Carducci, Giosuè
Giosuè Carducci nacque a Valdicastello (Lucca) il 27 luglio 1835. Dopo gli studi presso gli Scolopi di Firenze e la Normale di Pisa, insegnò dapprima in alcune scuole toscane (S. Miniato a Monte, Pistoia) e poi all’Università di Bologna (dal 1860). Intellettuale fra i più autorevoli nell’Italia appena unificata, nel 1890 fu nominato senatore. Nel 1906 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura. Morì a Bologna il 16 febbraio 1907.
Nell’assetto definitivo da lui stesso voluto per l’edizione delle Opere, la sua produzione poetica consta di sei raccolte (Juvenilia, Levia gravia, Giambi ed Epodi, Rime Nuove, Odi barbare, Rime e ritmi) e di tre grandi componimenti autonomi (Inno a Satana, Intermezzo, Della canzone di Legnano, parte I). Vi si aggiunge un gran numero di altri testi poetici estravaganti, un copioso corpus di prosa saggistica, prevalentemente storico-letteraria e politica, più di rado memorialistica e bozzettistica, e inoltre un epistolario fra i più ricchi dell’Ottocento italiano.
Per quanto riguarda l’opera in versi, Carducci può essere considerato l’ultimo grande autore italiano a esplorare in tutta la sua ampiezza le risorse del linguaggio ereditato dalla tradizione, restando sostanzialmente alieno dall’eversione linguistica e stilistica praticata dai poeti, a vario titolo innovatori, suoi contemporanei. La lingua poetica italiana prenovecentesca può considerarsi come un codice globalmente compiuto e ben identificabile, con una contenuta variabilità interna e una sostanziale stabilità diacronica. A partire da questo, Carducci oscilla tra la rivitalizzazione dei suoi settori meno frequentati e uno sperimentalismo – sia sul piano metrico, sia su quello propriamente linguistico – rivolto a saldare la tradizione volgare con quella classica (cioè antica, greco-latina) piuttosto che a rigettarne gli istituti.
Nel campo della prosa, Carducci propone, pur senza teorizzarlo compiutamente, un modello di scrittura alternativo a quello dei manzoniani coevi, esercitando una notevole influenza sullo stile, soprattutto saggistico e giornalistico, di vari novecenteschi. La lingua del Carducci ‘professore’ è caratterizzata da un andamento franto e spesso interiettivo, da forti escursioni di registro, da una notevole variabilità dei tratti fonomorfologici, da una spregiudicata apertura ai settori più disparati del lessico (Tomasin 2007: 127-49). Il risultato è quello che Eugenio Montale, nel recensire un volume dell’Epistolario carducciano, giudicò un «singolare impasto di classica purezza e di sorvegliatissima sprezzatura formale, desunto dal parlato, dall’uso» (cit. da Serianni 2007: 1). La prosa saggistica è dunque adibita con particolare frequenza da Carducci al dibattito ideologico e alla vivace polemica, con piena felicità di risultati. Non privo di autorevoli estimatori novecenteschi – da Serra a G. Contini – è lo stile di talune pagine memorialistiche e narrative, che tuttavia non sfociano mai nel vero e proprio esercizio narrativo (cfr. Contini 1968: 67).
Circa la riflessione linguistica, Carducci rifiuta esplicitamente i termini della ➔ questione della lingua così come veniva impostata dai partecipanti al dibattito ottocentesco. Tuttavia, le sue considerazioni sull’unificazione e sulla modernizzazione linguistica dell’Italia (ricavabili soprattutto da scritti sparsi come l’articolo Mosche cocchiere, 1896, o la recensione al primo volume del Dizionario della lingua italiana di Tommaseo e Bellini, 1861) compongono nell’insieme un disegno coerente (Capovilla 1987: 97). Esse apparvero già ai contemporanei affini a quelle di ➔ Graziadio Isaia Ascoli, e ad esse complementari per la particolare attenzione al versante della lingua letteraria (così Ugo Angelo Canello, che nel 1880 connetteva il ➔ classicismo antipurista di Carducci con quello ottocentesco di ➔ Cesarotti, ➔ Monti e Perticari; cfr. Tomasin 2007: 35).
