DURAZZO, Giovan Agostino
Nacque a Genova il 13 marzo 1632, secondogenito maschio dei dieci figli di Gerolamo e di Maria Chiavari di Gian Luca (doge nel 1627-29).
La famiglia del D., appartenente alla cosiddetta nobiltà "nuova", rappresentava nel corso del XVII secolo, insieme con i Balbi, i Saluzzo, i Moneglia, una delle punte più dinamiche dei ceti aristocratici emergenti, apertamente polemici nei confronti della soggezione alla Spagna, dell'abbandono della navigazione e dei commerci, cioè di quella politica immobilistica che veniva rimproverata alla nobiltà "vecchia" in genere, e in particolare alle quattro grandi famiglie - Doria, Fieschi, Spinola, Grimaldi - che di quella politica si erano fatte garanti nel corso del secolo precedente. All'"albergo" dei Grimaldi i Durazzo erano stati aggregati all'epoca della riforma doriana del 1528, quando la famiglia, da sole quattro o cinque generazioni oriunda dall'Albania (il capostipite pare identificabile con un Giorgio Durazzo che presentò, il 28 giugno 1389, denuncia al governo per essere stato illegittimamente condotto a Genova come schiavo, insieme con la moglie e tre figlioletti), aveva acquistato un già notevole benessere, sopratutto grazie al commercio della seta. Verso la metà del sec. XVI, Giovanni Durazzo, trisavolo del D., denunciava nel suo testamento la proprietà di sei case, per un valore complessivo di 59.000 lire, di una "volta" da seta e di una bottega in Genova; ma il giro dei suoi affari si estendeva da Anversa (dove possedeva un negozio gestito dai figli Pietro e Vincenzo) a Venezia. Il primogenito di Giovanni, e bisavolo del D., Giacomo, fu il primo Durazzo a ricoprire la carica ducale nel 1573-75, da un lato suggellando cosi l'ascesa economica e politica della famiglia, dall'altra fornendo - grazie alle proprie personali capacità di mediazione tra "vecchi" e "nuovi" - l'indicazione di una prassi politica vincente, cui, pur con le dovute diversità, si ispireranno anche il prozio e lo zio del D., Pietro e Cesare, rispettivamente dogi nel 1619-21 e nel 1665-67.
Tuttavia il ramo Durazzo destinato ad incidere più durevolmente nella società genovese, perché dotato di più spiccato spirito imprenditoriale e di ambizioni sociali (in cui rientrava anche il disegno dello splendido mecenatismo della famiglia), è proprio quello del nonno del D., Agostino. Nel suo progetto di grandeur sipossono inscrivere il suo matrimonio con Geronima Brignole di Antonio, l'acquisto della villa di S. Bartolomeo degli Armeni nel 1589 (fatta affrescare con soggetti celebrativi del dogato paterno) e di una cappella nella chiesa gesuitica di S. Ambrogio, che utilizzò come sepolcro per il padre e per la quale commissionò a Guido Reni la pala d'altare. Agostino inoltre acquisi nel 1624 il titolo marchionale grazie all'acquisto, dall'insolvente duca Ferdinando Gonzaga, del feudo di Gabiano nel Monferrato. Dopo la morte di Agostino nel 1630 i figli Giacomo Filippo e Gerolamo (un terzo, Marcello, mori nel '32 senza discendenza) amministrarono con oculato spirito di collaborazione l'eredità paterna, ma accentuando intraprendenza e spregiudicatezza economico-mercantile, e insegnarono ai figli a difenderla a livello politico sia direttamente (attraverso l'attività diplomatica internazionale nelle capitali sedi dei grandi traffici: Londra, Parigi, Vienna) sia indirettamente, attraverso la protezione che, in sede di governo, garantivano i legami familiari.
Così il D. e i suoi fratelli, Giovan Luca ed Eugenio, tra il 1660 e il 1680 circa, rappresentavano una autentica solidale potenza nella vita economica della Repubblica, che deve direttamente a loro, e al D. in particolare, la temporanea riapertura dei traffici in Levante.
