Giornalismo
Con il termine 'giornalismo' si intende denominare sia l'attività di chi svolge la professione giornalistica attraverso i vari mezzi di comunicazione, di massa e non (dai quotidiani alle agenzie di stampa, dalle radio alle televisioni, ai vari tipi di periodici), sia le testate giornalistiche e i giornalisti nel loro complesso.Con lo stesso termine, dunque, si individuano nella lingua italiana (ma anche in altre lingue come la francese e l'inglese) tre diversi oggetti sociali: un gruppo professionale (i giornalisti), l'attività che questo gruppo svolge (cercare e pubblicare le notizie), le organizzazioni nel cui ambito tale attività viene esercitata, siano esse imprese giornalistiche o dipartimenti e uffici specializzati di altro tipo di imprese o istituzioni. I tre oggetti sono tra loro interconnessi, ma hanno origini e storie diverse e non sono universalmente percepiti come costitutivi dello stesso universo giornalistico. C'è chi scrive autorevolmente che il "giornalismo organizzato è morto" (v. Altheide e Snow, 1991, p. 51) e chi ritiene che "i quotidiani non hanno un diritto divino a esistere" (v. Kurtz, 1993, p. 374). La dilatazione del termine giornalismo fino a comprendere tutti i vari tipi di media attraverso i quali esso si produce è, dunque, questione controversa. Così come controversa, e aperta a divergenti interpretazioni, è la definizione di cosa si debba intendere per attività giornalistica. Talora le definizioni sono tautologiche, come in Italia e in Francia: giornalista professionista è colui che svolge in via esclusiva l'attività giornalistica; ma questa attività non è definita in modo chiaro.
Si è così introdotto uno dei problemi principali che caratterizzano il giornalismo: la definizione della sua natura e l'individuazione dei confini che delimitano tale attività rispetto ad altre percepite come simili da questo o quel gruppo sociale.
La difficoltà di definire il giornalismo scaturisce dalla sua stessa storia, una storia che inizia prima dell'invenzione del termine, risalente al XIX secolo, e che può essere scandita da tre grandi fasi: quella che precede l'invenzione della stampa e si esplicita attraverso le tante forme di raccolta e diffusione di informazioni che si sono manifestate nelle società europee e asiatiche fin dalle più antiche civiltà, come la romana e la cinese; quella che segue l'invenzione della stampa e prende forma in Europa nella prima metà del XVII secolo dando vita ai veri e propri antenati dei giornali; quella, infine, che si situa nel XIX secolo, prima negli Stati Uniti d'America con l'invenzione della penny press, e poi in Europa.
In particolare è a partire dagli anni trenta dell'Ottocento che i giornali si trasformano, negli Stati Uniti, in vere e proprie imprese economiche capaci di vendere un prodotto - le notizie al pubblico e gli spazi pubblicitari agli inserzionisti - e di retribuire, poco o irregolarmente, il lavoro dei giornalisti, che da allora cominciano a emergere come gruppo professionale distinto e riconoscibile (v. Schudson, 1978). È proprio nel corso dell'Ottocento, e soprattutto verso la fine del secolo con la nascita della stampa popolare, che i giornalisti cominciano a esistere come gruppo sociale anche in Europa, sia pure in posizione di marginalità sociale e di scarsa rispettabilità. Il giornalismo moderno è, dunque, figlio dell'Ottocento e associa la sua nascita e il suo sviluppo alla società industriale e al diffondersi delle due istituzioni portanti della modernità: la democrazia rappresentativa e il mercato regolato.
Tuttavia non è senza significato e senza conseguenze il fatto che soprattutto in Europa, da parte sia di studiosi sia di giornalisti, si acceda all'idea di valorizzare come antenati del giornalismo forme e stili di comunicazione che sembrano, a ben vedere, avere assai poco in comune con la configurazione che il campo giornalistico verrà ad assumere al momento della sua nascita e nel corso della sua evoluzione e trasformazione successiva fino ai nostri giorni (v. cap. 3).
La ricerca di radici antiche per l'attività giornalistica, e per coloro che la esercitano, può rientrare nel novero di quelle pratiche di legittimazione che una professione caratterizzata dall'instabilità e dalla fluidità costruisce costantemente, soprattutto a partire dagli anni tra le due guerre mondiali che sono quelli durante i quali la professione comincia a istituzionalizzarsi: sia interrogandosi sull'ideale dell'obiettività, come negli Stati Uniti (v. Schudson, 1978), sia costruendo forme associative e sindacali di rappresentanza dei propri interessi come in Gran Bretagna (v. Curran e Seaton, 1992), in Francia (v. Ruellan, 1993), in Italia (v. Weiss, 1965; v. Mazzanti, 1991) e in altre nazioni.
Con la nascita della radio e poi, soprattutto, della televisione, con lo sviluppo delle pubbliche relazioni e delle attività di comunicazione a esse collegate il problema della definizione dei confini del giornalismo acquista proporzioni più ampie e sollecita nuovi interrogativi riguardo all'identità del giornalista e del giornalismo.Pur con qualche differenza tra le varie tradizioni giornalistiche nazionali, i giornalisti non hanno mai cessato - a partire dalla fine del XIX secolo - di interrogarsi riguardo alla propria identità, oscillando tra due visioni contrapposte e coesistenti: da un lato prendendo le distanze dalla professione e sottovalutandone la rilevanza sociale, culturale e politica, dall'altro esaltandone alcuni tratti 'eroici' e idiosincratici costruiti intorno al mito del reporter coraggioso, libero e indipendente (v. Buonanno, 1988; v. Ruellan, 1993).
