Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il fiorentino Giotto, erede e probabilmente allievo di Cimabue, porta a compimento tra fine Duecento e inizio Trecento la definitiva affermazione della pittura basata sulla resa dello spazio, delle anatomie e degli affetti; dà così inizio a una linea ideale che condurrà al Rinascimento e poi alla grande maniera. In un percorso per noi costituito da pochi fatti certi e molte supposizioni, Giotto si afferma come il più grande artista del suo tempo già per i contemporanei, e diventa da subito un mito. Le sue opere ad Assisi, Padova e Firenze sono solo le più note tra le numerosissime che produce assieme a una folta bottega.
Giotto, nato nel Mugello con ogni probabilità nel 1267 e morto nel 1337, acquisisce già durante la vita una notorietà e una considerazione assolute; diviene l’emblema della pittura “moderna”, tanto che è ricordato da Dante nel celebre passo sulla transitorietà della fama come colui che ha superato il mito precedente: ““Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui oscura” (Purgatorio, Canto XI, vv. 94-96)”. Il suo ruolo è quello di attuare il passaggio già iniziato dall’altro pittore toscano. Dirà Cennino Cennini, autore di quel Libro dell’arte che costituisce il più importante ricettario tecnico della pittura italiana e dipende quasi del tutto proprio da Giotto: ““Rimutò l’arte di greco in latino e ridusse al moderno””, si stacca cioè dalla “maniera greca” bizantineggiante e vuole restituire uno sguardo diretto sul vero. In questo senso, il nesso con Dante non è solo di citazione: entrambi propongono una chiave di lettura in cui il dato visivo si concretizza in forme più naturali. Non è “realismo”, ma avvicinamento alla realtà, dove il moto psicologico, la percezione dello spazio, la concretezza dei volumi acquisiscono una valenza nuova.
Sono questi i tre valori principali su cui si gioca la novità giottesca. In forma non sempre progressiva, nel corso della sua carriera la pittura passa da esercizio bidimensionale a “scatola spaziale”; la scena acquisisce profondità, le figure si collocano stabilmente su piani concreti, e ciò che noi vediamo si dispone secondo una gradualità determinata dalla distanza.
Non è la prospettiva del Rinascimento, matematica, ma un tentativo più empirico di restituzione della visione naturale, che in certi casi si abbandona addirittura ante litteram a veri e propri trompe l’oeil, come nei celebri “coretti”, finte architetture prive di figure, della cappella degli Scrovegni, spazi non abitati che assecondano l’occhio nella sua ricerca di una terza dimensione.
I corpi sono modellati, già dai primi dipinti: costruiti cioè come masse, o col raffinato chiaroscuro dei modellati anatomici o con le linee dei panneggi, che non si svolgono lineari e piatti, ma contribuiscono a definire una massività talvolta quasi tattile; l’uomo cammina, mangia, respira.
Ma pure piange, ride, canta a gola spiegata, si tappa il naso per la puzza, dorme, quasi in un tentativo di catalogazione dei diversi moti dell’animo: ““Trasse [...] atti al naturale””, scrive il cronista Giovanni Villani. Il mondo della realtà religiosa che vediamo nei suoi dipinti non è più intangibile e astratto, ma compartecipe e vicino, secondo quella linea di immedesimazione e coinvolgimento di cui san Francesco era stato prototipo; non a caso il pittore sarà spesso attivo proprio per i Francescani, certo in funzione di questa nuova tendenza dell’arte sacra.