Oltre ai sopra citati, il D. ebbe altri sette tra fratelli e sorelle: Tomasina (poi sposa a Giorgio Durazzo), Giovan Stefano e Giovan Francesco, entrambi gesuiti, Giovan Domenico e Marcello (nonno quest'ultimo dell'omonimo doge del 1767), Clarice e Maria, forse monache, in rispetto alla politica cautelativa del patrimonio applicata dai rami dei Durazzo con alta natalità.
Inizialmente il progetto del Levante coinvolse solo il D. e Giovan Luca, con la protezione dello zio Cesare (che sarà doge proprio nel 1665). Anzi, fin dal 1659, Giovan Luca era stato mandato straordinario a Parigi, poiché Giambattista Pallavicini, ministro residente, aveva comunicato la disponibilità del cardinal Mazzarino ad appoggiare a corte la ripresa dei rapporti diplomatici e commerciali di Genova con Costantinopoli: era in progetto un consolato in Oriente, che consentisse la ripresa del commercio sulla base degli accordi stipulati un secolo prima da Francesco De Franchi, detto il Tortolino, e poi rapidamente annullati per l'ostilità della Francia. Ma la morte del Mazzarino (nel 1661), il passaggio di Giovan Luca da Parigi a Londra e sopratutto la persistente ostilità della Francia al progetto costrinsero Genova a cercare altre strade: cosi il D. ottenne l'incarico di cercare di aprire dirette trattative col sultano, aggirando l'ostacolo dell'opposizione francese.
Parti nel 1661 per un viaggio definito di piacere - come la sua fama di uomo colto, ricco e curioso legittimava - che doveva portarlo in Ungheria, in Polonia e fino ai confini della Turchia, dove tuttavia dovette fermarsi a causa del conflitto in corso con l'imperatore Leopoldo. Ma, dopo la firma della pace il 4 ag. 1664, il D., che era rientrato a Vienna, poté portare a compimento il proprio progetto. Unitosi all'ambasceria imperiale che si recava a Costantinopoli, per ripristinare le relazioni diplomatiche, nei primi mesi del 1665 il D. poté raggiungere Adrianopoli, dove risiedeva allora la corte ottomana. Per mezzo di un greco di Galata, sposato a una genovese Calvi, tale Nicosio Panagotti, interprete di professione, ottenne di essere ricevuto dal gran visir il 23 ag. 1665. Il D. espose i motivi della visita, insistendo sull'utilità che anche l'economia turca avrebbe potuto ricavare dalla introduzione del commercio genovese, in concorrenza col monopolio francese. Il gran visir lo invitò a far ufficializzare la sua iniziativa dal governo genovese, e si aprirono quindi le trattative sulla base delle convenzioni stipulate con gli Inglesi e gli Olandesi. Tali trattative non furono comunque facili per il D., a causa delle aperte ostilità frapposte dai ministri delle potenze interessate nel commercio levantino, e specialmente da quello francese. Ma, dopo essersi trasferito a Costantinopoli insieme con la corte, il D. riusci ad ottenere un decreto abbastanza soddisfacente per la Repubblica, conforme alle capitolazioni concluse dal Tortolino nel 1558.
I Genovesi ottenevano libero transito per le loro navi in tutti i porti della Turchia; i diritti doganali erano stabiliti in un unico saldo all'8%; l'acquisto del sale era possibile allo stesso prezzo pagato da Olandesi e Inglesi; le cause di diritto civile e patrimoniale potevano essere discusse presso i tribunali del consolato genovese, e, nel caso di processi misti, le sentenze emanate dai giudici turchi godevano di diritto d'appello presso il tribunale supremo del sultano; la moneta genovese aveva libero corso nelle contrattazioni economiche (e sarà proprio quest'ultimo punto a suscitare i più grossi problemi). Il D. chiese anche il permesso di edificare una chiesa in Galata, affermando essere troppo piccola la cappella francescana ivi esistente; ma il gran visir fu irremovibile nel rifiuto, limitandosi a consentire ai Genovesi la libertà di culto.Al ritorno a Genova, nel dicembre 1665, il D. stese una minuta relazione del viaggio e dei risultati ottenuti. Quindi, poiché in seguito agli accordi stipulati si dovevano cominciare le normali relazioni, ritornò a Costantinopoli con la qualifica di ambasciatore straordinario, e con la protezione dello zio Cesare, allora doge. E il governo gli affiancò Sinibaldo Fieschi, con la qualifica di residente a Costantinopoli, e Ottavio Doria, con quella di console a Smirne, nell'evidente intento di coinvolgere nei nuovi rapporti economico-commerciali anche qualche esponente delle grandi famiglie della nobiltà "vecchia".