Tale ambivalenza si rintraccia anche nel modo in cui i giornalisti dei quotidiani - soprattutto quelli della stampa di qualità - hanno reagito all'avvento, via via, delle nuove forme di giornalismo che si sono affermate con i quotidiani popolari e i rotocalchi, con le radio e le televisioni, o al diffondersi delle attività di comunicazione. A forme iniziali di chiusura e di disprezzo sono seguiti tentativi più o meno consapevoli e riusciti di annettere al giornalismo vero e proprio le attività di comunicazione tipiche dei nuovi mezzi. Anche se in alcuni paesi è netta la distinzione tra i vari tipi di giornalismo e le attività di comunicazione, in altri, come l'Italia e la Francia, si tende sempre più a considerare queste ultime come parte del giornalismo, di un giornalismo sempre più aperto a contaminazioni sia nella direzione delle più tradizionali professioni intellettuali sia nella direzione dei più nuovi mestieri della comunicazione mediatizzata (v. Rieffel, 1992; v. Cornu e Ruellan, 1993; v. il Campo, 1993).Il giornalismo, dunque, è un campo assai più problematico e complesso di quanto non possa apparire a prima vista e di quanto non amino ritenere, in base a un'ideologia della professione tuttora molto diffusa, gli stessi giornalisti, con poche eccezioni. È una traccia significativa di tale problematica complessità l'infittirsi di una bibliografia critica ad opera di studiosi di scienze sociali che si affianca alla più tradizionale, e quantitativamente assai consistente, bibliografia prodotta dagli stessi giornalisti sotto forma di storie, memorie e manuali. In questo articolo ci limiteremo a presentare, in modo molto sintetico, alcuni dei principali temi che segnano la controversa storia del giornalismo, dal punto di vista delle scienze sociali, fornendo una bibliografia essenziale che si limita, con poche eccezioni, a segnalare la produzione più significativa edita negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia negli ultimi dieci anni.
Il rapporto fra giornalismo e scienze umane e sociali è un capitolo importante e problematico della storia del giornalismo, soprattutto a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. È nell'epoca del positivismo nascente e trionfante - che segna l'avvio del processo di istituzionalizzazione della psicologia e della sociologia come scienze autonome - che si costituisce un legame, talvolta un'affinità elettiva, tra i giornalisti e i primi sociologi, due gruppi sociali emergenti, entrambi alla ricerca di legittimazione dell'esercizio delle proprie pratiche intellettuali.
Il rapporto di interdipendenza nei due processi di legittimazione si manifesta con maggior evidenza soprattutto negli Stati Uniti: è pressoché contemporanea la nascita, nelle università americane, dei primi istituti di sociologia e delle prime scuole di giornalismo. Ma anche in Europa si producono convergenze significative, al di là dell'ambiente accademico e al di fuori del dominante clima positivistico.Il rapporto si articola, dunque, lungo un percorso storico che ricopre ormai più di un secolo e si specifica in orientamenti diversi, talora divergenti, sulle due scene culturali qui prese in considerazione, quella statunitense e quella europea. È un rapporto fatto di somiglianze, di prestiti intellettuali, ma anche di rivalità, contrapposizioni e incomprensioni reciproche. Sullo sfondo dello scenario storico-sociale dei processi di mutamento, di una vera e propria 'grande trasformazione', si colloca, nella diversità e molteplicità degli stili intellettuali, la questione che accomuna giornalismo e scienze sociali: l'aspirazione alla legittimazione dei rispettivi metodi di conoscenza del mondo sociale (v. Park, 1940). Sul finire del XX secolo vi è ormai grande consapevolezza da parte della sociologia, e delle scienze sociali in generale, della centralità del giornalismo nella società contemporanea, centralità che deriva soprattutto dal fatto che il prodotto più tipico del giornalismo - l'informazione d'attualità - è diventato la principale fonte di conoscenze sul mondo sociale per la maggior parte degli esseri umani.
Lo stretto rapporto tra giornalismo e scienze sociali viene favorito negli Stati Uniti da una serie di processi sociali e culturali interdipendenti che fanno del giornalismo un'istituzione cardine della cultura americana: l'invenzione precoce del 'giornalismo di notizie', l'affermarsi di una società democratica a economia di mercato, l'egemonia culturale del pragmatismo, la costruzione di un'identità collettiva alla quale partecipano la letteratura, i miti della 'frontiera' e del 'sogno americano' e altri ancora. Punto di arrivo emblematico dell'intreccio fecondo tra giornalismo e scienze sociali è la fondazione della Scuola di Chicago per iniziativa di Robert Park, un sociologo che si era formato in Europa (alla scuola di Simmel) e che era stato giornalista, insieme ad altri colleghi sociologi (v. Park, 1925). La Scuola di Chicago, fucina e punto di riferimento di ciò che di più fecondo e originale hanno prodotto le scienze sociali in America, è anche il luogo dove l'incontro tra culture investigative di provenienza giornalistica e sociologica ha dato vita al metodo dell'osservazione partecipante e ha inventato il muckraking, la tecnica di 'battere i marciapiedi' alla ricerca della vita marginale e nascosta della metropoli.La Scuola di Chicago, unitamente alla temperie culturale degli anni venti - del cui livello di criticità è testimone, per quanto riguarda la missione del giornalismo, il libro di un grande giornalista, Walter Lippmann (v., 1922) -, è anche all'origine di un lavoro di riflessione e di ricerca sul giornalismo che in nessun altro paese, almeno fino agli anni ottanta, è stato così intenso. A partire dalle ingenue teorizzazioni ottocentesche sul giornalismo fattuale si sviluppa, anche all'interno della professione, una elaborazione intellettuale, influenzata dalle scienze sociali, che mette a fuoco da varie angolazioni il concetto di obiettività giornalistica e la pratica del giornalismo interpretativo. Sul lato accademico continuano a svilupparsi le scuole di giornalismo, alle quali si affiancano, a partire dalla fine degli anni trenta, i dipartimenti di comunicazione.
