Scali, Giorgio
Figlio di Francesco, pur appartenendo a una famiglia aristocratica era stato dichiarato popolano, ed ebbe così accesso alle magistrature (fu gonfaloniere di giustizia nel 1373). Dopo avere avuto un ruolo di primo piano durante la guerra degli Otto santi (1375-78) e nel contrastare il potere della parte guelfa, espressione di una ristretta oligarchia cittadina (nel 1375 era stato ‘ammonito’ dalla parte per sospetto ghibellinismo), S. fu uno dei capi del regime delle Arti minori, impostosi dopo il fallimento dell’effimera esperienza dei Ciompi (20 luglio-31 agosto 1378), e rovesciato manu militari dalle Arti maggiori nel gennaio 1382. S. fu decapitato il 17 di quel mese.
Nelle Istorie fiorentine M. esprime una netta condanna dell’operato di S. che, con Tommaso Strozzi, istituì un «governo tirannico e violento» (III xx 2), dimostrando una ‘insolenza’ che gli alienò il favore di quel «popolo che poco tempo innanzi lo aveva adorato» (§ 11). La vicenda di S. assurse presto a simbolo dell’incostanza del popolo e dei pericoli in cui si incorre confidando nel suo appoggio (cfr. la rovinosa caduta augurata dal Burchiello al mediceo Puccio Pucci, «successor di messer Giorgio Scali», CCV 8-10). In questo senso esemplare il personaggio è ricordato da M. nelle stesse Istorie. Rinaldo degli Albizzi, cercando di convincere l’incerto gonfaloniere Bernardo Guadagni a esiliare Cosimo, lo rassicura che il Medici non avrebbe ricevuto dalla «plebe» (che pure «lo adorava») «altri favori, che si traesse già messer Giorgio Scali» (Istorie IV xxviii 10). Il nome di S. è associato da M., in Principe ix 20-21, a un «proverbio trito», secondo il quale «chi fonda in sul populo fonda in sul fango»; ed è evidentemente associazione tradizionale, se Piero Vaglienti considera lo stesso S. ‘inventore’ del proverbio (qui con variante espressiva): «messer Giorgio Scali, che disse che chi si fonda in sul popolo, con riverenza, si fonda in sulla merda» (Storia dei suoi tempi, a cura di G. Berti, M. Luzzati, E. Tongiorgi, 1982, p. 174; segnalato da Giorgio Inglese nel Commento al Principe, 1995, p. 67). In Principe ix 20, volendo sostenere che è preferibile, per il principe ‘civile’ cercare l’appoggio del popolo, piuttosto che quello dei Grandi, M. polemizza contro la sostanza politica del proverbio, distinguendo tra la positiva ricerca del consenso popolare da parte di un principe, e l’atteggiamento di un «cittadino privato» (come lo S., e come i Gracchi a Roma) che, dopo aver adottato una politica demagogica, si illude («dassi a intendere») di poter indiscriminatamente usare l’appoggio del popolo.