GIANAVELLO (Giavanello), Giosuè
Nacque nel 1617 a Liorato, nei pressi di Pinerolo, in Val Pellice, da Giovanni Gignous (detto Gianavello), originario di Bobbio Pellice, e da Caterina, morti entrambi nel 1634. Ebbe tre fratelli: Margherita, Giacomo e Giuseppe. L'unione con Caterina Durand di Rorà, sposata nel 1639, gli diede quattro figli, tre femmine (Margherita, Giovanna e Maria) e un maschio (probabilmente di nome Giovanni).
Di religione valdese, agricoltore come la maggior parte dei convalligiani, il G. deve la sua fama all'azione di resistenza e difesa delle valli valdesi, condotta contro l'autorità sabauda a partire dal 1655, all'epoca della violenta offensiva sferrata dall'esercito alla vigilia di Pasqua (le "Pasque piemontesi") per ridurre le valli all'osservanza cattolica. Le Pasque piemontesi aprirono nelle valli valdesi un lungo periodo di crisi e di sangue e imposero definitivamente l'interpretazione restrittiva del patto di Cavour, che nel 1561 aveva riconosciuto ai valdesi le libertà religiose nella parte alta della valle, anche se con molte limitazioni del diritto di residenza, ristretto alle sole zone in cui era consentito il culto.
Con un manipolo di uomini - successivamente infoltito da arruolamenti volontari di correligionari d'Oltralpe - il G. improvvisò una resistenza durata per tutta l'estate del 1655. Stabilito il quartier generale a Verné, presso Angrogna, e riuniti sotto il comando di B. Jahier e del G., entrambi colpiti da taglia, i ribelli valdesi ottennero una serie di vittorie militari sul campo, grazie alla tattica messa a punto dal G. che, sfruttando abilmente la conoscenza delle montagne, si fondava su attacchi repentini compiuti da piccole compagnie ai danni di singoli reparti dell'esercito e su rapide incursioni notturne nei paesi, terrorizzando la popolazione.
Il 18 giugno 1655, assente Jahier col grosso delle truppe, l'esercito sabaudo assaltò il Verné e fu respinto dopo una cruenta battaglia, nella quale il G. restò ferito: trasportato a Pinasca, fu assente dal campo per cinque settimane. La tenace resistenza valdese e la mediazione del re di Francia Luigi XIV, che premeva per un reintegro della minoranza nei suoi diritti, convinsero il governo ducale a concedere una tregua. Il 3 agosto iniziò la conferenza di pace a Pinerolo e due settimane più tardi fu firmata la pace (le "Patenti di grazia"). Questa riconosceva ai valdesi gli antichi diritti religiosi e civili, consentendo a chi aveva abiurato di tornare alla fede avita; prevedeva la liberazione e lo scambio dei prigionieri e concedeva un'importante esenzione d'imposte. Un'amnistia generale annullava, inoltre, i bandi contro il G. e i suoi compagni. Furono però mantenute due restrizioni: il divieto per i valdesi di risiedere a Luserna, a Bibiana e nei comuni del piano, con l'obbligo di alienarvi entro tre mesi le loro proprietà, e il divieto di culto in San Giovanni, dove pure era consentita la residenza.
La famiglia del G., smembrata in seguito alle Pasque piemontesi, dopo la pace si ritrovò nella casa di Liorato. La moglie Caterina e la figlia maggiore tornarono in patria dopo la prigionia nel castello di Torino, mentre le altre due figlie erano state a servizio forzato presso qualche famiglia cattolica. Il G. riprese a lavorare la sua terra; la fama acquisita nelle imprese belliche gli aveva procurato una certa autorevolezza: fu eletto anziano del suo quartiere nel concistoro di Rorà e fu delegato della parrocchia ad alcuni sinodi (di certo era presente in quello tenuto a Torre Pellice nel giugno 1660, quando risulta tra i firmatari di una petizione, rivolta al re d'Inghilterra, per ottenere la conferma di un sussidio già concesso ai valdesi da O. Cromwell). Il 3 giugno 1657 fece parte della delegazione incaricata di dirimere i contrasti relativi alla separazione del Comune di San Giovanni da quello di Luserna (i verbali della seduta conclusiva, del 3 luglio 1657, riportano la firma del G.). Nel 1658 il G. rappresentò la sua parrocchia nella commissione che acquistò a Torre Pellice una "Casa delle Valli", da utilizzare come sede dell'amministrazione della Chiesa, della scuola secondaria per l'istruzione media e di altre istituzioni (l'atto di acquisto, del 3 ag. 1658, conserva in calce la sua firma).
