CLARIO, Giovan Battista
Medico, verseggiatore latino, filosofo dilettante, nacque, probabilmente a Udine, intorno al 1570. Nei verbali del S. Uffizio vien detto costantemente "de Utino", anche se la famiglia, quand'egli vide la luce, risiedeva a Cividale; entrambi udinesi erano i genitori: il padre Leonardo (c. 1519-1599) e la madre Elena Bratteolo, sposi il 14 marzo 1558. Quanto alla data di nascita, si avverta che il C. in fronte ai propri Epigrammata (1600) dichiara di averli composti "adolescens", quindici anni prima, e che dei propri Dialoghi parla come di un "picciolo parto natomi mentre ancor molto giovinetto mi trovavo in Roma" cioè fra il cadere del 1594 e la metà del 1596.
La famiglia era di origini modeste: il nonno, "mastro" Giovanni Astolfo, era probabilmente un artigiano e il padre Leonardo solo in età provetta (1548), lamentando le proprie "povere facultà", ottenne dalla Comunità di Udine un sussidio di cento scudi annui per un quadriennio onde poter studiare medicina a Padova. Lo si ritrova infatti protomedico a Cividale, almeno dal '57 al '73, e in ascesa economica, tanto da poter acquistare terreni a San Giovanni al Natisone (1563-64), anche se aggravato da numerosa figliolanza. Il suo primogenito Francesco, che aveva studiato dal '78 all'83 presso i gesuiti di Graz, nell'85, studente a Padova, vi pubblicò un'orazione De humanitate principis Caroli (in lode dell'arciduca d'Austria benefattore della propria famiglia), nella quale si dichiara primo di nove fratelli (cui due altri se ne aggiunsero in seguito).
In casa di Leonardo, a Cividale, abitava anche il fratello Giov. Battista seniore, ch'era entrato fanciullo nell'Ordine domenicano intorno al 1530, ne era uscito con le dovute autorizzazioni per scarsa vocazione e insofferenza della disciplina e viveva come prete secolare grazie a un piccolo beneficio di vicario a Rualis (dal '61) e qualche provento d'una scuola per fanciulli. Denunciato all'Inquisizione e carcerato il 3 sett. 1568, l'ex frate ebbe a subire un minuzioso processo a causa di una sequela di opinioni luterane che aveva incautamente sostenuto per iscritto e di varie composizioni satiriche, anche in versi, che beffeggiavano il papa, gli alti prelati e il vicario patriarcale di Udine Giacomo Maracco, il quale nel processo si apprestava a sedere come parte lesa e come giudice. Una perquisizione domiciliare aveva portato al sequestro di stampe ereticali, di un copialettere compromettente e di libelli temerari, sicché la causa assunse una certa gravità, il S. Uffizio romano e il Senato veneto ebbero a interessarsene e l'imputato subì anche la tortura (11 genn. 1569). Egli non era però tempra di martire, sicché prima negò il negabile, poi ammise ogni cosa (persino che suo padre, ormai al sicuro nella tomba, "teneva queste opinioni") e si professò contrito e pronto ad ogni ritrattazione. La sentenza finale, che elenca ben ottantatré capi d'imputazione, lo condannò alla pubblica abiura (che ebbe luogo il 10 maggio nel duomo di Cividale), a quattro anni di confino nel locale convento francescano di S. Giorgio, all'interdizione perpetua dal predicare, confessare, somministrare i sacramenti e insegnare. In realtà, poche settimane più tardi, già veniva autorizzato a prender stanza in casa del fratello e nell'aprile del '70 era in libertà: solo il divieto di ammaestrare i fanciulli restò inamovibile in perpetuo.
La disavventura toccata al fratello, con il discredito sociale che ne conseguiva, contribuì forse ad indurre Leonardo a trasmigrare. Nel luglio del '73 battezzò ancora a Cividale la figlia Lucrezia, ma almeno dal '78 lo si ritrova medico a Lubiana, donde datò nel giugno una lunga lettera su questioni di filosofia ermetica; là ebbe occasione di farsi apprezzare dall'arciduca Carlo d'Asburgo, che lo volle con sé alla corte di Graz come protomedico di Stiria.
Si spiega così come il C., per poter degnamente succedere al padre nel lucroso ufficio, si recasse a Padova intorno al 1589 a studiar medicina, e come iI 26 giugno 1593 vi conseguisse il dottorato. Fra i testimoni del conferimento spicca quello di un giovane domenicano fuggiasco e inquieto: fra' Tommaso Campanella. Un'amicizia infausta per il C., che ben presto si trovò accusato davanti al tribunale dell'Inquisizione, a fianco dell'esule calabrese, per non aver denunciato (com'era d'obbligo) un "giudaizzante", cioè un ebreo battezzato che aveva fatto ritorno all'antica fede. Arrestato ai primi del '94 e rinchiuso insieme al Campanella nelle carceri vescovili, vide fallire il 30 luglio un tentativo di effrazione operato da un manipolo spregiudicato di amici decisi a liberare i prigionieri, e come soggetto pericoloso venne spedito di soppiatto a Roma, senza il prescritto assenso del Senato per l'estradizione. L'11 ottobre entrò così nelle celle del S. Uffizio romano, dove il suo processo si svolse con celerità, concludendosi con la condanna all'abiura de vehementi haeresis suspicione; sempre a fianco del Campanella, egli vi si piegò, nella chiesa della Minerva, il 16 maggio del 1595.