Inizia anche a svilupparsi un genere cinematografico, il newspaper movie, che a partire dal capostipite, il film Front page di Milestone (del 1931), alimenterà l'immaginario, americano e non, per decenni, fino ai nostri giorni. Il giornalista - come peraltro l'investigatore privato, una figura creata dalla letteratura e dal cinema americani con larghi tratti di somiglianza con quella del giornalista - diverrà una delle incarnazioni dell'eroe americano: solo contro tutti, un po' maledetto e un po' santo, alla ricerca della verità e per il trionfo della giustizia come in L'ultima minaccia interpretato da Humphrey Bogart, oppure cinico e prepotente come in Quarto potere di Orson Welles, spregiudicato e arrampicatore come in L'asso nella manica di Billy Wilder (v. Bechelloni, 1982, pp. 290-300).È soprattutto nel secondo dopoguerra, sulla scia del processo di espansione dell'istruzione superiore e dello sviluppo della communication research, che si crea negli Stati Uniti una fitta rete di istituzioni accademiche, di formazione e di ricerca, nel campo del giornalismo, della comunicazione e della retorica (speech), e delle comunicazioni di massa. In questa fase si costituisce negli Stati Uniti, più che in qualsiasi altro paese del mondo, un'infrastruttura accademica - affiancata da un numero relativamente ampio di fondazioni specializzate, di istituzioni pubbliche, di associazioni professionali, di case editrici e di riviste - che vede la presenza attiva di studiosi provenienti da quasi tutte le discipline umane e sociali e di un elevato numero di professionisti che si dedicano in via esclusiva alla formazione e alla ricerca nel campo del giornalismo e della comunicazione. Tanto che ormai la quasi totalità dei giornalisti e degli altri professionisti del campo dei media e della comunicazione accede al mercato del lavoro sulla base di una formazione specialistica. In tali istituzioni si creano interscambi tra mondo professionale e mondo accademico e si formano luoghi organizzati per un monitoraggio esteso e continuativo della performance del giornalismo e degli altri media, che non ha equivalenti in altri paesi.
Nel primo ventennio postbellico la stragrande maggioranza delle istituzioni accademiche di formazione e di ricerca si sviluppa sulla base di un paradigma dominante che vede la manualistica e la ricerca quantitativa empirica prevalere pressoché incontrastate. Lo spettro dei temi di ricerca e dei curricula formativi è assai ampio e si sviluppa dai community colleges alle piccole università periferiche che formano giornalisti per la stampa e i media locali, fino alle università più grandi e di maggior prestigio che formano giornalisti per la stampa e i media nazionali. Tuttavia le università e i dipartimenti più prestigiosi si tengono lontani (salvo poche eccezioni come Columbia e Stanford o singoli studiosi e specifici programmi a Chicago e Harvard) dal giornalismo e dalle comunicazioni di massa: questi settori di studio, infatti, restano, anche negli Stati Uniti - nonostante la loro grande espansione e il successo di immagine e di notorietà - meno legittimati rispetto al nocciolo duro delle discipline umanistiche più tradizionali, delle scienze umane e sociali maggiormente consolidate e, soprattutto, delle scienze della natura. In questo periodo si determina anche una sempre maggiore commistione - nella formazione e nella ricerca - tra giornalismo e comunicazioni di massa. Anzi, alcuni temi e metodi di ricerca frequentati ed elaborati dagli studiosi delle comunicazioni di massa riguardano anche, e talora soprattutto, il giornalismo e in particolare la stampa quotidiana: la comunicazione politica, l'opinione pubblica, gli effetti sui comportamenti di voto, da un lato, l'analisi del contenuto, l'agenda setting, dall'altro.Con gli anni sessanta la scena americana cambia profondamente. L'assassinio di Kennedy, il movimento per i diritti civili, la rivolta degli studenti e dei ghetti neri, l'opposizione alla guerra in Vietnam, il femminismo, tutti questi eventi e processi, e altri ancora, mettono in crisi i paradigmi, gli stili professionali e di ricerca fino ad allora dominanti. Dal mondo artistico-letterario, dal campo accademico umanistico, dal crescente interscambio con la ricerca sociale europea emergono nuove tendenze che contribuiscono a cambiare sia il modo di fare giornalismo sia il modo di fare ricerca sul giornalismo, sulla comunicazione e sui media (v. Carey, 1986 e 1988; v. Dennis, 1989). Si costruiscono nuovi terreni di incontro e di scambio tra le discipline, analoghi a quelli che si erano costituiti negli anni venti, al tempo della Scuola di Chicago.
Nasce il movimento del new journalism, fautore di un giornalismo a matrice letteraria, di intonazione soggettiva (v. Bechelloni, 1989); si rafforza un giornalismo advocate, di denuncia; l'obiettività giornalistica, vero mito fondatore del giornalismo americano, viene ridefinita e, con il contributo di una nuova generazione di sociologi critici, viene considerata come un 'rituale strategico' piuttosto che come un dogma incontrovertibile (v. Tuchman, 1978; v. Schudson, 1978); l'attività giornalistica è uno dei processi fondamentali di 'costruzione sociale' della realtà (v. Altheide, 1976; v. Gans, 1979; v. Fishman, 1988).Con il Watergate il mito di un giornalismo americano d'inchiesta, al servizio della verità, della democrazia e della giustizia, riceve una consacrazione definitiva (v. Schudson, 1992). Si forma ed emerge una nuova generazione di muckrakers, sulla scia della Scuola di Chicago. Film celebri - come Tutti gli uomini del presidente, con Robert Redford e Dustin Hoffman e Diritto di cronaca con Paul Newman - e serie televisive - come Lou Grant e Murphy Brown - contribuiscono potentemente a tener vivi i miti e la realtà del giornalismo nell'immaginario collettivo.