Le Patenti di grazia non interruppero, tuttavia, la campagna ostile nei confronti dei valdesi. L'interpretazione unilaterale di alcune clausole e la violazione aperta di altre contribuivano a mantenere nelle valli un clima di tensione. Il 22 apr. 1662 i valdesi presentarono al duca una memoria sulle vessazioni subite dopo le Patenti: in particolare, la ricostruzione del forte di Torre Pellice e lo stabilirvisi, alla fine del 1656, di una guarnigione offrirono alle truppe ducali l'occasione per riprendere a soggiogare la popolazione valdese, già costretta ad abbandonare in fretta i territori di Luserna, Bibiana e del piano, spesso senza poter liquidare i propri beni. La deposizione giudiziaria di un fonditore di Pinerolo attesta l'acquisto di sei colubrine da parte del G. già il 26 marzo 1656; intanto un po' ovunque i valdesi ammassavano armi e cibarie. Nell'autunno del 1658, a seguito di ulteriori sopraffazioni, ricominciò la resistenza armata.
Il G. fu infine citato in tribunale a Torino e condannato in contumacia al bando insieme con i "banditi". I soldati della guarnigione di Luserna e Torre Pellice diedero loro la caccia, ma la popolazione civile li proteggeva, ignorando gli editti ducali che invitavano a consegnarli alle autorità. Più volte i valdesi presentarono al governo ducale suppliche e memorie, chiedendo la grazia per i banditi, il condono generale, il ristabilimento dei patti; all'inizio del 1663, anche i Cantoni svizzeri protestanti intercedettero per loro, ma il duca impose la consegna dei banditi come condizione preliminare per qualsiasi pacificazione e, per mano del nuovo governatore del forte di Torre Pellice, G.B. Malingri, conte di Bagnolo, mise in atto una politica di dura repressione, cui il G. rispose con un'intensa attività di preparazione militare: organizzò tatticamente i banditi, si assicurò la collaborazione di centinaia di valligiani armati, stabilì il quartier generale al Ciarmis (Villar), costituì intorno a sé un piccolo consiglio di guerra e fortificò la valle. Sostenuto apertamente dalla popolazione valdese e dai pastori ministri del culto, egli riprese la tattica del 1655, con guerriglia, attacchi improvvisi ai reparti di truppa, incursioni nei paesi, saccheggi, portando rovina e terrore nei villaggi del piano. Il 25 giugno il duca emanò un editto che impose ai valdesi di rientrare nelle loro case entro quindici giorni e di collaborare con le truppe allo scopo di eliminare i banditi. Nell'elenco dei colpevoli della ribellione il G. risulta condannato al bando e alla confisca dei beni, quindi alla tortura e all'uccisione per decapitazione, allo squartamento e alla esposizione del capo. Per tutta l'estate editti ducali e assalti delle truppe si contrapposero, inutilmente, alla guerriglia valdese. Infine, ancora una volta, le pressioni del re di Francia e dei Cantoni svizzeri protestanti spinsero il duca a rilasciare un salvacondotto che autorizzava i rappresentanti dei valdesi a recarsi a Torino per la conferenza di pace, apertasi il 17 dic. 1663.
L'editto di pace, emanato il 14 febbr. 1664, approvato dai valdesi in assemblea plenaria il giorno 16, ratificato dal Senato e posto subito in esecuzione, riconobbe i diritti religiosi e civili già sanciti dalle Patenti; confermò il divieto di culto in San Giovanni con l'obbligo di trasferimento per le famiglie residenti nel quartiere delle Vigne (come quella del G.), che fu separato da San Giovanni e aggregato a Luserna. I valdesi ottennero anche la completa amnistia per tutti gli atti avvenuti durante la guerra, tranne quelli dei banditi, costretti quindi all'esilio e alla confisca dei beni.
Il G. si rifugiò a Ginevra, da anni asilo dei perseguitati di religione evangelica, dove trovò ospitalità presso un maestro del famoso collegio di Calvino (probabilmente G. Planchan). Qui egli attivò un commercio di acquavite e visse appartato, rinunciando, in favore dei valdesi, a un regolare sussidio concesso dalla città.
Molte notizie su questo periodo della sua vita derivano dalle relazioni di un informatore della corte torinese che lo sorvegliava a distanza. A Torino, infatti, si era preoccupati per gli ininterrotti contatti del G. con le valli, dove nel giugno 1665 egli dovette rientrare, secondo una relazione del governatore Compans de Brichanteau. Nel viaggio di ritorno a Ginevra il G. condusse probabilmente con sé il figlio diciottenne, che nel 1667 era già rimpatriato, interrogato dal governatore sui movimenti e le intenzioni del padre. L'interesse non sopito del G. per la situazione delle valli preoccupava, dunque, il governo ducale, che giunse a ordirne l'omicidio.
