VASARI, Giorgio
Pittore, architetto e scrittore, nato ad Arezzo nel 1511 e morto a Firenze nel 1574.
Sin dalla prima edizione delle Vite, pubblicate a Firenze presso l'editore Lorenzo Torrentino nel 1550, V. dedica largo spazio alla "prima età", che egli colloca tra la "maniera greca" - cioè "vecchia" o bizantina - e la "maniera moderna", considerandola una fase ineluttabile nel mutevole corso della umanistica 'fortuna'. La tradizionale certezza (Kallab, 1908; Schlosser, 1924) nel "progresso" dell'arte (Le vite, 1550, p. 125) stimolò lo storico a raccogliere con pari "fatica" e "disagio" anche le notizie degli artisti più remoti e a tradurle in una struttura biografica che, pur partendo dagli illustri modelli gioviani (le vite scritte in latino di Michelangelo, Leonardo, Raffaello), li traduce nella lingua degli artisti, fatta di "vocaboli delle arti", pienamente accessibile, nel suo intento pragmatico, al più vasto pubblico degli intendenti e non intendenti.
Per ricostruire la genesi dell'arte del Duecento e del Trecento con mezzi diversi da quelli degli storici e degli scrittori, V. si rese disponibile a ogni possibile informazione (Kallab, 1908). Le lodi dei poeti (Dante Alighieri, Francesco Petrarca), gli intrecci della novellistica (Giovanni Boccaccio), le notizie dei letterati (Antonio Manetti) e degli artisti (Lorenzo Ghiberti, Leon Battista Alberti, Antonio Averlino detto il Filarete, Francesco di Giorgio Martini), le cronache locali, le guide (Francesco Albertini), insieme agli appunti biografici di Antonio Billi, dell'Anonimo Magliabechiano e di Giovan Battista Gelli, offrirono gli spunti più diversi per le ventotto Vite degli artefici medievali, che nella Torrentiniana sono vincolate a uno schema biografico tradizionale, nel quale il proemio e l'epilogo assumono grande rilievo grazie a considerazioni di carattere generale e all'autorità di iscrizioni e di epitaffi.I casi paralleli della pittura e della scultura (vita di Andrea Pisano), le conseguenze dell'invidia dei concittadini (vita di Antonio Veneziano), gli accidenti contrari alle fatiche degli artisti (vita di Barna), la "straccurataggine" dei burlevoli (vita di Buonamico Buffalmacco), il rapporto tra gli "inventori" figurativi e gli storici (vita di Duccio di Buoninsegna), l'onore e l'utile di essere eccellenti in un'arte nobile (vita di Agnolo Gaddi), i premi delle virtù (vita di Giottino), il valore dell'invenzione (vita di Lippo) sono tutti temi umanistici, ampiamente svolti nei proemi, che cercano di aggiornare le peculiarità di artisti remoti a una problematica più moderna e quindi li inseriscono in un comune processo evolutivo: quello che dai vecchi stilemi della "maniera barbara" passa alle soluzioni compositive più complesse di Cimabue e Giotto, al colore "sfumato" e "unito" di Stefano.Per questa via il 'romanzo storico-figurativo' di V. (Schlosser, 1924) consegue parametri specifici che riescono a individuare non solo salienti valori formali - gli "abiti" (vite di Spinello Aretino e di Gherardo Starnina), gli "affetti" (vite di Giotto e di Antonio Veneziano), le "arie" (vite di Cimabue, di Stefano e di Andrea Pisano), le "attitudini" (vite di Giotto, di Stefano e di Taddeo Gaddi), i "panni" (vite di Cimabue, di Giotto e di Giottino) - ma la loro evoluzione per precise conquiste individuali: "il nuovo modo di disegnare e di dipingere" di Cimabue nei confronti della "maniera goffa" dei "greci"; il colorito "fresco e vivace" di Pietro Cavallini; l'"unione" cromatica di Giotto e di Stefano; la "gran varietà" dei cicli pittorici assisiati.Nella seconda edizione delle Vite, pubblicata a Firenze presso i Giunti nel 1568, V. modificò ampiamente il testo del 1550. La conoscenza di nuove fonti - come le storie di Giovanni Villani e di Paolo Diacono -, spesso favorita dagli spogli di Vincenzio Borghini (m. nel 1580; Firenze, Bibl. Naz., Classe XVII, 17; Classe XXV, 243ss.), gli consentì di inserire le vite di Arnolfo di Cambio, di Nicola e Giovanni Pisano, di Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura e di ampliare notevolmente lo stesso Proemio delle Vite, con una ben più generosa esemplificazione della "vecchia" architettura pisana, ravennate e lombarda. Le notizie raccolte nei viaggi (nel 1566 visitò l'Umbria, le Marche, l'Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto), i disegni collezionati nel suo famoso Libro, la ricerca dei ritratti degli artisti, da inserire all'inizio di ogni biografia, attestano un'attenzione sempre più viva alle testimonianze concrete, che vengono a sopraffare il medaglione biografico umanistico e ne limitano o sopprimono la cornice dei proemi e degli epiloghi.Nacque così una nuova storiografia, non più gioviana, che comprova le caratteristiche generali con un'ampia casistica - gli effetti degli interventi longobardi; i "fantocci" e le "goffezze" delle "vecchie" pitture, sculture e architetture, la loro divergenza dalle "cose antiche" -; attribuisce, sulla base di concordanze cronologiche, le opere (per es. il duomo di Firenze ad Arnolfo di Cambio) e propone identificazioni iconografiche (i ritratti) e stilistiche. L'esperienza dei cicli pittorici di palazzo Vecchio, relativi alle storie di Firenze e della Toscana, senza e con i Medici, ai quali collaborarono storici e letterati (per es. Vincenzio Borghini, Cosimo Bartoli), sembra così incidere notevolmente sulla Giuntina, nella quale la ricostruzione storica si vale sempre più di cronache, iscrizioni, fonti locali. L'orizzonte diviene sempre più vasto - valorizzando non solo la Toscana (Pisa, Lucca, Siena, Pistoia), ma anche altre regioni d'Italia (Lombardia, Veneto, Emilia) - e più vario nella considerazione dello stretto rapporto tra arti maggiori e suntuarie.I solenni generalia della Torrentiniana cedono dunque a prove più concrete: le descrizioni delle opere degli artisti aumentano vistosamente e spesso con integrazioni fondamentali (per es. la pala di Santa Trinita e il Crocifisso di Santa Croce di Cimabue, a Firenze) e attestano nuovi rapporti storici e stilistici (per es. tra Cimabue e Nicola Pisano).Le trenta biografie giuntine, nate dunque da istanze diverse, anche cortigiane - per le quali V. fu al tempo stesso il più eminente storiografo dell'arte medievale, il regista mediceo di trasformazioni monumentali (per es. Santa Croce, S. Maria Novella, palazzo Vecchio, il corridoio vasariano sopra il ponte Vecchio a Firenze; il palazzo degli Anziani a Pisa) e il collezionista di grafica del Duecento e del Trecento, da lui inquadrata con cornici in stile (Panofsky, 1930) -, costituiscono un corpus fondamentale per la storia dell'arte medievale.Esse hanno avuto una tradizione eccezionale, stimolando le polemiche dei cultori locali, i quali contrapposero alle priorità fiorentine le proprie glorie patrie. I Senesi, come Giulio Mancini (m. nel 1630), cercarono di rivalutare Guido da Siena, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini; i Romani, come Baglione (1642), Pietro Cavallini; i Veneti, come Ridolfi (1648), persino i "maestri greci"; finché Baldinucci (1681-1728) tentò di combinare i dati estratti dalle biografie vasariane con quelli dei documenti e delle più attendibili fonti locali. In tal modo egli cercò di verificare le Vite vasariane alla luce delle altre fonti regionali proprio quando le opere degli artisti medievali non comparivano più nelle liste delle preferenze dei collezionisti; basti pensare alle 'classi' della collezione del cardinale Leopoldo de' Medici. La sua coraggiosa impresa non contentò né i fiorentinisti come Ferdinano Leopoldo Del Migliore (Riflessioni aggiunte alle 'Vite de' Pittori' di Giorgio Vasari aretino; Firenze, Bibl. Naz., II, IV, 