TEDALDI, Giovan Batista
– Figlio di Lattanzio di Francesco e di Camilla Guiducci, nacque il 24 gennaio 1495, discendente da una casata originaria di Fiesole, un ramo della quale, stabilitosi a Firenze, «i sommi onori della Repubblica ottenne più volte» (Lastri, in Discorso dell’agricoltura, 1571, 1776, p. IV). Rozo, documentato nell’anno 910, fu il primo personaggio conosciuto della famiglia (Gamurrini, 1668, p. 351).
Nel 1512 il diciassettenne Giovan Batista si recò in Polonia a seguito della morte di Arnolfo Tedaldi, che si trovava colà dal 1486 forse per esercitare la mercatura; tramite suo padre che lo aveva inviato ed era in corrispondenza con Maciej Drzewicki, vescovo di Przemyṥl e vicecancelliere del re, il giovane fu introdotto a corte (Fasano Guarini, 1991, pp. 164 s.) e nel 1522 conobbe il condottiero Giovanni de’ Medici, detto delle Bande nere, mandato in quel regno da Adriano VI per trattare alcune vertenze, ne divenne sottosegretario e lo seguì fino alla sua morte (30 novembre 1526).
Tedaldi, di cultura naturalistica più che letteraria, studiò tutti gli scrittori d’agricoltura e molto viaggiò «particolarmente in diverse parti settentrionali» per «diporto, et per conoscere, et imparare» (Discorso sopra la pianta..., in Ciampi, 1833, p. 113). Mentre era in Polonia, si recò con il segretario del re «ms. Iacopo Stascoschi» a Dravizi, città della Russia allora in Polonia, dove per la prima volta vide, «verde et viva nella selva» (ibid.), la pianta dell’aspalato non tenuta in pregio da quelle popolazioni nordiche, ma assai apprezzata dagli antichi per il gratissimo aroma e le virtù curative. Riferì su di essa e su altre tre «sorte di odori»: il musco, l’ambracane, lo zibetto e lo stesso aspalato, legno «oscuramente descritto» da più autori (Targioni Tozzetti, in Ciampi, 1883, p. 128) e di cui non sappiamo con esattezza cosa Tedaldi indichi con tale «fruttice, o arbore» dal quale ricavò una filza di «paternostri» che regalò a Cosimo de’ Medici (Discorso sopra la pianta, cit.).
In un anno non conosciuto, si recò a Parigi dove, nella libreria del re, vide i frammenti di un’opera sull’agricoltura di Annone Cartaginese (Fasano Guarini, 1991, p. 165, nota 15).
Il Discorso dell’agricoltura, prima opera edita di Tedaldi, fu stampata soltanto nel 1776, nel tempo più fervoroso del riformismo leopoldino, grazie a Marco Lastri, che colse il momento favorevole per presentare l’autore e avvicinarlo a quei fiorentini che hanno lasciato mirabili «trattati georgici». Lo scritto sembra avere un uso personale, è ricco di pratiche osservazioni, ricette, ricordi ed è «pienissimo di avvertimenti, riguardanti le parti tutte dell’arte del coltivare, eccettuata la pecuaria» (Lastri, in Discorso sull’agricoltura, cit., p. XVI); un’altra opera alla quale attendeva, ben più corposa, La gran fonte dell’agricoltura, in cinque libri, non vide la luce (ibid.).
Mentre era commissario ad Arezzo, Tedaldi scrisse, sotto forma di lettera al nipote Bartolommeo, Della cultura della vite, in cui loda il vino aretino, buono per bere in estate. Studioso e vero ricercatore sperimentatore, nel 1564 consegnò a Cosimo I il Discorso sugli odori e altri pezzetti d’aspalato, omaggi che furono «accettissimi» e nel 1570 gli presentò il segolo usato dagli antichi romani da lui nuovamente ritrovato, per «la prima volta fatto fabbricare» e di cui dice quando va o non va adoperato (Della cultura della vite, 1776, pp. 4 e 72).
