JANAVEL (Gianavello), Giosuè
Nacque nella frazione Vigne, tra Luserna e Rorà, in Val Pellice (Torino) da Jean e Catherine (il cui cognome non è noto) nel 1617.
La famiglia discendeva dai Gignous di Bobbio Pellice; il cognome Janavel, stabilizzatosi da tempo, derivava probabilmente da un nomignolo (janavel in lingua d'oc è il gufo reale). Il padre dello J., Jean, morì nel 1634; la madre nel 1639. I figli si divisero allora i beni familiari e nello stesso anno lo J. sposò una ragazza di Rorà, Catherine Durand Rivet (o Ruet), trasferendosi in una casa non lontana da quella paterna, in località Liorato nota oggi come Gianavella inferiore. Dal matrimonio nacquero quattro figli, tre femmine (Margherita, Maria, Giovanna) e un maschio, Jean.
Come usuale nelle valli, lo J. era bilingue - francese e italiano - e sapeva leggere. A scrivere imparò da adulto: la sua prima firma, incerta, è apposta su un atto del 1652, ma le sue lettere in italiano al cognato Ruet (15 sett. 1667) e al figlio Jean (1686), e quelle in francese (1686 e 1687) a Bernhard von Muralt di Berna mostrano una completa padronanza della lingua scritta. Di famiglia modesta e oscura, nota solo per il poco che risulta da alcuni atti di compravendita che indicano una situazione economicamente agiata, lo J. sarebbe probabilmente rimasto nell'anonimato se le burrascose vicende del secolo di ferro in cui era nato non lo avessero costretto ad abbandonare agricoltura e pastorizia per prendere le armi a difesa della vita, dei beni e soprattutto della sua fede. Gli Janavel, come la maggioranza degli abitanti delle valli, erano infatti valdesi, cristiani separati da secoli dalla Chiesa di Roma e accusati di eresia.
Dopo l'adesione dei valdesi alla riforma ginevrina nel 1532 nel sinodo di Chanforan, essi erano stati a lungo perseguitati. In Piemonte, dopo un anno di guerra inconcludente, il duca di Savoia Emanuele Filiberto, con l'accordo di Cavour (5 giugno 1561), concesse "a quelli delle Valli chiamati valdesi" di professare la propria fede liberamente, definendone con cura le modalità e i limiti territoriali. Quando la peste del 1630 uccise 11 dei loro 13 pastori, i valdesi accolsero predicatori formatisi all'Accademia di Ginevra: le patriarcali comunità montane si conformarono al modello ginevrino e nel culto l'italiano venne sostituito dal francese, che restò la lingua ufficiale della Chiesa valdese fino alla seconda metà del XIX secolo.
Tanto Vittorio Amedeo I quanto la regina Maria Cristina, reggente per Carlo Emanuele II, ribadirono più volte i limiti sanciti dall'accordo di Cavour, ma i decreti ingiuntivi emanati ripetutamente (1637, 1639, 1641, 1650, 1653) restarono regolarmente disattesi; il 25 genn. 1655 venne emanata un'ennesima ordinanza. In quel momento, però, il duca era assai più forte del passato perché la ripresa della guerra tra Francia (con cui i Savoia erano alleati) e Spagna aveva portato alla presenza, in Italia, di consistenti truppe francesi destinate all'assedio di Pavia (luglio - settembre 1655). Con loro, Giacinto Simione marchese di Pianezza, che, a capo di solo 500 uomini, tra cui i tristemente noti mercenari irlandesi, aveva iniziato il 17 aprile lo sgombero della bassa Val Pellice, poté inseguire i valdesi sui monti, devastare le borgate e uccidere tutti gli abitanti (24-27 aprile). Forte del successo, decise di allargare la repressione e le milizie francesi ai suoi ordini saccheggiarono le altre valli valdesi, uccidendo la popolazione e bruciando le case. Ai primi di maggio le operazioni erano concluse. Si era trattato di un vero e proprio massacro, consegnato alla storia come "le Pasque piemontesi" e paragonato alla "notte di S. Bartolomeo" (1572) e al "sacro macello" della Valtellina (1620). La sua stessa entità suscitò immediatamente l'organizzazione della resistenza: nel giro di pochi giorni a Pinasca, sulla sponda francese del Chisone, i fuggitivi organizzarono un embrione di governo delle comunità disperse, mentre sui monti si formavano bande armate decise a riconquistare le proprie terre.