218), né gli antifiorentini, come Malvasia (1678), ma riuscì tuttavia a dare l'avvio a una storia enciclopedica, nella quale le informazioni vasariane potevano essere assorbite insieme a quelle dei suoi antagonisti.Le riedizioni delle Vite giuntine a cura di Manolessi (1647) e di Bottari (1759-1760) rimanevano così un punto di riferimento fondamentale per la storiografia artistica contemporanea, come dimostra l'opera di Lanzi (1795-1796), il quale dissolve le biografie di V. nella storia delle varie scuole italiane, tenendo conto anche delle riserve degli antivasariani. Guglielmo Della Valle, per es., nella sua edizione delle Vite (1791-1794) non aveva lesinato accuse e rimproveri che, dopo la difesa di Lanzi, vennero a stemperarsi nelle edizioni positivistiche di Vincenzo Marchese, Carlo Pini, Carlo e Gaetano Milanesi (1846-1870) e di Gaetano Milanesi (1878-1885), i quali nelle loro preoccupazioni documentarie apprezzarono il testo vasariano sul filo delle predilezioni puristiche e lo lodarono "non solo come lettura amena, ma eziandio come utile documento del vivere" (Barocchi, in Vasari, Le Vite, Commento, I, 1966, p. XXXVII). Tanto scrupolo moralistico e documentario ebbe, invero, effetti sorprendenti. Lo scrittore V. - accertate le sue imprecisioni - venne promosso a sapido novelliere e il testo delle Vite, spoglio di quella problematica sul divario tra Torrentiniana e Giuntina presente ai commentatori settecenteschi, fu corretto puristicamente nella sola redazione del 1568. Il commento stesso, mirando a oggettive certezze, trascura la lunga tradizione esegetica iniziata da Giovanni Bottari, alle cui preoccupazioni filologiche, terminologiche e valutative si sostituiscono citazioni di documenti e di fonti documentariamente intese (per es. Giovanni Villani, Lorenzo Ghiberti), verifiche dirette e indirette, discussioni irrimediabilmente imperniate sui dati di fatto.L'orizzonte storico-critico di V. non interessa ormai più e si rischia di perdere ogni fede nell'autorità di questo scrittore, che "quando discorre de' primi maestri scrive come un autore di leggende e di novelle; piacevole, se vuolsi, e pieno di diletto a leggersi, ma falso, errato ed inesatto quanto alla sostanza" (Milanesi, 1866). Restava, è vero, lo "scrittore bellissimo, raccontatore piacevole, mirabile nelle descrizioni" (Vasari, Le Vite, Commento, I, 1966, p. 117), a conferma tuttavia di un'artificiosa scissione. Le certezze positivistiche, divorando, all'estremo della loro parabola, il prestigioso oggetto di "sollecitudini, studi e speranze" (ivi, p. 103) alimentati per più decenni, si apprestavano così a fare scrupolosa giustizia dello storico, mentre assolvevano un innocuo letterato. Ma a tale esecuzione, cui congiurarono commentatori sempre più eruditi e inflessibili, quali Wackernagel (1916) e soprattutto Frey (1911), si oppose la rivalutazione di V. narratore da parte di Ragghianti (1942-1950), finché, soprattutto dopo la mostra giottesca del 1937 (Pittura italiana, 1943), il testo delle Vite medievali riacquistò, grazie soprattutto a Longhi (1948), una piena validità nei suoi contributi storico-critici a proposito di Cimabue, Giotto, Stefano e altri (Previtali, 1964).La successiva rivalutazione della Torrentiniana - riproposta dalla ristampa a cura di Ricci (1927) e di recente dall'edizione a cura di Bellosi e Rossi (1986) - e il sempre più approfondito confronto con la Giuntina hanno più tardi sollecitato una lettura comparativa intesa a mettere in giusto rilievo la diversa e complessa orchestrazione delle fonti e a valorizzare la nascita di un linguaggio specifico e unitario che, partendo da due diverse culture del maturo Cinquecento, Roma e Firenze, riesce a vivificare in vario modo più di tre secoli di storia artistica.
Bibl.:
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