Carducci, Giosue
Poeta, nato a Valdicastello di Pietrasanta nel 1835 e morto a Bologna nel 1907. Alla scuola domestica e severa del padre Michele, medico e carbonaro, C. mostrò un’inclinazione precocissima per lo studio della letteratura. Ma, per incontrare, nella sua vita, la prima traccia del culto di M., declinato secondo la celebre lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, occorre attendere gli anni pisani (1853-56), secondo la testimonianza di uno dei suoi più cari amici, Ferdinando Cristiani, poi garibaldino nell’impresa dei Mille, già studente con C. e, insieme con lui, insegnante al ginnasio di San Miniato al Tedesco nel 1856-57 (all’autunno del 1857 risale la poesia giocosa scritta contro Cesare Bordiga, “Or itevene, Muse, a sbordellare”, che reca, nel verso dell’autografo, la trascrizione di un passo della Clizia). Giuseppe Chiarini rammenta che il comune amico Giuseppe Puccianti trovò C. alla Scuola Normale, «tutto intento a pettinarsi, a farsi un bel nodo alla cravatta e spazzolarsi con cura», per «mettersi nella maggiore eleganza relativa possibile» (G. Chiarini, Memorie della vita di Giosue Carducci, 1907, pp. 39-40; da affiancare a F. Cristiani, Il Carducci alla Scuola Normale, «Rivista d’Italia», 1901, 4, 2, pp. 42-49). Allo stupore dei sodali C. replicò che intendeva fare come il M. in villa, nella celebre lettera del 10 dicembre 1513, «e si mise a tavolino». La cifra originaria del-l’interesse di C. per M. attiene perciò, in perfetta rispondenza con certi aspetti della cultura risorgimentale, all’imitazione esistenziale, all’assunzione di uno stile di vita che sapesse coniugare l’antico e il moderno: come, del resto, C. fece sino alla morte, avvenuta a Bologna il 16 febbraio 1907.
Per il poeta, il significato storico di M. si lega sia al Rinascimento sia all’età comunale, onde scaturivano insieme l’italianità, la romanità e la modernità di M., rispecchiate nelle nervature moderne e mosse della sua lingua. Con Ludovico Ariosto, M. è visto come la sintesi di «tutto ciò che sparsamente fu il pensiero e l’arte italiana in quella età grande e triste»: in lui riviveva «il genio romano, pratico, ordinatore, imperatorio, accresciuto della energia tumultuosa e della forte pazienza dei Comuni», avvalorato per giunta dalla «freddezza della contemplazione senza visioni» di un cittadino che vedeva «fuor di speranza cadersi sotto gli occhi la patria e la repubblica» (Opere, 1° vol., 1889, p. 171).
Nel § 4 dei discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale (lezioni bolognesi tenute fra il 1868 e il 1871), C. realizza la sua massima analisi dell’opera e della figura di M.: la «asciutta serenità di quell’alta mente virile», «la singolarità dell’ingegno» dispiegatasi nel «sentimento artistico di trattare e considerare la politica in sé e per sé senza riguardo a un fine immediato», la capacità di «astrarre dalle apparenze parziali del presente transitorio per meglio impossessarsi del reale eterno e immanente e assoggettarselo». Se Francesco Guicciardini è da ritenere «il più poderoso storico del Rinascimento», la personalità di M. è nondimeno più articolata: anzi, essa ha «tre fasi e tre stili», che convergono in un solo ritratto:
Negli scritti d’officio, il segretario fiorentino osserva pensa e scrive, avvisato e arguto, spigliato e serrato, in farsetto; è insomma fiorentino, come altri molti, salvo la maggior prestanza dell’ingegno suo: nei lavori letterarii, eccetto la Mandragora e la Commedia in versi, è anch’egli rotondo e ridondante e profuso e incerto, e somiglia un po’ troppo agli altri cinquecentisti della prima metà del secolo che avevano il gusto non ancora formato: nelle Storie tiene molto delle virtù fiorentine, e qualcosa dei vizi retorici, e non pochi de’ pregi e delle qualità sue proprie uniche e sole: pregi e qualità che risplendono nell’Arte della guerra e specialmente nel Principe e nei Discorsi. In coteste opere lo stile è combattimento, combattimento corpo a corpo della parola lucidissima col profondissimo pensiero.
Non si deve credere, infatti, che «la conversazione serale del villeggiante di San Casciano fosse così idilliaca com’egli ce la descrive», poiché egli, appunto, combatteva «con tutte le apparizioni monumentali e gigantesche e mostruose del tempo antico e nuovo» in una «lotta fredda, accanita, anelante, col fenomeno informe del fatto politico» (Opere, 1° vol., cit., pp. 171-76).