La missione parti il 23 giugno 1666; esattamente un anno dopo, il 29 giugno, il D. rientrava a Genova e stendeva una seconda relazione, ancora più ampia e dettagliata della precedente, interessante non solo sotto il profilo politico-economico, ma anche sociologico, per la descrizione minuta di usi e costumi del mondo turco e della sua classe dirigente: descrizione condotta con un certo gusto dell'esotico, tipico dei viaggiatori del Seicento.
Di questa relazione, come di quella del primo viaggio, esistono copie manoscritte alla Biblioteca civica e alla Biblioteca universitaria di Genova: entrambe sono state parzialmente trascritte dal Vitale (Diplomazia genovese, pp. 202 ss. e 229 ss., al quale si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche). Nella seconda relazione, che si dilunga anche sulle reciproche cortesie e scambi di doni col gran visir, il D. esalta la avvenuta liberazione di otto schiavi genovesi e denuncia tutti i tentativi dell'ambasciatore francese a Costantinopoli, marchese D. de La Haye, di impedire la ratifica del trattato attraverso accuse di illeciti monetari imputati ai Genovesi. Il D. fu costretto a riconoscere che una di queste denunce aveva veramente minacciato la ratifica e provocato il violento risentimento del sultano verso di lui; ma poi, grazie alla mediazione dell'ambasciatore d'Olanda, il contrasto si era ricomposto e il D. aveva potuto anche ottenere consistenti rifornimenti di grano del Mar Nero e una sede consolare ad Atene, oltre quelle già previste di Smirne e Costantinopoli.
Tuttavia proprio dal console residente a Costantinopoli, quel Sinibaldo Fieschi che il D. vi lasciò partendo, sarebbero venute le prime complicazioni: una condotta politicamente ambigua, perché forse troppo compiacente con la Francia, e privatamente scorretta resero ulteriormente precaria la presenza della Repubblica a Costantinopoli: presenza che Luigi XIV era sempre più deciso a non accettare. Infatti, nel giro di pochi anni, nonostante l'espulsione del Fieschi e la volenterosa legazione di Agostino Spinola, Genova nel 1682 era di nuovo costretta a lasciare l'Oriente. Solo nel 1745, grazie al consenso della Francia nel quadro delle mutate alleanze internazionali, i rapporti con la Turchia si riannoderanno e la Repubblica potrà rinnovare il contratto stipulato dal D. nel secolo precedente.
Ma se brevi furono i vantaggi per la Repubblica, più duraturi ed economicamente produttivi dovettero essere per il D. e la sua famiglia. Nel secondo viaggio infatti il D. aveva condotto con sé il fratello Marcello, il cugino Giovanni Battista (figlio del doge in carica) e un altro lontano cugino, Giovanni di Giacomo fu Giovanni (che sarebbe poi stato designato, ma senza esito, nel 1671, residente a Costantinopoli). Marcello rimase in Turchia fino alla fine del 1666, Giovanni Battista fino al 1670; inoltre, un altro fratello del D., Eugenio, benché il suo ruolo non sia stato chiarito con precisione, sembra essere stato il vero responsabile delle speculazioni monetarie destinate ad alimentare con moneta di dubbia bontà i mercati turchi.
Poiché tutte le potenze europee scaricavano sul mercato turco le monete scadenti, la Repubblica aveva cercato di salvaguardare il commercio levantino anche con la bontà della propria moneta e aveva coniato i "giorgini" apposta per l'Oriente, ma non poteva impedire che le zecche dei feudi imperiali liguri sfuggissero alla sua sorveglianza. Probabilmente fu proprio il fratello del D., Eugenio, colui che in tali circostanze maggiormente si arricchi con questa scorretta speculazione, sulla quale il ministro francese ebbe buon gioco per ottenere il fallimento dell'impresa orientale di Genova.