I suoi viaggi non dovettero oltrepassare il 1551, anno in cui sposò Fiammetta di Giovanni Corbinelli per darsi «al riposo e alla vita tranquilla dei campi» (Minuti, 1892, p. 305), dai quali lo scosse il ‘caro’ Benedetto Varchi che gli chiese di scrivere la vita di Giovanni de’ Medici per l’orazione che doveva tenere, probabilmente in occasione dell’anniversario della morte del padre di Cosimo (Ciampi, 1833).
Varchi in un sonetto a lui dedicato chiama Tedaldi «Varron del nostro tempo» che, dedito allo studio e a «far lieti e fecondi or villa, or orto», lascia ad altri gli onori «vani e stolti», ma, forse, la sua «filosofica ritiratezza» era una «virtù imposta», perché appena Cosimo gli concesse il proprio favore, come fece con altri servitori del genitore, accettò subito impegni e cariche percorrendo una «tardiva ma brillante carriera» (Fasano Guarini, 1991, p. 166): in successione temporale e d’importanza, fu vicario di San Giovanni Valdarno (1554), Vicopisano (1557), capitano di Fivizzano (1559), console del mare a Pisa (1561), capitano di Arezzo (1565-66), Pistoia (1569) e Pisa (1574-75); nel 1562 fu eletto uno dei quaranta senatori della città di Firenze.
Tedaldi rientra nel novero di quei commissari che, senza obbligo, relazionarono sui luoghi dove avevano esercitato il loro mandato e i suoi Discorsi sono efficaci testimonianze di precisi momenti di vita delle tre città da lui rette e di cui cerca di cogliere la realtà socioeconomica, il loro rapportarsi con il potere centrale, con l’aggiunta di personali considerazioni ad arte inserite per suggerire al principe eventuali provvedimenti da adottare o da mantenere. Il suo animo traspare dalla sospettosità con cui guarda i sudditi, propria di un cittadino fiorentino abituato ancora a considerare lo Stato più come «dominio» che come Stato regionale con «valenze ‘moderne’» (Fasano Guarini, 1991, p. 173). Malgrado la non rigorosità dei dati che riporta, Tedaldi ha il merito di cercare di quantificare le ricchezze potenziali e attuali dei luoghi e degli abitanti, mentre ragguaglia sulla circolazione delle monete toscane e forestiere, sull’amministrazione della giustizia, sullo spirito religioso dei popoli e su quant’altro crede utile di dover riferire. Sottolinea pertanto che Pistoia e Arezzo hanno meno abitanti rispetto ai loro tempi d’oro, che l’agricoltura e l’allevamento del bestiame sono assai fiorenti ma, per esempio, riordinando gli antichi fossi delle Chiane, il capitanato di Arezzo potrebbe fruttare un sesto in più; inoltre, sempre ad Arezzo, annota Tedaldi, con grave danno, è stata di recente chiusa l’arte della lana e i cittadini abbienti che vi avevano investiti i loro denari «li hanno tutti rimessi a Roma», dove si dice abbiano comprato «offitij» e altro per più di ottantamila scudi (Discorso sopra la Città..., 1566, 2009, pp. 40, 50 s.). I pistoiesi si lamentano che «sono state lor tolte l’entrate» e che non possono maneggiare «un sol pezzo d’arme», ma, nota il commissario, tale proibizione è giusta perché evita «disfacimento e distruzione» e determina «quella buona vita che menano quietamente» (Discorso sopra la città di Pistoia, in Minuti, 1892, p. 324). Se gli aretini gli sembrano dimentichi degli uomini di cultura che resero celebre la loro città, l’aristocrazia pistoiese gli appare vanitosa e ottusa, tesa a moltiplicare le proprie ricchezze, senza curarsi di illustrare la patria con «opere virtuose e magnifiche» (ibid., p. 323). I pisani sono facoltosi e quieti, ma covano nell’animo il pensiero della «grandezza, ricchezza et superbia della loro antichità», peraltro, rispetto alla città di Pisa vista nel 1561 quella del 1574 gli è apparsa assai popolosa e «tanto migliorata et abellita che mi son stupito»; infatti, oltre alle fabbriche della «Religione di Santo Stefano, molti particulari hanno edificate molte honorate case et bellissimi giardini», mentre il vicino porto di Livorno, senza contare gli «infiniti legni piccoli», è pieno di grosse navi, tutte cariche di mercanzie «da diversi luoghi venute» (Al Serenissimo Granduca, in Fasano Guarini, 1991, pp. 174 s.).