Quanto al percorso linguistico tracciato dalla poesia carducciana, una netta opzione tradizionalistica emerge già all’altezza delle prime prove poetiche, maturate nell’ambiente antiromantico degli Amici pedanti, sodalizio letterario stretto a Firenze a metà degli anni Cinquanta con Giuseppe Torquato Gargani, Giuseppe Chiarini, Ottavio Targioni Tozzetti. Lingua, stile e metrica di molte delle giovanili Rime di San Miniato (1857), poi confluite in Juvenilia, riecheggiano, oltre ai modi di Petrarca, quelli del classicismo sette-ottocentesco (Parini, ➔ Foscolo, Monti, ➔ Leopardi) fino al limite della ripresa letterale e centonaria. Altro ambito precocemente esplorato è quello della poesia toscana del Quattrocento, con riecheggiamento linguistico, metrico e tematico di poeti in vario modo popolareggianti come Lorenzo il Magnifico, ➔ Poliziano, Burchiello e poi Berni. Si tratta di una linea che da rifacimenti burchielleschi giovanili come “Alla Musa odiernissima” (1856) e “Il burchiello ai linguaioli” (1857) giungerà fino alle rivisitazioni erudite di “Maggiolata”, “Mattinata”, “Disperata” e “Dipartita” (1871-1882) delle Rime nuove.
Superata la iniziale e a tratti pedissequa sequela di tali modelli canonici, il Carducci dei tardi anni Sessanta e dei primi anni Settanta travasa nei contenitori tradizionali della metrica e della lingua italiane abbondante materiale fonomorfologico, sintattico e lessicale attinto direttamente alle lingue antiche: il latino soprattutto, e in minor misura anche il greco (cfr. Migliorini 1988: 613; Nencioni 1987: 306).
Si realizza così una corrispondenza fra le tematiche di un classicismo estetico (per es. nelle Primavere elleniche, del 1872) e civile (per es. in “Agli amici della Valle Tiberina”, 1867) e una lingua poetica in cui parole e forme antiche descrivono, trasfigurandole, realtà moderne. Tale tendenza s’estende anche a componimenti di tematica amorosa come la ‘barbara’ “Alla stazione in una mattina d’autunno” (1875). Carducci stesso si mostra consapevole del possibile effetto di dissonanza stilistica che può derivare da simili procedimenti. Così, “Intermezzo” (1874-1886) propone deliberatamente un registro ironico e paradossale, il cui effetto di amaro sarcasmo appare, tuttavia, diverso rispetto a quello di operazioni in parte analoghe di altri poeti coevi: a più riprese è stato proposto per es. il confronto con Gozzano.
A parte simili occasionali deviazioni, la linea principale del percorso linguistico e stilistico carducciano resta quella della conciliazione dell’antico e del nuovo. Essa culmina col perfezionamento di un sistema già introdotto in Italia nel corso di precedenti stagioni classicistiche: la metrica barbara, frutto dell’adattamento all’italiano delle misure elaborate per la prosodia delle lingue classiche. La composizione delle Odi barbare, lungo tutta la fase più matura della produzione carducciana (a partire dai primi anni Settanta), si intreccia con la prosecuzione di una poesia compiutamente ‘volgare’, cioè in rima e nei metri convenzionali. A tali caratteri formali alludono, per es., titoli di raccolte come Rime nuove e Rime e ritmi, che richiamano anche alla generale tendenza carducciana per cui le sillogi poetiche si addensano attorno a nuclei insieme tematici e stilistici più che a tranches cronologiche di composizione.
