In seguito, grazie ad alcune suppliche, la sua pena fu diminuita ed egli potè continuare a esercitare la sua professione di medico ducale. A seguito di indagini scaturite da un memoriale inviato a Pio V per lamentarsi del trattamento ricevuto, gli inquisitori vennero a sapere che Severi aveva abiurato anni prima nelle mani dell’inquisitore ferrarese Girolamo Papino. In quanto relapso, andava dunque consegnato al braccio secolare, che eseguì la sentenza capitale il 7 settembre 1570.
Contestualmente proseguivano le indagini interne alla Congregazione cassinese, che venne severamente epurata: il presidente Andrea Pampurio da Asola fu deposto e gli antichi seguaci del Siculo stanati uno per uno. Le indagini portarono alla luce un ambiente culturalmente e socialmente composito: non solo decine di monaci benedettini (la maggior parte dei quali se la cavò con la reclusione, salvo un Bonifacio da Brescia che si uccise in carcere), ma anche membri di altri ordini (il carmelitano Livio Merlino), studenti del Collegio degli spagnoli di Bologna, laici (alcuni dei quali, come Pietro Giudici, Severi, Tommaso Scurta e Giovanni Paiano, pagarono con la vita il fatto di essere stati discepoli del Siculo), aristocratici come il mantovano Ludovico Fiera, che dovette fuggire in Polonia, una donna (Adriana Della Dia, morta in tempo per evitare il processo, a differenza del fratello Giovanni, prete di Formignana, consegnato al braccio secolare nel 1568) e infine un vescovo, come il benedettino Cristoforo Calvini, raggiunto da una visita apostolica nel 1573 nella sua sede episcopale di Dubrovnik. Anche a lui la morte naturale risparmiò una convocazione a Roma per rendere ragione dei suoi rapporti con il Siculo, la cui memoria, prima della riscoperta storiografica novecentesca a opera di Delio Cantimori e dei suoi allievi, poté ormai viaggiare solo attraverso un suo discepolo spirituale come Francesco Pucci, il quale, prima di venire anch’egli giustiziato dall’Inquisizione, ricordò il monaco siciliano nella Forma d’una republica catholica (1581) e nel De Christi servatoris efficacitate (1592).
Opere. Delle opere del Siculo possediamo solo il manoscritto De iustificatione e le stampe dell’Epistola e dell’Espositione, mentre introvabili risultano una lettera al duca di Ferrara e un’altra a un certo fra Tommaso da Genova, uno scritto intitolato Interim e dedicato alla simulazione religiosa e un trattato sulla Trinità (l’elenco delle sue opere, ricavabile dalle deposizioni processuali dei suoi adepti, è in Prosperi, 2000, p. 273). Nemmeno la sua opera maggiore, il Libro grande, sembra essere sopravvissuta alla caccia che ne fecero gli inquisitori. Scomparsa già all’inizio degli anni Cinquanta dopo il processo ferrarese ai danni del Siculo, una copia fu ritrovata proprio a Ferrara una decina di anni dopo, quando gli inquisitori riaprirono la caccia alla «setta georgiana» (p. 252). Ancora negli anni Sessanta del Cinquecento il biblista spagnolo Benito Arias Montano poteva leggerne con approvazione all’amico e collega Luis de León alcuni passi riguardanti eucaristia e confessione, ma da quel momento le tracce dell’opera maggiore del Siculo si perdono. Un indizio invita però a proseguire la ricerca: nella seconda edizione del catalogo compilato dal libraio londinese Robert Martin a seguito di un viaggio in Italia figurava una copia manoscritta del Libro grande (Catalogus librorum tam impressorum quam manuscriptorum, quos ex Roma, Venetiis, aliisque Italiæ locis selegit Robertus Martine bibliopola Londinensis, Londra 1635, p. 76, e si ritrova anche nell’aggiornamento del catalogo nel 1640). Come nel caso del Beneficio di Cristo, ritrovato solo nell’Ottocento nella Biblioteca del Saint John’s College di Cambridge, è perciò probabile che, se ancora esiste, la copia superstite della più ricercata tra le opere del Siculo giaccia nascosta in qualche collezione inglese di manoscritti.
Fonti e Bibl.: A. Rotondò, Per la storia dell’eresia a Bologna nel secolo XVI, in Rinascimento, XIII (1962), p. 153; C. Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, in Rivista storica italiana, LXXVIII (1966), pp. 185-227; A. Prosperi, Una cripto-ristampa dell’‘Epistola’ di Giorgio Siculo, in Bollettino della Società di studi valdesi, CXXXIV (1973), pp. 52-68; A. Bossi, Matricula monachorum Congregationis Casinensis ordinis sancti Benedicti, a cura di L. Novelli - G. Spinelli, I, 1409-1699, Cesena 1983, p. 522; B. Collett, Italian Benedictine scholars and the Reformation. The congregation of Santa Giustina of Padua, Oxford 1986, ad ind.; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino 1992, ad ind.; M. Firpo, Il «Beneficio di Christo» e il concilio di Trento (1542-1546), in Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXI (1995), pp. 45-72; A. Prosperi, L’eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, ad ind.; M. Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia nel Cinquecento, Firenze 2003, ad ind.; V. Lavenia, Giorgio Siculo, in Fratelli d’Italia. Riformatori italiani nel Cinquecento, a cura di M. Biagioni et al., Torino 2011, pp. 111-121; L. Biasiori, Un interlocutore dimenticato nel dibattito religioso di metà Cinquecento: Basilio Millanio (alias Ercole Cattaneo?), in Rivista di storia e letteratura religiosa, XLVIII (2012), pp. 33-64.