Tre uomini animarono la resistenza: il moderatore, pastore Giovanni Léger, Bartolomeo Jahier di Pramollo in Val Chisone e lo J. in Val Pellice. Mentre Léger correva a Parigi per denunciare l'accaduto e cercare aiuti, Jahier e lo J. univano le forze. Stabilito il proprio quartier generale a Verné di Angrogna, si rifornirono nel Queyras, organizzarono uno squadrone di cavalleria e iniziarono una serie di scorrerie in pianura, giungendo fino a Crissolo. Il governo rispose istituendo una taglia sulle loro teste: 600 ducatoni per Léger, Jahier e i suoi fratelli; 300 ducatoni per lo J. e i suoi fratelli. Nel giugno 1655, Jahier venne ucciso in uno scontro a Osasco; lo J., ferito ad Angrogna, si ritirò sulla Vaccera e divenne il capo riconosciuto della guerriglia armata. Forte della sua perfetta conoscenza del territorio e dotato di capacità militari sino ad allora insospettate, contrastò con successo ogni tentativo sabaudo di riprendere il controllo pieno delle valli, mentre Léger sollecitava l'attenzione internazionale sui fatti italiani e la solidarietà dell'Europa riformata si attivava raccogliendo volontari e denaro per aiutare i perseguitati. O. Cromwell, soprattutto, prese a cuore la sorte dei valdesi, ponendo addirittura la fine delle persecuzioni come condizione per aderire alla coalizione antispagnola; sotto la pressione internazionale la reggente Cristina di Francia accettò di trattare e il 18 ag. 1655 concesse, a nome del duca Carlo Emanuele II, la Patente di grazia e perdono, accompagnata da un Atto di sottomissione firmato da Giovanni Léger e dagli altri 17 delegati valdesi.
La Patente riconosceva ai valligiani l'antica libertà di culto e di coscienza nelle valli, li esonerava dalle tasse per cinque anni e prevedeva la liberazione dei prigionieri; tra gli altri vennero liberate anche la moglie e le figlie dello Janavel. L'accordo non mise però fine ai torbidi, e lo J. restò sui monti con qualche centinaio di compagni, continuando per anni a mantenere alta la tensione con un crescendo di razzie, incursioni e rappresaglie contro le truppe sabaude. Nel giugno 1663 il duca promulgò un editto contro 44 banditi, ma, dichiarando ugualmente colpevoli tutti gli abitanti delle valli, promosse una decisa azione di forza contro la Val Pellice. Dopo mesi di scontri tra la banda dello J. e l'esercito regolare, su pressione dei Cantoni svizzeri, Carlo Emanuele II accettò di aprire una trattativa e nel febbraio 1664 firmò le Patenti di Torino, che concludevano la cosiddetta "guerra dei banditi", riconfermando gli accordi del 1655, ma escludendo dall'amnistia i banditi.
Lo J., già condannato a "bando, confisca, tenaglie, morte e quarti con esposizione della testa in luogo eminente" abbandonò definitivamente le valli; i suoi beni vennero confiscati e la casa distrutta. Con il figlio Jean si stabilì a Ginevra, tradizionale rifugio dei valdesi e aprì un'osteria; nel 1667 il figlio rientrò in Italia, mentre la moglie lo raggiunse in Svizzera nel 1670.
Il ruolo che egli aveva svolto nella resistenza delle valli faceva però di lui un punto di riferimento importante, un interlocutore prezioso per coloro che, dall'esilio, meditavano il rientro in patria; non a caso le autorità ginevrine, preoccupate per i fastidi che simili iniziative avrebbero potuto procurare loro, lo tenevano sotto stretta sorveglianza.
A Ginevra, in effetti, la comunità degli esuli seguiva con apprensione la recrudescenza delle persecuzioni, conseguenza diretta della revoca dell'editto di Nantes (1685) e delle pressioni di Luigi XIV sul duca di Savoia. Contravvenendo agli accordi, con l'editto del 31 genn. 1686 il duca impose la distruzione dei templi, l'esilio di pastori e maestri di scuola e il battesimo cattolico dei neonati. Le comunità valdesi si opposero e sotto la guida del pastore Enrico Arnaud presero le armi; la repressione fu feroce e nel volgere di un paio di mesi i valdesi furono sterminati, imprigionati e i loro beni messi all'asta. A trent'anni di distanza si ripetevano le "Pasque piemontesi". I superstiti delle stragi del 1686 (circa 3000 su una popolazione che contava 13.500 - 14.000 persone), dispersi tra Svizzera e Germania, iniziarono presto a organizzarsi per tornare sui loro monti.