Morì a Pistoia il 24 marzo 1575 (Fasano Guarini, 1991, pp. 166 s.). Non ebbe figli, ma la casata continuata da Lionardo suo fratello minore si estinse solo nel 1769. A Firenze, nella chiesa della Ss. Annunziata, un’epigrafe nella cappella di famiglia, detta di san Filippo Benizi, ricorda la figura e l’opera di Giovan Batista.
Opere. Discorso dell’agricoltura (1571), Firenze 1776, con le Memorie riguardanti la vita di G. B. Tedaldi di M. Lastri (pp. III-XIX); Della cultura della vite (lettera al nipote Bartolommeo, Arezzo 13 marzo 1565), Firenze 1776, pp. 5-23, con Avvertenza dello stampatore, pp. 3 s.; Discorso sopra la Città et Capitanato d’Arezzo (1566), in F. Cristelli, Capitanato e Diocesi di Arezzo nelle relazioni di G.B. Tedaldi (1566) e M.A. De Giudici (1691), Città di Castello 2009, pp. 31-61; prima edizione del Discorso, Città di Castello 1984, pp. 13-45: ambedue le pubblicazioni con introduzione e note di F. Cristelli, pp. 3-12 e 11-29.
Fonti e Bibl.: Relazione a Cosimo I sulla riforma della dogana di Pisa e sulla disseccazione del lago di Bientina (1561), Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo manoscritti, D.
E. Gamurrini, Famiglia Tedalda, in Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre, I, Firenze 1668, pp. 347-361; S. Ciampi, Notizie di Lattanzio e G.B. T., in Id., Notizie dei secoli XV e XVI sull’Italia, Polonia e Russia, Firenze 1833, pp. 12-20 (all’interno del volume Ciampi pubblica due scritti di Tebaldo: il Discorso sopra la pianta dell’aspalato, il musco e l’ambracane [e lo zibetto], pp. 109-134, con la lettera di Tebaldo a Cosimo de’ Medici e la risposta di ringraziamento, Pisa, 6 gennaio 1564, e il Discorso sopra la virtù, la liberalità e li egregi fatti d’arme dell’ill.mo et invitto Sig. Giovanni de’ Medici, pp. 79-108; pubblica inoltre, alle pp. 86-88, due lettere di Tebaldo, una ad Antonio Petrei (senza data) e una ad Antonio da Montalbo, Firenze 1° gennaio 1570, e O. Targioni Tozzetti, Note sopra il predetto discorso (sull’aspalato), pp. 128 s.); il Discorso sopra la virtù fu riedito in Vite di uomini d’arme e d’affari del secolo XVI narrate da contemporanei, Firenze 1866, pp. 156-211 (note da p. 183); V. Minuti, Relazione del Commissario G.B. T. sopra la Città e il Capitanato di Pistoia nell’anno 1569, in Archivio storico italiano, 1892, pp. 302-311, cui segue G.B. Tedaldi, Discorso sopra la città di Pistoia e suo Capitanato (1569), pp. 311-331; E. Fasano Guarini, Arezzo, Pistoia, Pisa nelle note del commissario G.B. T. (1566-1574), in Bollettino storico pisano, LX (1991), pp. 161-173 con, in Appendice, G.B. Tedaldi, Al Serenissimo Granduca di Toscana, Pisa 23 luglio 1574, pp. 174-176.