Negli studi compiuti per la collana «Diamante» di Gasparo Barbera (dal 1858 al 1860), C. mostrò una multiforme attenzione alla qualità della lingua di M., dotato di una «favella» congenere a quella «del Cecchi, del Cellini e del Redi» (Opere, 5° vol., 1891, p. 98), sicché il Segretario fiorentino restava per C. un modello di lingua viva e di «nobile eloquio», come scriveva sin dal 1861 nella recensione alle Opere (1° vol., 1861) di Giuseppe Ricciardi o nella rassegna del libro di Girolamo Gargiolli sul Saggio del parlare degli artigiani di Firenze (1861). Con Vittorio Alfieri, che allo studio di M. fu esortato da Francesco Gori Gandellini (Opere, 2° vol., cit., pp. 293-98), con Giuseppe Giusti e prima ancora con Giovanni Boccaccio – con il quale rappresenta la prima coppia di «razionalisti e realisti italiani» (Opere, 4° vol., 1890, p. 105) –, M. restò un meridiano nell’orientamento politico di C., che, per giunta, lo giudicò indispensabile per entrare consapevolmente nella varietà e correlazione dei problemi linguistico-letterari del Quattro-Cinquecento (Opere, 1° vol., cit., pp. 120, 156): un cardine, non meno di Dante, della nostra storia letteraria. M. spiccava, per il poeta barbaro, nella «recrudescenza di vecchiezza» e nel «brulicame di pedanteria» (Opere, 2° vol., cit., pp. 7-8) della cultura coeva, riuscendo «massimo» soprattutto nella «quasi divinazione nella serie degli antecedenti e conseguenti» di un evento storico, cedendo invece a Guicciardini nella disamina dei particolari e, insomma, nella «scienza del fatto» (Opere, 16° vol., 1905, p. 81). Restituito alla sua età e ripensato senza deformazioni ideologiche («Ma è egli possibile a imaginare il rinascimento in Italia luterano? E un Ariosto zuingliano? Un M. puritano? Un Raffaello calvinista? Un Michelangelo quacquero?», Opere, 1° vol., cit., pp. 160-61), M. (elogiato con equanimità, nel 1865, per «il discorso morale da lui recitato a una pia confraternita», Opere, 5° vol., cit., p. 156) poteva giovare come altri pochi autori a misurare certi tratti della storia italiana, ancorati, per es., alla modernità di Francesco Petrarca (M. e il cantore di Laura, per la naturale folgorazione della chiusa del Principe, dove affiorano i versi di Italia mia, venivano da C. associati con rigore: «al concetto politico di quella canzone solo degnamente rispondono gli scritti del Machiavelli», Opere, 5° vol., cit., p. 349). Nella sua fortuna, M. veniva raffrontato ad Ariosto, François Rabelais, Molière, Voltaire, Gotthold E. Lessing. Storico, naturalista, scrittore teatrale (di un teatro che, quale intelligenza degli uomini nella loro contingenza storica, viene assunto da C. in prospettiva politico-linguistica, non affrontato come discorso a sé), M. si rivelava euristicamente prezioso anche nel discorrere di Giuseppe Parini (che lo fraintese), di Augusto Barbier, di Gabriele Rossetti, di Giuseppe Rovani, di Ugo Foscolo, come pure, in poesia, per bandire l’idea dell’unità d’Italia, di Roma (Opere, 9° vol., 1894, p. 16), dell’Italia contemporanea (Opere, 6° vol., 1891, p. 184), con una pregnanza particolare in Juvenilia (“Alla croce di Savoia”, in Opere, 6° vol., cit., p. 234) e in Giambi ed Epodi (“Meminisse horret” e il “Canto dell’Italia che va in Campidoglio”, in Opere, 9° vol., cit., pp. 11, 96). Tanto vitale gli pareva la lezione concreta e ‘scientifica’ di M. che C. non esitava, nel 1884, a caldeggiarne lo studio nei licei (Opere, 11° vol., 1902, pp. 189, 193). «A Giosuè Carducci» fu, non per caso, dedicata da Giuseppe Lisio la prima edizione critica del Principe (Firenze 1899).
Nell’insieme, per C., lo studio di M. (e, con lui soltanto, di Dante e Alfieri) poteva introdurre i lettori-cittadini nella durata, nella consistenza e nella complessità di problemi che riguardavano non meno il passato che il futuro dell’Italia risorgimentale. L’immagine complessiva del Segretario, le sue doti analitiche, il suo sguardo che scandagliava gli abissi della storia non mutarono per C. rispetto al mirabile ritratto del 1868-71:
A misurar giusto l’altezza del Principe, dei Discorsi su le Deche, dell’Arte della guerra, delle Storie fiorentine, servono mirabilmente le tante commissioni e provvisioni e le legazioni e le relazioni del gran segretario, dietro la cui scorta possiamo seguitarne i passi nella conoscenza dei fatti e delle persone dell’Italia, dell’Europa, del mondo. E l’uom si spaventa a considerare come non v’è cosa per piccola la quale non si faccia immensa sotto la osservazione di lui, che l’abbraccia la compenetra la riempie di luce per ogni minutissima fibra. Come non v’è personaggio o avvenimento grande che sotto lo sguardo acuto freddo fisso di quell’occhio nero e duro non rimpicciolisca. Come diventan meschini Massimiliano imperatore e Luigi re di Francia, e che importanza acquistano la guerra di Pisa e la ribellione d’Arezzo! E qual sublime e doloroso spettacolo quella grandezza inaudita d’ingegno costretto a dibattersi impotente nell’angustia del difetto de’ tempi! (Opere, 1° vol., cit., pp. 171-72).
Con lui e grazie a lui era insomma iniziata quella «osservazione sperimentale su’l fatto umano» (Opere, 1° vol., cit., p. 180) che, attraverso Galileo Galilei, avrebbe cambiato le sorti culturali non solo dell’Italia, ma del mondo intero.
Bibliografia: Opere, 20 voll., Bologna 1889-1909. Per gli studi critici si vedano: A. Galletti, L’opera di Giosue Carducci, 1° vol., Bologna 1929, pp. 119-46, 255-310; Carducci e la letteratura italiana: studi per il centocinquantenario della nascita, a cura di M. Saccenti, Padova 1988; G. Capovilla, Carducci, Padova 1994; M. Veglia, «La vita vera». Carducci a Bologna, Bologna 2007; Carducci nel suo e nel nostro tempo, a cura di E. Pasquini, V. Roda, Bologna 2009 (in partic. G. Capovilla, Aspetti metalinguistici dell’epistolario carducciano, pp. 101-70; U. Carpi, Ideologia e politica di Carducci, pp. 15-37; L. Fournier-Finocchiaro, Giosue Carducci costruttore di miti nazionali, pp. 39-58; M. Veglia, Carducci professore, pp. 467-79).