Ghiberti, e poi Vasari, hanno raccontato la favola del giovane Giotto colto da Cimabue nella campagna toscana alle prese col ritratto delle sue pecore, poi aggregato alla bottega del maestro. L’episodio, che persiste nel nostro immaginario grazie a innumerevoli sue divulgazioni, serve più che altro alla tradizione artistica fiorentina a evidenziare due tratti: l’approccio diretto alla realtà del pittore, e il suo alunnato presso Cimabue, in una chiave di continuità evolutiva localistica. In realtà il percorso di Giotto, in tutta la sua carriera, è pochissimo documentato, e spesso oggetto di interpretazioni (cronologiche e di altra natura) assai differenti, anche in forte contrasto tra loro: per esempio, non abbiamo alcun dato sulla sua formazione. Una proposta che prendeva sempre più corpo è quella che la Madonna col Bambino del Museo della Collegiata a Castelfiorentino sia opera eseguita in comune proprio dalla coppia maestro-allievo, verso il 1285, ma l’ipotesi pare stata di recente smentita. A fianco di questa innegabile componente, le successive opere mostreranno però anche forti tangenze col contesto romano (dove era stato attivo pure Cimabue), ciò che pare confermare la proposta più volte avanzata di una sua precedente attività, o formazione, nella capitale papale.
Proprio il primo pontefice francescano Niccolò IV, fa iniziare la campagna decorativa della chiesa superiore del più importante cantiere pittorico italiano, San Francesco ad Assisi, la cui costruzione è terminata nel 1253.
Dopo la fase iniziale, con Cimabue attivo nel transetto, nell’abside e nelle prime due volte della copertura, i lavori vengono continuati da un’é quipe coordinata dal romano Jacopo Torriti, cui collabora anche un artista cimabuesco, il Maestro della Cattura (e dove forse ritroviamo a sorpresa lo stesso Cimabue).
A un certo punto, durante l’esecuzione degli affreschi delle zone alte delle pareti, con Storie del Vecchio e Nuovo Testamento, nella seconda campata le due Storie di Isacco mostrano un nuovo stacco e un’altra mano, di eccelsa qualità, che grazie a un chiaroscuro accentuato lavora con ““razionalità, sicurezza prospettica nella costruzione degli scenari architettonici e rapporto proporzionale fra questi ultimi e le figure che li abitano, concretezza quasi fisica dei corpi e ritmo solenne nel raccontare”” (Miklós Boskovits). Pure la tecnica è diversa, basata sulla stesura a buon fresco dipingendo sull’intonaco “a giornate” (steso ogni singola giornata di lavoro) e non “a pontate” (preparando preventivamente tutta la porzione da realizzare col ponteggio nella stessa posizione). Il Maestro di Isacco è ormai quasi unanimemente identificato in Giotto giovane: e ““se [...] non è Giotto, allora lui e non Giotto è il fondatore della pittura moderna”” (Millard Meiss); tra le ipotesi alternative, quella a favore di Arnolfo di Cambio. Lo stile accentua e approfondisce gli spunti dei pittori che lo circondano, a mostrare che tra maestranze romane e toscane vi sono forti influssi, e addirittura esistono veri e propri legami di operatività.
La continuazione del ciclo dov’essere stata sovrintesa dallo stesso Giotto: paiono potersi riferire a lui alcune scene, o loro singole parti. La continuità operativa su tempi stretti sembra dunque rendere possibile che i tre momenti siano pensati come fasi in progress di un’idea omogenea, che muta corso ed esecutori, certo anche per gli impegni altrove dei singoli artisti, ma in cui appunto si intravede una stabilità, entro certi limiti anche stilistica. A questo punto, sul 1290 o poco dopo, si dovrebbe porre, nel percorso di Giotto, la frammentaria Madonna della Collegiata di Borgo San Lorenzo.