Parallelamente allo sviluppo di una poesia civile rivolta ai nodi della cultura risorgimentale, la predilezione del Carducci anziano per il tono elegiaco e per l’esplorazione di motivi intimistici porta, soprattutto nelle Rime nuove e nelle Odi barbare, all’affinamento di un registro privo di oltranze espressive, attentamente bilanciato fra gravità e soavità. Tra i componimenti più noti di questo genere sono “Il bove” (1872, nelle Rime nuove), “Nevicata” (1881, nelle Odi barbare) o “San Martino” (1883, ancora nelle Rime nuove).
Fra gli altri filoni della sua produzione, ben caratterizzato anche dal punto di vista linguistico è quello relativo al mito del medioevo (“La leggenda di Teodorico”, 1884-1885) e in particolare all’età comunale (“Poeti di parte bianca”, 1867; “Faida di comune”, 1875-1887; “Su i campi di Marengo”, 1885; “Della canzone di Legnano - Parte prima”, 1876-1879), a cui ‒ pur mantenendo l’impianto complessivo della ballata romantica ‒ Carducci adibisce coloriture stilistiche ispirate a quelle dell’antica poesia italiana e romanza.
La lingua poetica carducciana è esaminabile fin nei suoi minuti caratteri grafici e fonetici, e anche nel processo elaborativo dei testi. Ciò si deve all’esistenza di edizioni realizzate sotto il diretto controllo dell’autore e alla conservazione di una ingente mole di abbozzi, stesure manoscritte, prove di stampa (conservate perlopiù presso l’archivio-biblioteca di Casa Carducci, a Bologna). Di eterogenea qualità le stampe postume: si oscilla tra il minimo di affidabilità dimostrato dai volumi della prima Edizione nazionale (Opere, 1935-40; ancor più scadenti le Lettere, 1938-68) e la raffinatezza filologica di stampe più recenti: da quella delle Odi barbare curate da Gianni A. Papini (1988) a quelle, corredate di ricchi apparati, della nuova Edizione nazionale varata nel 2001 per i tipi di Mucchi.
L’adozione, da parte di Carducci, di grafie latineggianti già minoritarie, o del tutto tramontate nell’uso del suo tempo, dimostra già al livello più superficiale la sua ricerca di un verso classicamente atteggiato (si vedano taluni nessi consonantici conservati, come instilla, consparso). Ancora, nei molti casi in cui la lingua poetica tradizionale offriva coppie di forme fonetiche variamente connotate, Carducci propende quasi sempre per le alternative meno consuete nell’uso prosaico, che sono di norma le più arcaiche e latineggianti. Così è, per es., per l’alternanza tra voci dittongate e non dittongate (tepido e non tiepido, domo e non duomo), o tra coppie con diversa vocale tonica (vulgo preferito a volgo, surgo alternante con sorgo) o atona (officio prevalente su ufficio, securo su sicuro).
Ancor più significativa del frequente affiorare di forme letterarie (o culte) è, tuttavia, la loro continua alternanza con gli allotropi meno connotati; è il caso della libera oscillazione di lito e lido o di ripa e riva, di spica e spiga, sovente condizionati da esigenze di rima, e talvolta, come per macro (accanto a magro), da reminiscenze poetiche (in questo caso dantesche, data la rima con sacro, come in Par. XXV, 1-3). Probabile ascendente letterario (si tratta questa volta della poesia toscana quattrocentesca) hanno anche talune tipiche forme toscane come ragghiare «ragliare», rugghiando «ruggendo» o rignino «ringhino». Si tratta di occasionali aperture a un tono toscaneggiante cui Carducci indulge solo raramente, marcando anche in ciò la sua distanza da quella che egli considera l’affettazione di tanti contemporanei, non solo toscani (gli «stenterelli» di un celebre verso di “Davanti San Guido”, 1886; Capovilla 1987: 57-59).