L'emergere di scuole accademiche, di studiosi e di stili cognitivi a orientamento qualitativo porta alla ribalta nuove forme di ricerca fortemente influenzate da frequentazioni disciplinari le più varie, di origine sia europea sia americana: antropologia interpretativa e sociologia critica, narratologia e semiotica, filosofia e storia sociale. Antropologi come Clifford Geertz e Victor Turner, sociologi come Georg Simmel ed Erving Goffman, semiologi e narratologi come Algirdas Greimas e Seymour Chapman sono solo alcuni esempi significativi per evocare un clima culturale e scientifico che porta a rinnovare gli studi sul giornalismo e sulle comunicazioni di massa. Il giornalismo viene sempre più studiato come un oggetto sociale rilevante, come un'istituzione centrale della società americana: lo si può apprezzare leggendo le opere più significative di studiosi come James Carey, Michael Schudson, Clifford Christians.Un altro orientamento di ricerca assai significativo, costituitosi nell'ultimo decennio, è quello che va sotto l'etichetta di cultural studies. Di matrice e derivazione inglese - la prima scuola è stata fondata a Birmingham negli anni sessanta da Richard Hoggart, Raymond Williams e Stuart Hall -, gli studiosi di questo orientamento si sono interessati in particolare alla cultura popolare e ai media, ma anche al giornalismo, miscelando apporti disciplinari e matrici culturali di varia provenienza: strutturalismo e poststrutturalismo, gramscismo e postmodernismo.
Queste più recenti tendenze della ricerca accademica di tipo transdisciplinare, qualitativa, a forte orientamento teorico, se hanno creato nuovi e fecondi intrecci con il giornalismo più colto e critico, hanno anche contribuito ad allontanare dalla frequentazione accademica il cuore della professione, rimasto relativamente ostile alla teoria e tuttora impregnato di orientamento empirico e pragmatico, tanto che uno studioso ha parlato di vera e propria incomprensione tra scienziati sociali e giornalisti (v. Schudson, 1991, p. 141). D'altra parte è emerso anche un nuovo orientamento che vede nel giornalismo 'di precisione' una risposta alla crisi del paradigma dell'obiettività e cerca di costruire un nuovo tipo di sintonia tra giornalismo e scienze sociali (v. Meyer, 1991).
Sulla scena europea il rapporto tra giornalismo e scienze sociali è più problematico e controverso e si sviluppa in modo diversificato non solo a seconda delle epoche storiche e dei climi culturali dominanti ma anche a seconda delle diverse tradizioni nazionali, giornalistiche e scientifiche. Nei decenni tra fine Ottocento e primi del Novecento, soprattutto in Francia (v. Ruellan, 1993) e in Italia (v. Mazzanti, 1991), si creano sintonie tra un giornalismo a forti influenze letterarie e ambienti editoriali e accademici di orientamento positivista. In Gran Bretagna l'affermarsi della stampa popolare consolida definitivamente un atteggiamento antintellettuale del giornalismo britannico che resterà a lungo egemone, influenzando i criteri di reclutamento e formazione dei giornalisti e determinando una radicale frattura tra giornalismo di qualità e giornalismo tabloid che resisterà fino ai nostri giorni (v. Dahlgren e Sparks, 1992).
In Germania, invece, si assiste, per la prima volta, a un fiorire di interessi filosofici e sociologici riguardo al giornalismo e alla comunicazione che, pur non esercitando influenze sulla professione, possono essere assunti come momento iniziale e fondatore della riflessione scientifica sul giornalismo (v. Hardt, 1979). Studiosi come Karl Kuies, Karl Bücher, Ferdinand Tönnies, Max Weber e, più in generale, l'ambiente filosofico e sociologico tedesco, hanno offerto contributi di riflessione che non è possibile analizzare nel contesto di questo articolo ma la cui rilevanza non può essere sottaciuta per almeno tre ordini di motivi: a) l'aver creato la premessa per lo sviluppo in Germania, negli anni tra le due guerre mondiali, sia di quella che verrà chiamata la scienza del giornalismo o pubblicismo, sia della sociologia critica della Scuola di Francoforte; b) l'influenza esercitata sui primi studiosi e ricercatori americani che hanno costruito il loro apprendistato intellettuale frequentando le università tedesche; c) la riscoperta di questi e altri autori realizzatasi negli anni sessanta e settanta a opera di studiosi sia europei che americani. Basterà ricordare il contributo di Max Weber, rimasto a lungo misconosciuto rispetto ai suoi lavori maggiori. Weber aveva redatto, in data imprecisata, un progetto di ricerca sul giornalismo del quale parla diffusamente nell'allocuzione rivolta, nel 1910, al primo congresso dei sociologi tedeschi: si può, dunque, far risalire a questo testo di Max Weber la prima formulazione organica di una sociologia del giornalismo (v. Hardt, 1979, pp. 159-186; v. Sorrentino, 1987, pp. 91-104; v. Weber, 1937).