A Ginevra lo J. seguiva con attenta partecipazione il progetto di riconquista delle valli, che l'instancabile Enrico Arnaud metteva a punto; sapeva bene di essere ormai troppo vecchio per partecipare in prima persona, ma volle dare comunque il proprio personalissimo contributo offrendo ai suoi fratelli una guida per la loro impresa. Nacquero così l'Istruzione militare (redatta in francese, forse dell'estate 1685: Arch. di Stato di Torino, Corte, Paesi, Piemonte, Pinerolo città e provincia), e il Réglement à observer dans le corpe de garde et généralement dans tous les exercises et fonction de la guerre faite contre ceux des vallées de Piémont au sujet de leur religion (forse dell'autunno 1685; ibid., m. 19, n. 26), documenti interessantissimi, in cui il vecchio capitano riversava il frutto di tutta la sua lunga e fortunata esperienza di "bandito", la fede salda che lo aveva nutrito e sostenuto in tutta la sua vita, l'etica a cui aveva improntato la sua azione.
Senza retorica, con semplicità e naturalezza, il Réglement fornisce il quadro dell'impresa: si pone la fede a base dell'azione militare (pentimento, riconciliazione con Dio, letture edificanti e recita quotidiana della preghiera che conclude il testo), si delineano i limiti etici del comportamento di ufficiali e soldati (divieto di insultare i compagni ma anche il nemico, divieto di saccheggio e spoliazione dei morti, divieto di "débauche, larcin et autres semblables actions contraires à la loi de Dieu et de la société civile"), si passa a disposizioni organizzative che garantiscano ordine ed efficienza (organizzazione delle compagnie, compiti degli ufficiali, parsimonia nell'uso delle armi da fuoco), aggiungendo alcuni consigli inconsueti: "chaque corps de garde aura une demi-douzaine de faux et chaque soldat une fronde et trois ou quatre baguettes de fer dans chaque compagnie" (Jalla, 1986, p. 44).
L'Istruzione contiene invece un discorso molto dettagliato sulla preparazione e conduzione della spedizione e sul territorio, di cui lo J. mostra una straordinaria conoscenza, e precisi piani di attacco e difesa; sono indicati con precisione estrema i luoghi da fortificare, i percorsi da praticare, i passaggi più adatti a imboscate, le località in cui arroccarsi, la strategia di attacco. Anche qui con alcuni consigli pratici, e sperimentati, come quello di togliere i tetti alle case che vengono abbandonate per evitare che i soldati sabaudi ci si accampino distruggendole. Ma prima di prendere le armi bisogna appellarsi al sovrano: "la première chose que j'ay a vous dire, c'est de presenter des requestes a Votre Souverain les plus humbles quil se pourra puis quil ny a point d'autre aprés dieu que luy sur la terre" (Pascal, p. 47); solo se il duca resterà sordo alle suppliche dei sudditi, la lotta armata sarà lecita perché sarà difesa del diritto e non rivolta. Fede in Dio e fedeltà al sovrano devono essere i punti fermi per tutti, ribaditi, insieme a numerosi consigli pratici per la guerra imminente, nella lettera del febbraio 1686 indirizzata al figlio ma destinata anche agli altri compagni di lotta.
L'originale del Réglement e dell'Istruzione non si è conservato e non si hanno dati certi sulla data della stesura; ugualmente perduta è un'Istruzione militare in 14articoli, forse il primo scritto dello J., di cui parla l'ambasciatore sabaudo a Parigi in una lettera al duca del 6 maggio 1686 (Arch. di Stato di Torino, Corte, Materie politiche per rapporto all'estero, Lettere ministri, Francia, m. 119). Nell'Archivio di Stato di Torino sono conservate anche due copie di una coppia di istruzioni militari e strategiche, entrambe in francese, datate rispettivamente Suisse 1688 e Genève 1689, una di carattere generale per la conduzione del rimpatrio dei valdesi (incipit: Tres chers frères en Jésus Christ), e una più particolare, con indicazioni molto precise per le tre valli (Instruction pourattaquer les Vallées avec les armes). Gli studiosi che le hanno analizzate ritengono che la prima sia stata sicuramente redatta dallo J. e che le varianti della seconda siano frutto di una rielaborazione collettiva nell'imminenza della spedizione (1689-90).
Nel giugno 1690, dopo mesi di scontri sanguinosi, gli esuli guidati da Arnaud tornavano nelle loro valli: l'esito fortunato di quello che verrà definito "Glorioso rimpatrio" dipendeva dal cambio di alleanza di Vittorio Amedeo II, ma certo era frutto della strenua resistenza dello sparuto drappello di profughi arroccato alla Balziglia. La fine delle ostilità rendeva possibile il ritorno anche di tutti gli esuli.
Lo J. però non poté godere dell'atteso trionfo, dato che era morto a Ginevra il 5 marzo 1690.