Nella fascia più bassa della navata della Basilica superiore troviamo il ciclo di affreschi più famoso dell’Italia medioevale, quello della Vita di san Francesco: 28 scene tratte dalla Legenda maior di san Bonaventura che costituisce ormai la biografia ufficiale del santo. L’attribuzione tradizionale a Giotto è stata messa in discussione sia dalla critica anglosassone, che ha spesso preferito parlare di un altissimo anonimo, sia da alcuni settori di quella italiana, che ha riferito la serie all’ambito romano, e in particolare a Pietro Cavallini. Unionisti contro separatisti, come nella questione omerica. Globalmente, sgomenta l’effetto illusionistico dello sfondamento spaziale che attraversa tutte le scene, in un rapporto di effetto sublime tra architettura reale e pittura. Ma il dato tridimensionale emerge con costanza in molti episodi, ed è addirittura esibito in alcuni riquadri, come quello col Presepe di Greccio, in cui la finzione pittorica arriva a collocare lo spettatore dal punto di vista opposto a quello naturale, e gli mostra il retro degli arredi liturgici (la croce, il pulpito) di cui di solito aveva tutt’altra percezione. I casamenti si rendono saldi, non ancora pienamente praticabili; la natura si espande in paesaggi dilatati, i corpi emergono plastici nella loro volumetria, in una storia che racconta luoghi, cose e persone vicine al sentire del pubblico. I primi sette episodi mostrano la vita del santo dalla sua conversione sino all’approvazione della regola. Il gruppo centrale tratta lo sviluppo dell’Ordine entro cui trionfa Francesco, sino alla morte. Gli ultimi sette sono le esequie e la canonizzazione del santo, e i miracoli post mortem da lui operati.
La novità dell’hic et nunc, “qui e ora”, su cui la volontà realistica del pittore fonda la sua poetica, separa questo ciclo dai tentativi coevi di modernizzazione della “maniera greca”; ma si nota anche una ripresa di modelli dall’antico, per quel poco che lo si conosceva, visto come prototipo di qualità e di adesione al reale. Non si potrà più tornare indietro. In questo senso trova conferma il nome di Giotto per le Storie di Isacco e di Francesco, collegate anche da dettagli identici, come la tenda che si apre a rivelare cosa avviene dentro alla scatola spaziale della scena. Le alternative proposte, per le discrepanze stilistiche con le più tarde opere certe del pittore, o per la constatazione che più d’una sono le mani attive ad Assisi (con modi tecnici diversi), non hanno mai demolito questa convinzione, che trova riscontro nel ruolo assegnato a Giotto già dai suoi contemporanei. Certo, le abitudini e le necessità materiali e operative delle botteghe del tempo, basate sulla parcellizzazione tra più artefici, costringono a pensare a un’entità produttiva complessa, in cui Giotto ha il ruolo di capo maestro, cioè di ideatore, supervisore e controllore, oltre che di esecutore in prima persona di alcune sezioni. La datazione precisa è impossibile, ma è probabile sia verso il 1292, e comunque compresa entro il 1295; a date vicine, secondo molti prima delle storie del santo, si pongono la solidissima Madonna col Bambino già in San Giorgio alla Costa a Firenze e soprattutto la Croce di Santa Maria Novella, in cui Giotto risolve in maniera rivoluzionaria la tipologia canonica, con un Cristo che anziché inarcarsi in modo sinuoso, come in Giunta Pisano e Cimabue, delega la rappresentazione della sua sofferenza ai dettagli anatomici e allo sforzo fisico: uomo tra gli uomini, che chiede vera pietà a chi lo guarda. Successiva è la tavola con San Francesco riceve le stimmate, con Tre storie del santo nella predella, ora al Louvre ma proveniente dalla sede pisana dei Minori, che – nonostante rechi la firma di Giotto – viene spesso riferita, in parte o in toto , alla bottega, e riprende episodi assisiati.
La fama di Giotto sta crescendo, il suo percorso produttivo inizia da Toscana e Umbria fino a inseguire le chiamate di grandi committenti.
Con ogni probabilità è (ancora?) a Roma per la corte papale attorno al 1297-1298, prima del giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII. Poche le tracce rimaste: nessun dipinto ma solo un grande mosaico con la Navicella di san Pietro, oggi molto rimaneggiato, ma di cui rimangono due frammenti non autografi (alcuni lo pongono però a date più avanzate). Poco dopo, Giotto è a Rimini per i Malatesta, signori della Romagna, se la grande Croce al Tempio malatestiano, decurtata della cimasa (dispersa) e molto più avanzata naturalisticamente di quella fiorentina, è davvero imitata e copiata dagli artisti locali in almeno una miniatura datata 1300; distrutto è invece il ciclo affrescato francescano eseguito nella stessa sede. In questa fase si colloca in genere la cappella di San Nicola nella Basilica inferiore di Assisi, realizzata in gran parte dalla bottega, ma con interventi autografi, di recente anticipata, e il polittico di Badia ora agli Uffizi.