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, al contrario di quel che accade sulla scena americana e nonostante la presenza in Francia di una scuola di giornalismo che data dagli inizi del secolo, la fugace comparsa in Italia di una scuola che vivrà solo per due anni e lo sviluppo in Germania - e parzialmente in Italia e in Spagna - di studi e di istituti di pubblicismo, la scena europea non sviluppa una tradizione di rapporti tra mondo accademico e mondo della professione (v. Weiss, 1965).È solo a partire dal secondo dopoguerra, e soprattutto dagli anni sessanta, che la scena europea si anima di studi e ricerche sul giornalismo, in parte influenzati dalla tradizione empirica americana, in parte originati dalle numerose e talora confliggenti tradizioni critiche europee. Cominciano a svilupparsi istituti e scuole di formazione, si istituiscono cattedre e insegnamenti specialistici sia di storia del giornalismo sia di sociologia delle comunicazioni di massa. Rispetto alla scena americana, tuttavia, i due mondi - quello accademico e quello giornalistico - restano più a lungo separati e distinti, con poche, e talora conflittuali, relazioni e scarse confluenze reciproche. È soprattutto nella Repubblica Federale Tedesca, nei Paesi Scandinavi e, in un secondo tempo, in Spagna che si creano processi di istituzionalizzazione delle discipline accademiche necessarie a fondare gli ambiti di studio e di ricerca più legittimati a costituire un retroterra riflessivo e scientifico sul giornalismo: sia per formare giornalisti sia per studiare, in tutti i suoi aspetti, il ruolo e la funzione del giornalismo nella società contemporanea.
Accanto e, per lo più, in conflitto con le tradizioni di ricerca che si sviluppano in Europa sulla scia dell'influenza americana si costituiscono in alcuni paesi europei - e soprattutto in Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia - scuole e correnti che affrontano lo studio del giornalismo, della stampa e dei media con approcci nuovi, aperti alla confluenza di discipline e paradigmi diversi rispetto a quelli della sociologia positivista o funzionalista.Sono da ricordare alcuni punti di riferimento. Innanzitutto la già segnalata scuola dei cultural studies di Birmingham, che esercita una enorme influenza, prima in Gran Bretagna e poi nell'Europa continentale e in America, proponendo un approccio teorico e di ricerca che miscela creativamente le tradizioni empiriche dell'antropologia e della sociologia con la semiologia e con gli orientamenti marxistici derivati dalla Scuola di Francoforte, dallo strutturalismo di Louis Althusser e dal pensiero di Antonio Gramsci. La rivista "Media, culture and society", fondata nel 1978 e tuttora pubblicata, raccoglie l'eredità della scuola e diventa uno dei più autorevoli punti di riferimento per gli studiosi dei media e del giornalismo, aprendosi all'influenza di importanti sociologi come Pierre Bourdieu e Norbert Elias.La Scuola di Francoforte, lo strutturalismo francese in tutte le sue versioni, gli scritti postumi di Antonio Gramsci hanno avuto un'influenza enorme, soprattutto negli anni settanta, nel costituire un atteggiamento non solo critico ma addirittura negativo nei riguardi del giornalismo e dei media, atteggiamento che si stempera e si trasforma negli ultimi quindici anni.Negli ultimi anni, come testimonia la maggior parte dei lavori citati in bibliografia, la scena americana e la scena europea si sono fatte più somiglianti, almeno dal punto di vista degli approcci degli studiosi di scienze sociali. I modelli giornalistici sono tuttora fortemente segnati dalle differenti tradizioni, ma nel campo degli studi sono diventate meno significative le tre contrapposizioni tradizionali: tra Europa e America, tra ricerca empirica e ricerca critica, tra mondo professionale e mondo accademico. Anche in Europa, con la parziale eccezione della Gran Bretagna e dell'Italia, si sono affermate e legittimate le scuole di giornalismo come luoghi istituzionali per l'incontro tra il sapere accademico e la pratica professionale.
Sulla scia dei concetti di 'figurazione' e di 'campo culturale' elaborati, rispettivamente, dai sociologi Norbert Elias (v., 1986) e Pierre Bourdieu (v. i contributi del 1992), è stato messo a punto il concetto di 'campo giornalistico' che è stato utilizzato in modo efficace per analizzare empiricamente importanti caratteristiche del giornalismo contemporaneo. In particolare nel corso di ricerche condotte in Francia (v. Pinto, 1984; v. Rieffel, 1984 e 1992; v. Ruellan, 1993) e in Italia (v. Bechelloni, i contributi del 1993; v. Buonanno, 1988; v. il Campo, 1990 e 1992), il concetto di campo culturale è servito per superare una opposizione concettuale che si era radicalizzata negli anni sessanta e settanta tra gli studiosi del giornalismo, e più in particolare tra i giornalisti: da una parte gli studiosi struttural-funzionalisti alla Parsons, dall'altra gli studiosi del newsmaking (v. § 3b).
I concetti di figurazione e di campo consentono di superare la tradizionale dicotomia tra psicologia e sociologia, tra struttura e processo, tra individuo e gruppo per cogliere i rapporti di interdipendenza che si istituiscono tra l'uno e l'altro. Più in particolare tali concetti consentono di osservare e analizzare efficacemente i processi sociali e culturali che portano, nelle società moderne sempre più complesse, alla formazione e allo sviluppo di luoghi e funzioni sociali sempre più specializzati e differenziati: i vari campi, appunto, e sottocampi attraverso i quali si struttura il farsi e disfarsi del sociale.Per comprendere il concetto di campo, nell'accezione sociologica qui utilizzata, si può pensare ai vari significati del termine 'campo': campo da gioco, campo agricolo, campo magnetico, campo elettrico, da cui si possono ricavare le idee di delimitazione e specificità di un campo rispetto a un altro, di legami o regole tra gli appartenenti a uno stesso campo, di posta in gioco, di esito di una o più partite o di una stagione.
