RIVERA, Giovan Battista Antonio Balbo Simeone conte di
RIVERA, Giovan Battista Antonio Balbo (Balbis) Simeone conte di. – Nacque a Torino il 15 gennaio 1703, unico figlio del conte Carlo Emanuele e di Diana Ippolita Gabuti (1678-1709).
Suo padre, ufficiale, morì il 21 ottobre 1703, combattendo contro le truppe francesi in Savoia. Rivera restò affidato alla madre, la quale morì sei anni dopo, il 20 marzo 1709. Orfano, senza fratelli ed erede di un ingente patrimonio, studiò al Collegio dei nobili, dove nel 1721 divenne principe dell’Accademia degli Uniti. Entrò poi all’Università di Torino, dove nel 1724 era fra gli elettori alla carica di rettore per la facoltà di legge e dove si laureò tra il 1724 e il 1725.
Negli anni Venti del Settecento iniziò lo scontro con Carlo Vincenzo Ferrero di Roasio, dal 1722 marchese d’Ormea, destinato a condizionare per sempre la vita di Rivera. Tutto nasceva dalla prossima estinzione del ramo dei Balbo Simeone signori di Montaldo e Pavarolo. Poiché il marchese Giuseppe aveva una sola figlia, Rivera aveva provato a convincerlo a un matrimonio che avrebbe ricompattato i possessi delle due linee. Le trattative, però, non solo non erano andate in porto, ma generarono una profonda inimicizia fra i due. Di questo contrasto seppe approfittare il marchese d’Ormea, che si accordò con il marchese Giuseppe per il matrimonio dei loro figli Paola e Alessandro. Ne nacque un’aspra causa fra Rivera e il conte di Montaldo, che contava sull’appoggio a corte di Ormea e che aveva come avvocato Gian Lorenzo Bogino (il quale su questa causa fondò le basi della propria fortuna politica: cfr. Perrero, 1896). Con sentenza del 14 giugno 1730 il Senato diede la vittoria a Montaldo (e a Ormea), i cui figli, come concordato, si sposarono nel 1738. La causa che contrappose Rivera al politico più potente (e senza scrupoli) degli Stati sabaudi è lo sfondo su cui va collocato l’inizio della sua carriera.
Nel 1734 Rivera entrò a far parte del Municipio di Torino, come decurione di prima classe. Lo scontro con il marchese d’Ormea, nel frattempo divenuto il principale ministro di Carlo Emanuele III, rendeva la sua posizione a Torino assai difficile. All’inizio del 1735 il re decise di inviarlo a Genova in missione diplomatica, allontanandolo così dalla capitale.
Pare che la decisione di darsi alla carriera diplomatica non fosse di Rivera: il 19 gennaio 1735, infatti, il ministro genovese a Torino Giovan Battista De Mari scrisse a Genova di avere conosciuto Rivera che «non era per anco avvisato della sua destinazione», il quale gli era «parso giovane quieto di 32 anni, applicato alle belle lettere, principalmente alla legale, studiata in questa Università» (Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto, m. 2493A). La nomina arrivò con patenti del 13 aprile 1735 (Archivio di Stato di Torino, Patenti controllo finanze, reg. 12, c. 28).
Il soggiorno genovese, tuttavia, durò solo un paio d’anni. Rientrato a Torino, il 20 marzo 1737 Rivera fu chiamato nel Senato di Piemonte (reg. 13, c. 96). Sembrava, quindi, che la magistratura fosse destinata a esser lo spazio definitivo della sua azione, ma non fu così. Il 22 settembre 1738 il re lo nominò «inviato straordinario» a Roma (reg. 14, c. 54). Rivera avrebbe esercitato tale carica per quarant’anni, senza più rientrare a Torino, se non sporadicamente. Vale la pena notare che la scelta di nominare un senatore a una carica diplomatica costituiva un caso più unico che raro nelle pratiche di governo sabaudo. Ormea non fu contento dell’invio di Rivera a Roma: in effetti, questi si mosse spesso per ostacolare le mosse di Ormea. Ancora nel pieno delle trattative per il concordato, nel 1740, Ormea scrisse al papa di non fidarsi del tutto di Rivera e da allora questi fu di fatto estromesso dalle trattative. Nel 1741 Ormea cercò di farlo trasferire alla corte di Dresda, ma senza riuscirci. Lo scontro fra Rivera e Ormea terminò solo con la morte di quest’ultimo, nel 1745.