Nei primi mesi del 1670 si conclusero, intanto, le operazioni di confisca e liquidazione dei beni del G. a Liorato, complicate da una lunga vertenza tra il Brichantau e il marchese d'Angrogna, A. Luserna di Manfredi. Caterina raggiunse il marito a Ginevra, dove morì poco dopo in circostanze ignote. Ammalatosi, il G. non poteva più lavorare, ma grazie alla pensione riottenuta per interessamento dell'amico F. Turrettini, noto teologo protestante, visse tranquillo fino al 1685, quando il decreto di revoca dell'editto di Nantes, emanato da Luigi XIV, soppresse il culto protestante, condannando all'esilio e alla morte migliaia di sudditi.
L'editto generò una forte preoccupazione anche nelle valli valdesi. Il G. manifestò il suo sostegno con una prima Istruzione, indirizzata al figlio e, per suo tramite, a tutti i correligionari. Il documento è l'unico autografo importante del G.; databile al novembre 1685, scritto in un italiano intriso di francesismi e termini dialettali, scorretto e disordinato nella grafia e nella forma, esso forniva ai convalligiani una valutazione della situazione, li rassicurava circa l'interessamento svizzero-olandese presso il duca, li consigliava di accordarsi per la comune difesa coi cattolici del piano, offriva indicazioni utili per la fortificazione delle valli, per le manovre di attacco e per l'acquisto di colubrine.
In assenza di una guida carismatica sul campo, in quei giorni dalle valli venivano spesso richiesti consigli e indicazioni al G., che rispose con una seconda Istruzione (Memorie ed avvisi dati alli religionari per ripararsi in caso d'attacco), vergata in francese e corretta da un anonimo aiutante, con l'aggiunta in calce, di pugno del G., di un breve post scriptum. Il documento, databile tra la fine del 1685 e l'inizio del 1686, esponeva i fondamenti etici di una resistenza vittoriosa e un piano d'azione comprendente il regolamento per l'organizzazione della truppa, lo schema per le fortificazioni del terreno, il metodo del combattimento, le norme per la difesa, la resistenza, le trattative col nemico. Il messaggio dovette avere una buona accoglienza nelle valli, poiché in quei mesi il comportamento dei valdesi sembrò ispirarsi ampiamente ai consigli ricevuti, che furono riassunti e coordinati in un Regolamento.
Il 7 febbr. 1686 fu affisso nelle valli il decreto di soppressione della religione valdese. La situazione appariva talmente compromessa che gli ambasciatori dei Cantoni protestanti, persa ogni speranza di poter intervenire altrimenti in favore della causa valdese, ottennero dal duca l'autorizzazione a proporre un esilio di massa in Svizzera. Mentre continuava la resistenza armata, la casa del G. a Ginevra diveniva un luogo di incontro tra i rifugiati, suscitando l'indignazione del governo di Francia, che invitò il Consiglio di Stato ginevrino a prendere provvedimenti. Intanto i Cantoni svizzeri protestanti, per mezzo dell'ambasciatore Gaspare di Muralt, avviavano trattative per la liberazione dei prigionieri, impegnandosi ad allontanarli dalle frontiere e a impedire il loro ritorno in patria.
Nell'ultima fase della sua vita il G. partecipò attivamente all'organizzazione del rimpatrio, rendendosi per questo inviso all'amministrazione ginevrina. Quando, nel 1688, fu tentato un primo rientro nelle valli, il G. sostenne i suoi con una terza Istruzione, contenente suggerimenti sulla traversata della regione alpina e una Istruzione per attaccare le Valli a mano armata. Il fallimento del tentativo produsse conseguenze penose sia sui valdesi sia sul G., che ricevette diversi ordini di espulsione, sempre revocati a causa del grave stato di salute. Tuttavia l'opera di organizzazione del rimpatrio continuava, incoraggiata soprattutto dai mutati scenari internazionali. Quando la spedizione fu pronta, il G. preparò un nuovo messaggio (Instruttione data alli Ribelli della Valle di Lucerna che vi sono ritornati nell'anno 1689 della maniera che debbono regolarsi nelle marchie e combatti), che riprendeva l'Istruzione dell'anno precedente, completandola e adattandola a un destinatario più complesso, essendo quel corpo di spedizione più grande e organizzato del precedente, grazie all'ausilio di gruppi protestanti forestieri.
Il 3 genn. 1690 il G. dettò il suo testamento a un notaio ginevrino. Il documento consente di ricostituire lo stato della sua famiglia perché vi sono nominate le due figlie Margherita (vedova di B. Marauda) e Maria (moglie di S. Bonnet); i nipoti Giosué e Giovanni (figli del fratello Giuseppe, caduto in un combattimento del 1663) e Giovanni (figlio del fratello Giacomo). Vi è inoltre nominato il nipote Pietro (figlio della figlia Giovanna e di G. Muston, morti entrambi in seguito alle persecuzioni del 1686), che il G. aveva visto partire per la spedizione di rimpatrio e che era stato fatto prigioniero dai Francesi. Non è invece nominato il figlio maschio, probabilmente defunto.
Il G. morì a Ginevra il 15 marzo 1690.
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