Condizione indispensabile perché possa esistere un campo - e quindi anche un campo giornalistico - è la sua relativa autonomia da altri campi, in modo che possano formarsi regole proprie di quel campo, che determinano le condizioni di accesso ad esso e i criteri di affermazione, carriera e successo. Un campo può essere più o meno autonomo, più o meno strutturato e più o meno in grado di riprodursi, legittimarsi, affermarsi.
Si può ritenere, quindi, che introducendo la denominazione di 'campo giornalistico' per osservare e analizzare il giornalismo si può disporre di un concetto potente e sofisticato per vari tipi di analisi comparative: storiche, tra paesi, tra campi diversi di pratiche professionali e intellettuali. Utilizzando il concetto di campo si possono meglio comprendere sia la forza che la debolezza del giornalismo, e seguire nel tempo il suo processo di istituzionalizzazione.Il campo giornalistico si viene a costituire - tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo - quando l'attività specializzata di produrre informazione d'attualità diventa visibile e rilevante per intere comunità nazionali, economicamente remunerativa per imprese specializzate, decisiva per la formazione delle opinioni pubbliche e degli orientamenti di valore di vasti agglomerati di individui attivi sulle due scene pubbliche che stanno alla base del funzionamento delle società democratiche a economia di mercato: quella della democrazia rappresentativa (con le elezioni e i partiti, i programmi e i leaders politici) e quella del mercato (con prodotti e servizi in competizione per il favore del pubblico dei clienti o consumatori).
La storia del campo giornalistico - che qui non possiamo ripercorrere se non attraverso i cenni dei capitoli precedenti e di quelli che seguiranno - è una storia complessa, articolata, controversa. La sua preistoria, che si svolge nel corso del XIX secolo, trova nel giornalismo americano degli anni trenta dell'Ottocento la sua fase iniziale con il costituirsi di un 'giornalismo di notizie'. Con la nascita della penny press, infatti, si assiste a una duplice rottura con la tradizione precedente: a) viene 'inventata' la notizia, il prodotto più tipico, originale ed esclusivo di quello che diverrà il giornalismo moderno; b) si costituisce la professione del giornalista come professione esclusiva e retribuita (v. Schudson, 1978, pp. 24-65).
Con la penny press nasce il giornalismo d'informazione e passa in secondo piano il giornalismo politico, di partito o di opinione. Per la prima volta chi produce i giornali si costituisce come imprenditore di una nuova e specifica attività imprenditoriale che ha lo scopo di realizzare profitti vendendo un prodotto - la notizia appunto - che non ha connotazioni ideologiche o politiche. Ci si rivolge esplicitamente a due gruppi di clienti che hanno un interesse comune: gli inserzionisti, che vogliono raggiungere con i loro avvisi un pubblico generale, e i cittadini che vogliono conoscere i fatti indipendentemente dagli orientamenti politici di chi li seleziona e li racconta. Nasce, così, l'ideale dell'obiettività giornalistica, che impregnerà tanta parte della storia del giornalismo americano e, più in generale, di quello moderno, fino ai nostri giorni.Anche in Europa si hanno processi di trasformazione e di crescita del giornalismo ma, a differenza di quanto accadde in America con quella che è stata denominata 'la rivoluzione della penny press', le radici politiche, di opinione e letterarie del giornalismo continueranno a lungo a influenzare la fattura dei giornali e l'ideologia dei giornalisti. In certi casi - come nel più idiosincratico dei casi, quello italiano - il modello del giornalismo di notizie, tendenzialmente obiettivo e fattuale, non si affermerà mai del tutto fino ai nostri giorni.
Come è già emerso nella trattazione fin qui svolta, il giornalismo si declina in modo diverso a seconda delle epoche storiche e delle tradizioni culturali nazionali. Se il modello statunitense, che per convenzione viene denominato 'americano', viene universalmente considerato come il modello egemone - quello che impregna l'immaginario collettivo in tutto il mondo, quello che, nel bene e nel male, viene maggiormente citato, quello che è stato studiato di più -, ciò non significa che non esistano altri modelli giornalistici, fino a pochi anni orsono di gran lunga più diffusi di quello americano. Basti pensare a tutta quella vastissima parte del mondo costituita dai paesi ex comunisti e dai paesi di nuova indipendenza nei quali il giornalismo non veniva esercitato - e tuttora, sia pure in minor misura rispetto alla situazione anteriore al 1989, non viene esercitato - in base ai principî della libertà di espressione e del diritto all'informazione che stanno alla base dell'esercizio del giornalismo negli Stati Uniti fin dalle origini. In quei paesi, cioè nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo, il giornalismo, invece di essere una manifestazione del cosiddetto 'quarto potere', in posizione di relativa autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato, era, e in parte ancora è, un prolungamento del potere statuale.Ai fini del nostro percorso di analisi, circoscritto alla scena euro-atlantica, si possono individuare tre modelli giornalistici che, un tempo nettamente distinti, si vanno oggi orientando verso sempre maggiori convergenze (v. Bechelloni, Giornali..., 1993). I tre modelli possono essere così denominati: a) americano; b) inglese; c) latino.