Ricostruire la vicenda diplomatica di Rivera significherebbe ricostruire la storia politica sabauda alla metà Settecento. Quello che qui pare importante notare è la stima che egli si conquistò sul non facile teatro politico e diplomatico romano. Mentre Bernardo Tanucci lo detestava («un estuante ministro di una corte estuante e sempre in fermento» lo definiva in una lettera al duca di Cerisano, del 13 luglio 1756, in Tanucci, 1984, p. 93), la maggior parte del corpo diplomatico straniero a Roma lo stimava notevolmente. Molti anni dopo, Giuseppe Gorani scrisse che Rivera, «quoique la puissance qu’il représentoit fût des moins importantes, avoit cependant beaucoup d’influence a Rome», essendo «un homme d’une grande pénetration et rempli de conoissances». «On le redoutoit», scriveva l’illuminista lombardo, «à cause de la franchise et de la vivacitè qui lui dictoient souvent des mots assaisonnée d’un sel très-piquant» (Gorani, 1794, pp. 109-111). Gorani sottolineava, fra l’altro, il buon rapporto di Rivera con diversi pontefici, fra cui Clemente XIV, che per lui avrebbe avuto «une estime toute particulière», nonostante Rivera fosse ritenuto filogesuita e fosse grande amico di Giulio Cesare Cordara (1704-1785), storico della Compagnia.
Vittorio Alfieri conobbe Rivera nel 1767 in occasione di un suo soggiorno romano e nella Vita lo descrisse come un «degnissimo vecchio» che gli «dava degli ottimi e luminosi consigli» (Vita scritta da esso, Epoca III, Giovinezza, cap. III, Proseguimento dei viaggi, Londra 1804, p. 119), al punto da vergognarsi per la propria ignoranza a fronte della grande cultura classica di Rivera. Questi divenne anche amico di Carlo Denina, delle cui Rivoluzioni d’Italia fu primo lettore e correttore del manoscritto.
Colto e competente, Rivera si occupò personalmente di seguire la formazione romana degli artisti che dagli Stati sabaudi venivano inviati nella capitale, come gli scultori Ignazio Collino e Lorenzo Lavy, il musicista Gaetano Pugnani e il pittore Ludovico Tesio. Fu, tra l’altro, in ottimi rapporti con Pompeo Batoni.
Stando a Vittorio Del Corno, Rivera aveva pensato di poter esser nominato cardinale, ma da Torino gli fecero sapere che in questo caso avrebbe dovuto rinunciare a ogni ruolo politico (Del Corno, 1890, p. 255). Il 25 luglio 1768, a trent’anni dalla sua nomina a Roma, fu nominato ministro di Stato (Archivio di Stato di Torino, Patenti controllo finanze, reg. 41, c. 149). Nel 1771 Carlo Emanuele I inviò ad assisterlo il marchese Giovanni Grisella di Cunico.
Rivera morì a Roma il 26 febbraio 1777 e fu sepolto al Santo Sudario, chiesa nazionale dei sudditi sabaudi. Lasciò erede l’Ordine mauriziano, di cui era cavaliere di Gran croce.
Fonti e Bibl.: B. Tanucci, Epistolario, IV, 1756-57, a cura di L. Del Bianco, Roma, 1984, p. 93.
G. Gorani, Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernemens et des moeurs des principaux États de l’Italie, II, Paris 1794, pp. 109-111; F. Dal Pozzo di Castellino, Observations sur la nouvelle organisation judiciaire établie dans les états de S.M. le Roi de Sardaigne, Londra 1823, pp. 40-43; V. Del Corno, I marchesi Ferrero d’Alassio patrizi genovesi ed i conti De Gubernatis, I, Torino 1890, pp. 208-210, 255-257, 263, 280; A.D. Perrero, Una leggenda sul conte G.L. Bogino ridotta a verità storica, in Gazzetta letteraria, 2 ottobre 1896; G. Ricciardi, La soppressione e la restaurazione della nunziatura di Torino, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, X (1956), pp. 398-402; E. Genta, Senato e senatori di Piemonte nel secolo XVIII, Torino 1983, p. 148; C. Mossetti, La politica artistica di Carlo Emanuele III, in Arte di corte a Torino da Carlo Emanuele III a Carlo Felice, a cura di S. Pinto, Torino 1987, pp. 24, 30; P. Astrua, Le scelte programmatiche di Vittorio Amedeo duca di Savoia e re di Sardegna, ibid., pp. 68, 82 s., 90; D. Frigo, Principe, ambasciatore e «jus gentium». L’amministrazione della politica estera nel Piemonte del Settecento, Roma 1991, pp. 236 s.; L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Firenze 1995, pp. 87 s., 99 s., 134 s.; M.T. Silvestrini, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997, pp. 108-110, 264-267.