In ambito morfologico, indice dell’acuta sensibilità stilistica carducciana è per es. l’alternanza tra scrizioni analitiche (tipo de la) e scrizioni univerbate (tipo della) delle preposizioni articolate: le une preferite nei versi, le altre comunemente impiegate nei titoli delle poesie e liberamente alternate in prosa. Per il resto, anche la morfologia e la microsintassi manifestano un vivace polimorfismo che, non uscendo dalla gamma di alternative messe a disposizione dalla lingua poetica tradizionale, ne sfrutta tutte le possibilità, attestandosi, specie nelle poesie giovanili, su un tasso particolarmente alto di arcaismo, e concedendo nelle successive sempre maggiore spazio a voci condivise dalla prosa.
Così, Carducci usa quasi solo nei Juvenilia forme come turbo (accanto a turbine), spene (accanto a speme), rubello (accanto a ribelle), ed è tra gli ultimi autori a impiegare le voci ‘poetiche’ della ‘sesta persona’ dell’indicativo perfetto (tipo amâr, fûro), e addirittura le forme interrogative di seconda persona (tipo contastú, vedestú): opzioni in cui si manifesta, ancora una volta, la tendenza al recupero di forme e voci della tradizione.
Anche il lessico carducciano si caratterizza per il ricorso ad accusati ➔ cultismi, in alcuni casi attinti direttamente alle lingue classiche, cioè sostanzialmente privi di tradizione nella precedente letteratura volgare (per es. prandi, tede, sitisce nei Juvenilia; soffolto e luteo nei Levia gravia; pèltasti, poplite, clipeo e faselo nelle Odi barbare). Il creativo riuso di materiale greco-latino si riflette anche sulla formazione di nessi lessicali e di composti arieggianti il linguaggio epico (armipotente in “Alla musa odiernissima”, 1856, lungo-chiomato in “Fuori la Certosa di Bologna”, 1879).
Altrettanto tipica è, tuttavia, la studiata convivenza di materia verbale attinta ai registri più disparati, né solo a quelli coonestati dalla tradizione poetica anteriore. Così, l’ispirazione classicamente giambica di alcune opere e il riferimento a modelli quali la produzione realistica e giocosa della letteratura italiana dei primi secoli giustificano da un lato il ricorso a un lessico familiarmente quotidiano (prostituzione, racchetta nei Levia gravia, bordel e cavatappi – in rima con Appi – nei Giambi ed epodi), da un altro quello a termini altrettanto ‘bassi’, ma attinti alla tradizione burlesca (buggerìo, tantaferate, inghebbiare, giocare a frussi nei Juvenilia) e ad espressive neoformazioni derivazionali (arcibuffoni, italianon, repubblicanone, ancora nei Juvenilia). Analoga ispirazione ha il rovesciamento parodico di una retorica nazionalistica cui lo stesso Carducci dà altrove un contributo decisivo. Così è per es. per l’immagine dell’Italia che «su ’l gran Campidoglio si scigne le gonne / e nuda su l’urna di Scipio si dà» (“Meminisse horret”, 1871), evidente deformazione del testo di Mameli divenuto poi inno nazionale.
Il procedimento è ancor più espressivisticamente connotato in un’opera come “Intermezzo”: nel singolare «ditirambo», voci come uccellare, sgualdrina, sghimbescio, grugno, serviziale, cesso, olio di merluzzo convivono con ➔ arcaismi come aulire e drento e con neologismi come aristocrate (calco del francese aristocrate; Serianni 2008: 531).