Al modello americano possono essere assimilati, per le sempre maggiori somiglianze, i giornalismi di alcuni paesi di tradizioni protestanti dell'Europa (Germania, Svizzera, Scandinavia, ecc.). Tipici di questo modello sono l'orientamento ai fatti e alla cronaca e la centralità del concetto di obiettività, sia pure ridefinito in modo più sfumato e articolato rispetto agli originari assunti positivistici. Tali principî, e altri ancora come l'autonomia relativa dal potere e il pluralismo, orientano i valori dei giornalisti e le pratiche professionali nei principali tipi di giornalismo presenti in questi paesi, sia nella stampa quotidiana (di qualità, popolare, locale) sia negli altri tipi di media (radio, televisione, periodici).Il modello inglese ha caratteristiche sui generis. Mentre la stampa di qualità assomiglia molto al giornalismo del modello americano, la stampa popolare o tabloid è legata alla tradizione culturale della classe operaia, tipicamente inglese. Linguaggio, temi trattati, destinazione sociale non possono essere intesi senza comprendere il ruolo che ha avuto, e tuttora continua in parte ad avere, la working class in Inghilterra, con i suoi specifici valori e l'orgoglio per questi valori, come è attestato, fra l'altro, dal successo di audience delle soap operas inglesi, tipo Coronation street, così diverse per ambientazioni e trame dalle soap americane.
Nella tradizione di entrambi questi modelli giornalistici - quello americano e quello inglese - si è costituito ed è tuttora vivo un atteggiamento antintellettuale che permea sia l'ideologia dei giornalisti sia lo stile dirigente del management editoriale. Un atteggiamento antintellettuale che può sorprendere, trattandosi di una professione intellettuale, ma che si può comprendere se si riflette che scopo della maggior parte dei giornalisti e delle imprese giornalistiche è quello di parlare - farsi intendere, ascoltare e leggere - a persone di scarsa cultura, alla gente comune e non ai politici o agli intellettuali. Si devono a tale atteggiamento antintellettuale sia i criteri di selezione e assunzione dei nuovi giornalisti sia i contenuti e i metodi didattici della maggior parte dei corsi di formazione e delle scuole di giornalismo istituiti in tali paesi.
Al modello latino possono essere ricondotti i giornalismi dei paesi dell'area cattolica e del Mediterraneo e soprattutto quelli francese, spagnolo e italiano. Anche se ognuno di questi giornalismi è segnato da marcate caratteristiche nazionali, si possono rintracciare ancor oggi tratti comuni che li diversificano dai modelli americano e inglese (nordico e protestante). Nel modello latino il giornalismo fattuale, obiettivo, di cronaca ha avuto maggiori difficoltà ad affermarsi; nel modello italiano, per esempio, non si è mai affermato, mentre nel modello spagnolo degli ultimi anni si registra una più netta influenza del modello americano. Il giornalismo di opinione, di origine partitica, ideologica, letteraria ha avuto invece un'importanza eminente. In Italia tuttora esistono quotidiani di partito, che altrove sono scomparsi, e l'orientamento ideologico-partitico tuttora impregna larga parte del giornalismo sia nella carta stampata, sia nelle radio e nelle televisioni. Il giornalismo dei paesi latini, in modo molto più marcato del giornalismo dei paesi protestanti, si è rivolto più all'élite che al popolo, ha preferito l'opinione alla cronaca, si è attribuito finalità pedagogiche piuttosto che finalità di mercato.
I vari modelli giornalistici, inoltre, si differenziano tra loro in molti modi: per esempio nel modo di concepire e praticare il pluralismo, uno dei valori di base del giornalismo contemporaneo. Ai due estremi dello spettro possiamo collocare il giornalismo americano, che sviluppa il pluralismo sul piano sociale e culturale, e il giornalismo italiano che lo sviluppa sul ben più ristretto piano partitico e ideologico.Le diverse tradizioni culturali, dunque, danno vita a tipi diversi di giornalismo, a stili giornalistici diversi, contribuendo per questa via a rendere più fluidi i confini tra giornalismo e altri tipi di attività culturali, informative o di intrattenimento.Dal punto di vista dell'esistenza o meno di un campo giornalistico strutturato e articolato, la diversità delle tradizioni e dei modelli non è senza conseguenze. Mentre nel caso dei modelli americano e inglese il campo giornalistico si presenta con alti gradi di visibilità sociale e dotato di un suo autonomo potere di influenza, nel caso del modello latino, e in particolare di quello italiano, il campo giornalistico si presenta meno autonomo, regolato politicamente e dotato di scarso potere di influenza.
Se il giornalismo debba considerarsi una professione oppure no, dato il suo carattere prevalente di lavoro dipendente e non autonomo, è questione che ha dato vita a molti dibattiti intellettuali, controversie sindacali e politiche, ricerche empiriche.Si può far risalire a Max Weber la prima messa a punto di una riflessione sociologica sulle origini e sulle traiettorie sociali dei giornalisti. Ambivalenza, squilibrio di status, fluidità sono stati i termini maggiormente utilizzati per definire l'incerta posizione sociale dei giornalisti, che si collega alle caratteristiche stesse di un lavoro che ha per definizione il compito di fronteggiare l'imprevisto e l'imprevedibile.
Due tradizioni di ricerca si sono misurate con questo problema: una, più antica, che ha studiato i giornalisti e le redazioni nel contesto della sociologia delle professioni e dell'organizzazione, e una più recente, che ha studiato le organizzazioni giornalistiche nel contesto della metodologia dell'osservazione partecipante e che è entrata nel lessico specialistico con la denominazione di newsmaking.
Gli studi del primo tipo hanno messo in luce - con poche, anche se in certi casi rilevanti, eccezioni (per esempio nel caso italiano, che ha presentato e tuttora presenta le più marcate differenze rispetto agli altri casi nazionali qui presi in considerazione) - due principali caratteristiche dei giornalisti come gruppo sociale e professionale: a) la varietà delle loro provenienze sociali, con prevalenza di due zone sociali, quelle dei declassati e degli aspirazionali; b) le loro origini formative tanto diverse da non permettere di configurare, come invece avviene per le professioni classiche maggiormente istituzionalizzate (medici e avvocati, ingegneri e architetti), una base comune di conoscenze scientifiche atte a ispirare univocamente la pratica professionale (v. Weaver e Wilhoit, 1986).