Poco dopo, Padova vede l’arrivo di Giotto, attivo ancora per i Francescani: nel complesso della Basilica del Santo rimangono affreschi frammentari nella prima cappella destra dell’ambulacro, e ben più ampi brani nel Capitolo, che si propongono come lavori almeno in parte autografi. Perduto il ciclo astrologico del Palazzo della Ragione, celebratissimo dalle fonti, rimane nella città veneta (sede secondo alcuni di due soggiorni distinti del pittore) la decorazione della cappella dell’Arena, dipinta tra il 1303 e il 1304, dopo la fine dei lavori edilizi. La cappella, privata, è realizzata e dipinta per Enrico Scrovegni, ricco banchiere, ed è da sempre considerata il capolavoro di Giotto, che qui impiega aiuti meno dotati di caratteristiche stilistiche autonome. Lo stacco da Assisi è enorme, e proprio su questo si basa l’ipotesi scissionista. Tutte le conquiste già ottenute implementano il loro livello: le architetture si fanno ancora più salde e rigorose spazialmente, fino ai già citati “coretti”, le figure umane mostrano una potenza fisica straordinaria e libera da qualsiasi vincolo di repertorio o stilizzazione, i moti dell’animo – si veda il notissimo Compianto – vengono riprodotti con un’attenzione quasi scientifica, che restituisce affettuosità e dolore, in una gamma espressiva illimitata, che spazia dal patetico al violento del Giudizio Universale in controfacciata. Le scelte tecniche ne fanno un’opera preziosa anche in senso materico, come si vede per esempio nel contrasto tra i riquadri con le scene delle Storie di Cristo e della Vergine e le architetture illusive, il ciclo monocromo dei Vizi e delle Virtù nelle parti basse delle pareti, e la zoccolatura in finto marmo policromo. Parte integrante del progetto è la Croce, dipinta su due facce, già sul tramezzo della cappella e ora ai Musei Civici di Padova.
La storia successiva di Giotto è un susseguirsi di soste a Firenze, dove tiene bottega ed esegue moltissime opere su tavola e alcuni cicli murali, intervallate da lunghi soggiorni in tutta Italia, dove viene chiamato come profeta di un nuovo stile imprescindibile per l’uomo moderno; anche in questo caso la critica, in mancanza di dati certi, organizza questo percorso in modi spesso assai discordi.
Si può partire con un ulteriore soggiorno assisiate cui si riferisce certo, ma a posteriori, un documento del 1309, e che può corrispondere alla decorazione della cappella della Maddalena nella Chiesa inferiore, coordinata da Giotto con suoi cospicui interventi diretti; e con la Maestà di Ognissanti, ora agli Uffizi, di poderosa massività ma già percorsa da linearismi gotici nella struttura del trono (1308-1310).