Benché ignoti fino al 1849, allorché L'Écho des Vallées ne diede notizia, il fatto che l'Istruzione sia stata trovata indosso a combattenti, uccisi o catturati in val di Susa, che un esemplare sia conservato a Parigi (Service historique de l'Armée de terre) e che ne esistano traduzioni tedesche (Zurigo, Zentralbibliothek, datata 1685; Berna, Bürgerbibliothek, datata 1686) testimonia che gli scritti avevano avuto all'epoca una certa circolazione, e forse anche utilizzazione.
La conoscenza diretta dei suoi scritti, così suggestivamente intessuti di fede sincera e spirito pratico, contribuì notevolmente ad alimentare il mito dello J., mito nato immediatamente grazie alle pagine di Léger che nella sua Histoire générale ne ripercorse le gesta, ma radicatosi per la vicinanza che ogni montanaro sentiva con lui. Incarnazione dello spirito popolare, lo J. non appariva un eroe distante, era uno di loro, un contadino strappato ai campi dalla sua fede; i luoghi di cui parlava avevano ancora gli stessi nomi, erano immediatamente riconoscibili; il suo linguaggio era familiare; le sue scelte erano condivisibili e comprensibili.
"Bandito" e "valente capitano", "nuovo Mosè" e "leone di Rorà", "eroico difensore della libertà di coscienza", lo J. resta vivo nella memoria ma anche presente nella pubblicistica non scientifica. Nel 1854 Vincenzo Albarella, magistrato calabrese esule politico in Piemonte, ne fece il protagonista del suo ponderoso romanzo storico Gianavele, ovvero I valdesi di Piemonte. Storia del secolo XVII (Torino 1854); nel 1918 Giovanni e Ada Meille pubblicarono Giosuè Gianavello (in Bilychnis, III-IV [1918], pp. 204-211), dramma in quattro atti illustrato da P.A. Paschetto, con in appendice l'Istruzione; ancora negli anni Ottanta il gruppo folk torinese, i Cantambanchi, inseriva nel proprio repertorio una canzone sulle sue gesta.
Gli scritti dello J. sono pubblicati in F. Jalla, Réglement à observer dans le corps de garde, in Boll. della Società di storia valdese, CLVIII (1986), pp. 33-46; Id., Gli scritti di G. J. dal 1667 al 1688, ibid., CLXI (1987), pp. 27-53; Id., Gli ultimi scritti di G. Gianavello: le Istruzioni militari del 1688 e 1689, ibid., CLXIV (1989), pp. 21-61.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Materie politiche per rapporto all'estero, Lettere ministri, Francia, m. 119: Lettere del marchese T.F. Ferrero alla corte; Conférences faictes à Turin dans l'Hostel de Ville en présence des messieurs les ambassadeurs suisses entre les ministres de s.a.r. e les députez des Vallées de Luserne à la fin de l'année 1663 et au commencement de la courante 1664, Turin 1664; J. Léger, Histoire générale des Églises évangéliques de Piémont ou vaudoises, Leyde 1669; P. Sarpi, Istoria del concilio Tridentino, II, Londra 1757, p. 102; De la part prise à la glorieuse rentrée par J. J., in L'écho des Vallées, 1849, n. 4, pp. 49-54; n. 5, pp. 65-69; n. 6, pp. 81-83; J. Jalla, J. J., 1617-1690, in Bullettin de la Société d'histoire vaudoise, XXXVIII (1917), pp. 5-81; A. Pascal, Una istruzione militare inedita del grande condottiero valdese G. Gianavello, ibid., XLIX (1927), pp. 36-55; A. Jalla, I luoghi dell'azione eroica di G. Gianavello, Torre Pellice 1940; Id., La vita eroica di G. Gianavello: il capitano delle valli (1617-1690), Torre Pellice [1943]; A. Armand-Hugon, Le Pasque Piemontesi e il marchese di Pianezza (1655), in Boll. della Società di storia valdese, XCVIII (1955), pp. 52-62; Histoire mémorable de la guerre faite par le duc de Savoye contre ses subjectz des vallées d'Angrogne, Perosse, Saint Martin, et autres vallées circonvoysines, pour compte de la religion (1562), a cura di E. Balmas - V. Diena, Torino 1972; G. Tourn, I valdesi. La singolare vicenda di un popolo-Chiesa, Torino 1983, pp. 143 ss.; La vera relazione di quanto è accaduto nelle persecuzioni e i massacri del 1655 (1655), a cura di E. Balmas - G. Zardini Lana, Torino 1987; V. Minutoli, Storia del ritorno dei valdesi nella loro patria dopo un esilio di tre anni e mezzo (1698), a cura di E. Balmas - A. De Lange, Torino 1998; B. Peyrot, G. Gianavello, Torino 2001.