Gli studi del secondo tipo hanno messo in luce alcune importanti costanti pur nella varietà delle redazioni osservate in vari paesi: per esempio il ruolo delle cosiddette routines produttive nell'orientare le scelte dei giornalisti al fine principale di ogni organizzazione giornalistica, cioè fronteggiare l'imprevisto e rispettare la deadline. Le routines possono essere definite regole, più spesso implicite che esplicite, che ogni organizzazione si dà e che possono essere apprese e interiorizzate dai singoli giornalisti solo attraverso un'intensa partecipazione al lavoro redazionale: una specie di full immersion nella vita di redazione (v. Gans, 1979).
Da queste due tradizioni di ricerca, qui molto sinteticamente riassunte, possono ricavarsi alcune conclusioni riguardo alla professionalizzazione del giornalismo. Caduti i miti positivistici e ridimensionate le aspettative scientiste che avevano alimentato l'idea che si potesse costituire una scienza del giornalismo o che si sarebbe giunti col tempo a istituzionalizzare la professione giornalistica attraverso lo stesso tipo di percorso che aveva portato le professioni classiche a legittimarsi, quale altra via è percorribile per fare del giornalismo una professione più solida e rispettabile, più sicura del proprio status e più meritevole della necessaria considerazione sociale? Basti riflettere un poco sulla grande responsabilità che pesa sul giornalismo inteso come principale produttore, nelle società contemporanee mediatizzate, delle conoscenze sul mondo sociale per la maggior parte delle persone, attraverso l'erogazione, ormai a flusso continuo, dell'informazione d'attualità, lo specifico bene che il giornalismo è deputato a erogare.Il giornalismo resta, come hanno sempre pensato i giornalisti, una professione sui generis, una professione fluida, come è stato di recente teorizzato (v. Ruellan, 1993). Ammettere che il giornalismo è una professione fluida, tuttavia, non significa tornare alla vecchia idea che 'giornalisti si nasce' cancellando così qualsiasi idea di formazione. Significa, piuttosto, avviarsi a riconoscere che la fluidità non riguarda solo il giornalismo bensì un numero sempre maggiore di professioni e non solo tra quelle nuove. Sono le società contemporanee, sempre più complesse e diversificate, sempre più multiculturali, che richiedono a molti tipi di professioni una modalità di esercizio dotata di flessibilità, aperta all'imprevisto, pronta a esercitarsi su contingenze un tempo inimmaginabili.
Se così stanno le cose, al giornalismo si dovrà arrivare sempre di più dopo aver attraversato un percorso formativo che abitui la mente e la sensibilità dei futuri giornalisti a saper ascoltare e osservare - senza paraocchi culturali, ideologici, disciplinari - un mondo sociale articolato e parzialmente modellato dalla pluralità dei mondi simbolici che da più parti costruiscono con la partecipazione, più o meno consapevole, di tutti - ivi compresi gli stessi media giornalistici - la soggettività di ognuno e l'ambiente e le situazioni sociali nelle quali e attraverso le quali ciascuno sfida l'orizzonte della propria vita.
La professione giornalistica si è trasformata nel corso degli ultimi decenni e soprattutto dopo l'avvento della televisione, delle nuove tecnologie, dei nuovi media. I prodotti e i media giornalistici si sono moltiplicati e diversificati in termini di contenuti, di formati, di destinazione sociale. Il circuito dell'informazione è diventato molto sofisticato, il pubblico generale costituito dalla quasi totalità della popolazione di una nazione si ritrova solo per un numero molto limitato di grandi eventi. E anche se, per un numero ancor più limitato di eventi, si è formato un pubblico plurinazionale e tendenzialmente planetario, resta il fatto che la maggior parte dei prodotti giornalistici ha una destinazione sociale - un pubblico, un target, una audience - relativamente segmentata: geograficamente, etnicamente e professionalmente.Siamo in una situazione che, se da un lato può assomigliare al "villaggio globale" preconizzato da Marshall McLuhan (nei casi dei grandi media events), dall'altro assomiglia di più a una 'torre di Babele' dove si assiste a un intreccio di sempre nuovi linguaggi e nuovi formati: dal più spettacolarizzato e banale al più sofisticato e complesso. In altre parole, all'interno delle differenze nazionali si sono costituiti e si stanno costituendo tanti tipi diversi di giornalismo, ognuno dei quali richiede competenze diverse e diverse modalità di esercizio della professione, molte delle quali poco assomigliano al profilo classico del giornalismo di cronaca e di inchiesta.
Da questo punto di vista il campo giornalistico sembrerebbe vicino a un processo di esplosione: tanti tipi diversi di giornalismo diversificati a tutti i livelli, dai formati alle tecnologie, dagli ambienti lavorativi ai contenuti. Come si può capire, i percorsi di professionalizzazione si complicano e si diversificano. Da alcuni ciò viene interpretato come un processo di crescita e di espansione, che porta a inglobare nel giornalismo tutte le nuove specializzazioni professionali (o la maggior parte) che si vanno creando nei settori dell'informazione e della comunicazione; da altri il processo in corso viene interpretato come l'inizio della fine del giornalismo. Nel primo caso il campo giornalistico continuerebbe a rafforzarsi nel suo processo di legittimazione, nel secondo la storia del campo giornalistico sarebbe vicina a una sua conclusione.
(V. anche Stampa; Televisione).
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