Gelli, Giovambattista
Nato a Firenze nel 1498, G. proveniva da una modesta famiglia del contado: il padre, infatti, nativo del borgo di Peretola, era commerciante di vini; lo stesso G. si impiegò giovanissimo come calzolaio e non volle mai rinunciare all’appartenenza a questa ‘arte’, anche quando il favore di Cosimo I e il successo ottenuto come letterato gliel’avrebbero permesso. Non insensibile all’influsso neoplatonico e ai lasciti dell’insegnamento savonaroliano, G. aderì fin dal suo primo manifestarsi alla riorganizzazione statale in senso autoritario voluta da Cosimo I; perciò ben poco rilevante appare la sua presenza, pur ammessa, nelle discussioni degli Orti Oricellari, quell’avanzatissimo laboratorio di cultura e politica (per lo più dissidente), al quale com’è noto aveva partecipato Machiavelli. G. la colloca in un periodo lontano e quasi mitico della propria vita, e comunque ne limita l’influsso ai soli studi letterari e linguistici, appresi da figure eminenti quali Bernardo Rucellai o Francesco Cattani da Diacceto, venerate come oracoli, secondo quanto si apprende dal Ragionamento sopra la difficoltà di mettere in regole la nostra lingua (1551). Sicuramente più profonda fu l’assimilazione della Commedia dantesca, letta e poi divulgata, attraverso una serie di lezioni pubbliche, come monumento non solo letterario, ma anche civile, frutto di quella eccellenza fiorentina di cui G. fu instancabile banditore, nel tentativo di accreditare l’autorevolezza del principato di Cosimo e la necessità di pacificazione sotto il segno di una gloria comune e condivisa. Funzionale a tale progetto appare il trattatello Dell’origine di Firenze, composto intorno al 1544, in cui si ipotizza la discendenza di Firenze da Noè, simbolo dell’unità del genere umano, e del volgare fiorentino dalla lingua da lui parlata, l’aramaico, con l’intento evidente di delegittimare Roma e il latino a favore di un passato ben più illustre, la cui grandezza spetta a Cosimo ripristinare.
Intrapresa una carriera di non grande levatura all’interno delle magistrature fiorentine, ma pur sempre omogenea al nuovo clima politico (dal 1539 era entrato a far parte del Collegio dei dodici buonuomini), G. completò il suo percorso di omologazione all’ideologia cosimiana favorendo la transizione dell’Accademia degli Umidi in Accademia fiorentina, di cui divenne nel corso degli anni uno dei membri più noti. Il favore accordato all’Accademia dal duca e il rigido controllo sulle sue attività fecero di essa il centro propulsore di una cultura del tutto integrata ai programmi politici di Cosimo. Al 1543 risale la prima commedia di G., La sporta, mentre del 1555 è l’altra, intitolata Lo errore. All’interno dell’Accademia fiorentina, intanto, G. andava tenendo cicli di lezioni dantesche e petrarchesche; dal 1553 fino all’anno della morte (1563) vi espose, con incarico ufficiale del duca, nove letture sull’Inferno dantesco. Le opere più note di G. sono due dialoghi, I capricci del bottaio (1548) e La Circe (1549), in cui egli espone, in una lingua chiara che piacque ai puristi dell’Ottocento, le proprie idee in materia di morale e religione, con chiare ascendenze neoplatoniche mitigate da buon senso popolano.
Buona parte delle scritture di G. denuncia, ma spesso solo implicitamente, il debito contratto nei confronti delle opere letterarie di M., che dovette sembrare ai suoi occhi (e pur con non poche riserve) l’ultimo rappresentante della grande tradizione fiorentina, quella a cui apparteneva l’amato Dante, e che G. si sforzava di ripristinare attraverso i suoi trattati e le sue pubbliche letture. Ciò spiega forse l’accusa di plagio che a G. mosse il Lasca (→ Grazzini, Antonfrancesco).