L’inizio del secondo decennio è segnato dal ciclo affrescato nella cappella Peruzzi, in Santa Croce, con le Storie dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista, in cui la visione ad angolo delle scene evidenzia uno sviluppo ulteriore della sua concezione dello spazio, e serve a conferire un maggior dinamismo alla figure, ancora statuarie e forti. Tra le altre opere di questo periodo, il polittico del Museo di Raleigh (identificato come altare della cappella Peruzzi) e la Madonna col Bambino alla National Gallery di Washington coi Santi Giovanni Evangelista e Lorenzo del Museo di Chaalis provenienti dallo stesso complesso. Talora dibattuta è la questione dell’intervento diretto di Giotto nel polittico di Santa Reparata per il Duomo di Firenze (1315 ca.), e nei dipinti del transetto destro della Chiesa inferiore di Assisi (Storie dell’infanzia di Cristo e Miracoli post mortem di san Francesco alle pareti), e nelle Allegorie francescane nelle vele delle volte sopra l’altare maggiore della stessa, dati in genere a collaboratori del maestro, ed eseguiti forse tra 1315 e 1319, quando si inizia ad avvertire nelle opere di Giotto una linea stilistica diversa, più ricercata, talora quasi estenuata, e dipendente da suggestioni gotiche. Un probabile ulteriore soggiorno romano verso il 1320 è suggerito dal polittico commissionato dall’influente cardinale Jacopo Stefaneschi, oggi alla Pinacoteca Vaticana e destinato forse all’altar maggiore di San Pietro, nella cui abside Giotto dipinge affreschi con Storie di Cristo, di cui, a seguito dei rimaneggiamenti alla basilica, rimane solo un frammento staccato in raccolta privata. Una serie di tavolette provenienti da complessi smembrati (sette da un unico polittico di destinazione sconosciuta, tra cui la Natività-Epifania del Metropolitan Museum di New York) occupa la prima metà degli anni Venti, alla fine della quale potrebbero risalire gli affreschi della cappella Bardi in Santa Croce, con Storie francescane, che mostrano però una condotta pittorica semplificata nelle forme, quasi un recupero della sua fase giovanile, e che alcuni posticipano di un decennio. Del 1328 è il polittico per la cappella della famiglia Baroncelli nella stessa chiesa, firmato ma con ampia compartecipazione di aiuti.
Seguono gli anni della trasferta a Napoli presso re Roberto I d’Angiò. Del lungo soggiorno (dal 1328 al 1332/1333), forse non continuativo, restano pochissime tracce delle numerose opere murali documentate: qualche frammento della cappella maggiore di Castel Nuovo, e alcuni lacerti in Santa Chiara, che fanno pensare a un forte intervento degli aiuti. L’estrema attività, dopo il rientro a Firenze, è testimoniata da alcune opere su tavola, come la Madonna di Santa Maria di Ricorboli, e un paio di cicli murali frammentari o mal conservati, come quelli della Badia (spaccati e spesso anticipati di molto), e l’altro del Palazzo del Bargello, terminato dopo la sua scomparsa. In una fase collocabile tra 1332 e 1333 Giotto lavora anche per Bologna, sede della corte del legato pontificio Bertrand du Poujet, città che costituisce una sorta di tappa di avvicinamento al rientro del pontefice da Avignone in Italia: la cappella della Rocca viene però devastata in una sommossa antipapale, e gli affreschi sono andati poi perduti. Il polittico dell’altare maggiore, invece, è tuttora conservato nella locale Pinacoteca Nazionale: firmato, è spesso stato riferito in gran parte alla bottega, ma potrebbe invece riflettere lo stile più tardo del maestro, che si legge al meglio nello strepitoso Santo Stefano del Museo Horne a Firenze. L’ultimo viaggio di Giotto è quello a Milano, nel 1335 ca., dove dipinge nella residenza dei Visconti una Gloria mondana magnificata dalle fonti, ormai perduta.
Con queste opere, e molte altre qui non citate, Giotto inaugura la pittura moderna. Nella storiografia fiorentina, poi in quella italiana, è la prima tappa di un percorso che senza scosse o ripensamenti, ma solo perfezionamenti, passa per il Rinascimento di inizio XV secolo e giunge alla perfetta maniera di Raffaello e Michelangelo, all’inizio del XVI secolo. Convoglia su Firenze quella fama che lo contraddistingue come faro dell’arte italiana per secoli. Soprattutto, incentiva l’idea per la quale la pittura si giudica su determinati valori – spazio, anatomia, analisi psicologica – che possono essere perfezionati, in senso appunto evoluzionistico, ma non rifiutati: è su questo che si gioca l’estraneità alla linea vincente di fatti come il gotico pittorico, visto come una parentesi incidentale di percorso, o come il più alto valore attribuito quasi sempre al suo primo periodo.