Se un diverso tipo di legame con l’antico si manifesta nell’adozione di una terminologia scrupolosamente ‘archeologica’ nel filone della poesia medievaleggiante (in “Faida di comune”: masnada, partigiane, verrettoni; in “Poeti di parte bianca”: damigello, sire, morello, spiedo, ecc.), in altri ambiti la produzione carducciana inclina piuttosto a un gusto vicino a quello della poesia simbolista coeva. È il caso, per es., della ricchissima gamma lessicale impiegata per la nominazione dei colori, soprattutto nelle Rime nuove e nelle Odi barbare. In queste ultime, oltre all’onnipresente roseo, si hanno aggettivi cromatici come virenti e verzicanti assieme a verdi, rogge e rosse, candidi e bianca, vermiglio e rosso, e ancora cerulee, violaceo e i verbi infoscare e azzurreggiare. Un’espressività rara e marginale nella poesia classica è ricercata anche attraverso la sollecitazione di nomi propri esotici (per es. gli aztechi Huitzilopotli o Guatimozino nella barbara “Miramar”, 1878) o italiani, ma peregrini, come la toponomastica alpina di “Cadore”, 1892, in Rime e ritmi (testo in cui trova spazio anche uno dei rari dialettalismi di Carducci, il veneto cìdolo «tronco per fluitazione»).
La scarsa fortuna del magistero metrico e stilistico di Carducci nella poesia novecentesca, che prese strade ben diverse da quelle da lui battute, non può far dimenticare il profondo influsso che egli ebbe sulla formazione di autori come Pascoli (che fu anche suo allievo all’università), D’Annunzio, Montale e su una schiera di minori. Un censimento puntuale della loro memoria carducciana è ancora da redigere, ma la sua portata si può intuire alla luce del potente impatto che la poesia di Carducci ebbe su tutti i letterati italiani del primo Novecento (Nencioni 1987: 290). A lungo proposto dalla prassi scolastica come vate della poesia civile e garante letterario dell’identità culturale della Nazione, Carducci fu uno degli ultimi poeti i cui versi vennero mandati a memoria, sui banchi di scuola, da intere generazioni di italiani. Paradossalmente, ciò ne favorì il generale rigetto ideologico, letterario e stilistico nel secondo Novecento, ma ne sancì anche il ruolo di creatore di un repertorio linguistico (frasi, locuzioni e termini entrati financo nell’uso quotidiano) di straordinaria diffusione anche popolare (per es., t’amo pio bove).
Carducci, Giosuè (1889-1909), Opere, Bologna, Zanichelli, 20 voll.
Carducci, Giosuè (1935-1940), Edizione nazionale delle opere, Bologna, Zanichelli, 30 voll.
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Carducci, Giosuè (2001-), Epistolario. Carteggi, in Id., Edizione nazionale delle opere, nuova ed., Modena, Mucchi.
Capovilla, Guido (1987), Carducci e la lingua italiana. Una panoramica, in Carducci poeta. Atti del Convegno (Pietrasanta - Pisa, 26-28 settembre 1985), a cura di U. Carpi, Pisa, Giardini, pp. 43-101.
Contini, Gianfranco (1968), Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968, Firenze, Sansoni.
Devoto, Giacomo (1975), Giosuè Carducci e la tradizione linguistica dell’Ottocento, in Id., Itinerario stilistico, Firenze, Le Monnier, pp. 81-105.
Migliorini, Bruno (1988), Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani (1a ed. Firenze, Sansoni, 1960).
Nencioni, Giovanni (1987), Sulla lingua poetica di Giosuè Carducci, «Rivista di letteratura italiana» 5, 2, pp. 289-310.
Serianni, Luca (2007), Carducci prosatore: un bilancio, in Carducci 2007: solo un anniversario?. Atti del LXXVIII congresso internazionale della ‘Società Dante Alighieri’ (Roma, 28-30 settembre 2007) (http://www.segnideltempo.it/SiteImgs/Carducci prosatore un bilancio di Luca Serianni.pdf)
Serianni, Luca (2008), Giosuè Carducci, Intermezzo, in Filologia e storia letteraria. Studi per Roberto Tissoni, a cura di C. Caruso & W. Spaggiari, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 525-532.
Tomasin, Lorenzo (2007), «Classica e odierna». Studi sulla lingua di Carducci, Firenze, Olschki.