Ma la famiglia del D. ebbe modo di trarre anche altri vantaggi, sul piano commerciale e imprenditoriale: l'accordo aveva riaperto l'importazione di sete, carta e soprattutto di panni di lana, che alimentavano una fiorente industria ligure e che in particolare segnarono la fortuna della ditta Mortola e Fantini, sorta in coincidenza non certo fortuita con la riapertura del traffico del Levante. E poiché gli enormi profitti di questa ditta (che godeva di solidissime protezioni nell'ambito della classe di governo, giacché molti membri vi erano interessati: Spinola, Centurione e Durazzo, appunto) sono stati anche attribuiti allo spaccio in Levante di monete false o "scarse", il cerchio delle speculazioni sospette si stringe attorno al D. e ai suoi familiari.
Certo i sospetti - che ci furono, come confermano le anonime denunce dei "biglietti di calice" e quelle esplicite del ministro francese - non scalfirono il prestigio del D., al quale la Repubblica affidò l'incarico di commissario generale delle galee nel 1672.
Il duca di Savoia, Carlo Emanuele II, aveva dichiarato guerra a Genova, e la carica di commissario in capo era stata conferita al fratello del D., Giovan Luca (cfr. voce in questo Dizionario). Nella prima fase la guerra fu favorevole alle armi genovesi, grazie soprattutto al valore militare del luogotenente del Durazzo, il capitano corso Pier Paolo Ristori, che era riuscito ad occupare Oneglia; nella seconda fase invece, la perdita di Ovada e la presenza, nelle acque di Alassio, di navi francesi che ostacolavano i movimenti di quelle del D., convinsero Genova ad accettare la cessazione delle ostilità sulla base dello statu quo voluto dalla mediazione francese.
Nel marzo 1677 il D., probabilmente malato, fece testamento. Mori il 30 dello stesso mese, a Genova.
Aveva sposato, al ritorno dalla spedizione in Levante, il 6 febbr. 1668, Maddalena Spinola, figlia di Napoleone, e ne aveva già avuto tre figli: Maria Geronima nel 1670 (Poi monaca), Clarice nel 1673 (sposa a vent'anni di Francesco M. Balbi) e Gerolamo (nato il 28 ag. 1676 e poi sposato alla lontana cugina Maria Francesca Durazzo); la figlia postuma, Teresa, sposerà Giovan Battista Raggi. La discendenza diretta del D. si chiuderà coi tre figli di Gerolamo, uno degli uomini più ricchi di Genova (nel 1738 il suo capitale, valutato 1.500.000 figura al quarto posto nell'elenco dei patrimoni più cospicui), il cui unico maschio, Serafino, morirà senza prole; la primogenita Maddalena sarà sposa di Marcello Durazzo, il doge del 1767, e ne avrà quattro figli, ma tutti senza discendenza.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Mss., 165: Istruzioni e relazioni al gran Turco; Ibid., Arch. segr. 2774A; C. Manfroni, Relazionifra Genova e l'Impero ottomano, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, XXVIII (1898), 2, pp. 738 ss.; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, IV, p. 154; G. Bigoni, rec. a C. Manfroni, in Arch. stor. ital., XXV (1900), pp. 144s; F. Donaver, Storia della Rep. di Genova, Genova 1913, II, pp. 303-307; V. Vitale, La diplomazia genovese, Milano 1941, pp. 202 ss., 229 s.; O. Pastine, Genova e l'Impero ottomano nel sec. XVII, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, LXXIII (1952), pp. 43 ss.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, p. 304; II, p. 141 (con fonti e bibliografia); G. Giacchero, Economia e società nel Settecento genovese, Genova 1973, pp. 49 ss.; D. Puncuh, L'archivio dei Durazzo, marchesi di Gabiano, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, n. s., XXI (1981), pp. 603ss.; Id., Collezionismo e commercio di quadri nella Genova seisettecentesca, in Rassegna degli Archivi di Stato, XLIV (1984), pp. 167 n. 14, 169, 171 (con ind. bibliogr. in nota).
M. Cavanna Ciappina