In un caso (A. Grazzini, Le rime burlesche, a cura di C. Verzone, 1882, sonetto XXIV 9-11) l’accusa è rivolta contro Benedetto Varchi, ma investe poi nella seconda terzina G., reo di avere scritto una commedia (La sporta) troppo somigliante a un intreccio di M.: «E in questa parte ha somigliato il Gello / che fece anch’egli una commedia nuova / ch’avea prima composto il Machiavello». Il Lasca aveva motivi di malanimo nei confronti di entrambi, che riteneva responsabili della sua cacciata dall’Accademia fiorentina; tuttavia l’accusa non sembra trovare riscontri puntuali nell’opera del Segretario, e si deve perciò prestar fede a una testimonianza di Giuliano de’ Ricci, nipote di M., il quale parlò di frammenti di una commedia machiavelliana (per noi perduti), su cui lavorò G. (cit. in Inglese 1997, pp. 6-7):
compose ancora pigliando il concepto dell’Aulularia di Plauto un’altra commedia, detta la sporta; ma perché gli fragmenti di essa restarono in mano di Bernardino di Giordano essendo capitati alle mani di Giovan Batista Gelli, aggiuntovi certe poche cose la diede fuori per sua.
In ogni caso La sporta contiene assonanze più o meno esplicite con i testi machiavelliani: il tema del biasimo e dell’invidia, accennato nel prologo gelliano, viene svolto con risentita polemica anche nel prologo della Mandragola; sempre nel prologo de La sporta troviamo la definizione della commedia come «specchio di costumi della vita privata e civile sotto una immagine di verità», che risuona nel Discorso intorno alla nostra lingua (→) («il fine d’una comedia sia proporre uno specchio d’una vita privata»: cit. in Cassiani 2006, p. 228); una battuta di Alamanno, il giovane protagonista della commedia, contiene allusioni sia a un passo dei Discorsi (I iii 5), sia alle parole con cui Lucrezia, nella Mandragola, accetta l’amore offertole da Callimaco (V iv; cfr. Cassiani 2006, p. 241):
Infine, e’ son pochi che a lungo andar nel parlar non si scuoprino. Già non ègli altra diferenza da gli uomini buoni ai tristi, se non che quei fanno bene perché e’ si debbe fare così, e questi per paura delle leggi, quando eglino però ne fanno. Ma non più: la Fiammetta è mia, e per mia la voglio; ché e’ non mi debbe dispiacer quello che m’è piaciuto una volta (La sporta, IV 1).
La battuta finale di Ghirigoro, il vecchio avaro della Sporta, che, liberato dalla propria ossessione per il denaro, dichiara il proposito di mutare vita («Dappoi che e’ vuol così chi può, io non vo’ già io, per me, contrappormeli: anzi, mi vo’ mutare al tutto di natura», V 6) ricorda nuovamente da vicino la battuta finale di Lucrezia, peraltro anticipata da Callimaco, intenzionato a «farla diventare di un’altra natura» (I 1). Qua e là affiora il duplice tema di «virtù» e «fortuna», declinato secondo la concettualizzazione fornita da M.: «Andiamo innanzi e mostriamo il viso alla fortuna, ché ella suol sempre favorire gli animosi» (II 6); «Gli uomini valenti si conoscono nelle adversità, non nelle felicità» (III 7). E ancora: la battuta pronunciata da Lapo in soliloquio («E così gli uomini non si contenton mai; chi si ristucca nel bene, e chi si dispera nel male», II 3), non può non ricordare l’attacco del capitolo xxxvii nel libro I dei Discorsi: «Egli è sentenzia degli antichi scrittori come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene» (cfr. Figorilli 2006, p. 134). Tutto questo spinge a considerare l’esplicita menzione delle commedie di M. nella Sporta («ma le doverrebbon fare quella di messer Nicia, o quella di Clizia, se l’hanno a fare», III 4) ben più che un rimando incidentale.
L’accusa di plagio dovette essere di non poco peso per G., tanto che nel prologo della sua seconda commedia, Lo errore, sentì la necessità di affermare che il «subietto della commedia […] è un caso molto simile a la Clizia del Machiavello»: come il Nicomaco di quest’ultima, anche il vecchio Gherardo dell’Errore è preso da passione per una giovane. Ma, a parte una generica somiglianza nella vicenda principale, e qualche analogia di situazioni, non paiono esservi riscontri puntuali tra le due opere.