A parte l’attività pittorica, a Giotto è stata riferita l’ideazione di vetrate (Firenze, Museo di Santa Croce) e di mosaici, realizzati da specialisti. Nel senso progettuale, più che tecnico, e in quello di una soprintendenza stilistica, va vista la sua attività come architetto: il 12 aprile 1334 è nominato capomastro dell’Opera di Santa Reparata, cioè dei cantieri collegati al duomo e alla sua piazza, e controllore delle opere pubbliche del Comune. Secondo Giovanni Villani, nel luglio dello stesso anno, inizia il lavoro di fondazione del campanile del Duomo, che Giotto dirige fino alla costruzione dell’ordine inferiore, decorato da bassorilievi (Allegorie dei lavori, Corpi celesti, Virtù, Arti liberali e Sacramenti) per cui fornisce alcuni dei modelli grafici. Si è pure ipotizzato un suo coinvolgimento nella progettazione architettonica della cappella Scrovegni.
Ma anche nella pittura non tutto quello che esce dalla sua bottega è realizzato di sua mano. Nei cicli murali, e in gran parte delle tavole, si è spesso messo in evidenza il ruolo dei collaboratori. Di certo, come già detto, le modalità organizzative dell’atelier sono complesse, e variano a seconda della tipologia da produrre, così come esiste una vera gerarchia interna a quella che costituisce una grande intrapresa commerciale: dal protomagister, il capo, ai maestri pittori (forse suddivisi per livello e specialità), ai manovali, giù fino ai semplici inservienti. Bisogni imprenditoriali – tempi ristretti, più cantieri aperti in contemporanea, necessità di produrre repliche di dipinti già realizzati – portano senz’altro a deleghe operative. D’altra parte, il concetto di autografia nel Medioevo è ben diverso dal nostro, e si basa soprattutto sulla responsabilità progettuale e sul controllo finale. Giotto poteva fornire disegni e modelli, in qualche caso addirittura sagome da replicare in scala 1:1, come nel caso dei cosiddetti “patroni” riscontrati ad Assisi, suddividere i compiti, indicare le modalità di stesura tramite suggerimenti o vere e proprie regole (come ritroviamo appunto nel Libro dell’arte o in altri ricettari da esso dipendenti), intervenendo solo nelle parti più rilevanti, o modificando e ritoccando in modo globale al termine dei lavori, prima di licenziare l’opera. Giotto è insomma non solo un artista singolo ma anche un brand, una linea che deve mantenere un livello adeguato alla fama; e c’è chi ha spiegato in questo senso la presenza delle tre firme: attestazione di un marchio di bottega più che vera responsabilità personale. Come per altri artisti, si riscontra costantemente nella critica una tendenza estensiva del concetto di autografia e una più limitativa.
I numerosi maestri che hanno affollato con diversi ruoli la sua bottega si possono dividere tra quelli stabili entro l’entità produttiva, e quelli aggregati per singole commissioni, certo qualche volta reclutati sul posto nel caso di incarichi fuori Firenze. In entrambi i casi, essi non sono sempre facilmente identificabili dal punto di vista stilistico e da quello onomastico. Ai “giotteschi diretti” si aggiungono quelli indiretti, allievi di collaboratori: proprio Cennino, per esempio, afferma con orgoglio di poter scrivere tutto quello che sa in quanto allievo di Agnolo Gaddi, figlio e allievo di Taddeo Gaddi, allievo di Giotto. Una filiazione esplicita, cui si aggiunge quella mediata dalle opere: i pittori, cioè, che senza aver contatti con la bottega giottesca ne imitano le opere, o comunque vi si ispirano. Senza far lunghe liste di nomi, si deve però ricordare la differenza tra chi conosce e segue le varie fasi dell’evoluzione stilistica di Giotto e chi ne prende come modello un singolo momento; la situazione, date le tante lacune, è sovente poco chiara, ma è da notare che essa abbraccia quasi tutta l’Italia, dalla Lombardia al Veneto, da Bologna e Rimini all’Umbria, da Napoli a, come è ovvio, Firenze e la Toscana; si può dire che da Giotto discende un’uniformazione globale basata sulla sua fama e il riconoscimento di un primato, oltre che sull’itinerarietà personale e dei lavori da lui eseguiti.