Anche la prossimità tematica tra uno dei dialoghi morali di G., La Circe, e il poemetto l’Asino (→), ha sollecitato l’ipotesi del plagio. L’Asino, infatti, composto con tutta probabilità nel 1517, venne pubblicato solo nel 1549 per i tipi di Bernardo Giunti, insieme ad altri testi del Segretario, in base a un autografo (così dichiara la lettera dedicatoria) messo a disposizione direttamente da Guido, figlio di M.; Mario Martelli (1990) ha ipotizzato che tale pubblicazione intendesse smascherare il plagio che G. ne aveva realizzato con il proprio dialogo, uscito all’inizio di aprile dello stesso anno per i tipi di Lorenzo Torrentino: peraltro i due principali stampatori fiorentinierano in concorrenza agguerrita. È in ogni caso evidente che sia G. sia M. attingono alle stesse fonti, ossia il proemio al VII libro della Naturalis historia di Plinio e il dialogo Bruta ratione uti (più noto come Grillo) di Plutarco (→). Ma se l’impianto è simile, simili i motivi di fondo e medesime le fonti, la struttura e le conclusioni dei due testi, anche in questo caso, divergono ampiamente.
Mentre nell’Asino è M. stesso a essere introdotto nel serraglio della maga, dove soggiornano uomini trasformati in bestie, nella Circe è Ulisse, conformemente al mito, il protagonista dell’opera. E se in M. la funzione di demistificare il baldanzoso antropocentrismo umanistico è affidata al discorso del Porco (cap. viii), nel dialogo gelliano la superiorità degli animali sull’uomo è testimoniata da diversi interlocutori, protagonisti dei vari dialoghi che compongono l’opera, un tempo uomini e ora trasformati in bestie dai prodigi di Circe. Come il Porco, nessuno di loro vuole rinunciare alla nuova condizione per tornare a fattezze umane, nonostante i tentativi di Ulisse per convincerli. Ma se il poemetto machiavelliano non prevede soluzioni alternative (almeno all’altezza del cap. viii: come si sa l’opera è incompiuta), l’ultimo dialogo della Circe presenta un finale positivo: l’elefante, che fu già il filosofo Aglafemo, esalta le qualità dell’intelligenza umana, la facoltà del libero arbitrio e la conseguente possibilità di volgersi a «contemplare le cose divine» (Opere, a cura di D. Maestri, 1976, p. 444).
Se pure tale conclusione non cancella l’amaro disinganno con cui viene descritta la condizione umana nelle parole dei vari animali (e anzi, la critica ha sempre faticato a spiegare il repentino capovolgimento delle tesi sin lì esposte), è però innegabile che essa ponga l’opera gelliana dentro il recinto di un rassicurante conformismo, ben lontano dal pragmatico disincanto con cui il Porco machiavelliano congeda il suo interlocutore («E s’alcuno infra gli uomini ti par divo, / felice e lieto, non gli creder molto, / ché ’n questo fango più felice vivo, / dove sanza pensier mi bagno e vòlto», Asino, vv. 148-51): la dirompente antropologia negativa di M. non si addice a uno dei principali fautori del principato di Cosimo, e il recupero della grande tradizione fiorentina dentro la quale si inscrive la figura del Segretario si ferma di fronte al suo lucido, incoercibile realismo.
Bibliografia: Opere, a cura di D. Maestri, Torino 1976.
Per gli studi critici si vedano: M. Pozzi, nota introduttiva alla sezione Giovan Battista Gelli, in Trattatisti del Cinquecento, 1° vol., Milano-Napoli 1978, pp. 853-79; M. Martelli, introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’asino, a cura di M. Tarantino, Roma 1990; G. Inglese, Sei note preliminari alla Clizia, in N. Machiavelli, Clizia. Andria. Dialogo intorno alla nostra lingua, Milano 1997; A. Piscini, Gelli Giovan Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 2000, ad vocem; C. Cassiani, Metamorfosi e conoscenza. I dialoghi e le commedie di Giovan Battista Gelli, Roma 2006; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico, fortuna, Napoli 2006.