Come già aveva fatto lo zio, in quei frangenti il C. si mostrò timoroso e contrito, proclamò la propria innocenza e attribuì la disavventura patita alla perfidia "di un solo e falso calunniatore". Il suo atteggiamento sottomesso e adulatorio è rivelato dagli epigrammi latini da lui composti in quei mesi, in lode del papa Clemente VIII, dei cardinali inquisitori Santoro e Sarnano, del commissario fra' Alberto Tragagliola, del consultore Agapito de Curteregis, ad istanza del quale compose una corona di componimenti per esaltare la canonizzazione del domenicano polacco s. Giacinto. Compose allora, se non tutti, certo i tre primi dei suoi Dialoghi (Della consolazione,Delle avversità,Delle ingiurie), che hanno in comune la scena del carcere e i due interlocutori, cioè Panfilo, che è il C. stesso, e Armenio, nel quale è adombrato il Campanella.
Si tratta di lamenti sulle miserie e le ansie del recluso, miste a invettive contro l'"uomo scelerato", che con le sue false accuse ha provocato quella sventura; ad Armenio tocca la parte del consolatore, che esorta a sopportqre con fortezza, anche perché altra volta si è trovato in simili travagli. Fra i restanti sei dialoghi, che completano la raccolta, forse in parte di redazione più tarda, è degno di nota soltanto quello Del freddo, di stretta ispirazione telesiana mutuata attraverso la fisica del Campanella, che vi è espressamente citato. Qua e là ricorrono derivazioni supine dalla Poetica giovanile dello stesso filosofo, il quale ricorda di aver consegnato al C. anche copia della propria Arte versificatoria in metri barbari", che è andata purtroppo perduta.
Coinvolto così, tra cose più grandi di lui, in una grave disavventura, che gli procurò non solo angosce e disagi, ma un marchio che avrebbe potuto compromettere la sua sperata carriera presso una corte rigidamente cattolica, il C. non cessò di proclamare la propria innocenza e di cercar di cancellare dalla memoria del più quel triennio amaro della sua giovinezza. Dopo l'abiura, gli toccò di scontare un periodo di carcere, ma con prospettive di sollecito condono: così il 10 luglio 1595 il fratello Francesco poteva scrivere al patriarca di Aquileia degli "ottimi avvisi" ricevuti da Roma, per rincalzare il 21 agosto, esprimendo speranze di una imminente "total liberazione del dottor mio fratello". Questi invece dovette subire quasi un anno di prigionia: liberato al cadere d'aprile del '96, il 6 maggio era a Firenze e il 26 dello stesso mese era atteso a Graz "d'ora in ora".
La successione al vecchio padre, che lamentava in quegli anni gli acciacchi senili, le malattie e il carico familiare, stava per aprirsi. Il reduce gli si affiancò subito, con titolo di "medicus aulicus", ma senza stipendio, e nell'autunno del '98 fu aggregato al seguito della quattordicenne Margherita, figlia dell'arciduca Ferdinando, che moveva da Graz alla volta della Spagna quale sposa destinata a colui che proprio in quei giorni sarebbe salito al trono con il nome di Filippo III. Il C., frammisto ai cinquecento componenti di quel corteggio, tenne un diario del lento viaggio da Graz (29 settembre) a Trento (30 ottobre), disseminandovi in copia gli encomi asburgici; il 20 marzo 1600 lo dedicherà, in copia d'omaggio, all'arciduca Massimiliano. Certo egli seguì la sposa fino a Ferrara, dove il 15 nov. 1598 papa Clemente VIII celebrò le nozze regali, ma non risulta che si spingesse poi fino in Spagna. Era comunque a Graz nel febbraio 1599, quando firmò una supplica per ricordare i tre anni di servizio a corte, le spese incontrate nel viaggio in Italia, la necessità di un regolare stipendio; la morte del padre ottantenne, seguita poche settimane più tardi (11 aprile), gli aperse la via al sospirato impiego. L'anno seguente, nel dare in luce i propri Epigrammaton libri tres (Graz 1600), già poteva fregiarsi del titolo di "medico del ser. principe Ferdinando arciduca d'Austria".
Si tratta di trecentodieci componimenti, ora satirici (sempre cautamente rivolti contro personaggi anonimi o immaginari), ora, ben più sovente, laudativi per medici, letterati come il Tasso o il Guarini, filosofi come il Cremonini, nobili veneti, funzionari arciducali e soprattutto per una lunga sequela di rampolli asburgici.
Da quel momento la sua carriera fu prospera: nel 1605 lo si incontra a Ferrara in occasione della prima rappresentazione della Filli di Sciro del Bonarelli e della lettura dell'Amata di Baldassarre Bonifacio, che lo tratteggia come un saccente autoritario, ma insignito ormai de titolo di protomedico della Stiria. Nel 1609 stampò a Venezia i propri Dialoghi e le garbate Rime teologiche e morali del padre, mentre l'anno seguente un suo epigramma apparve in un florilegio poetico in lode di Tommaso Contarini, podestà di Padova. In piena ascesa sociale, non solo voleva rimuovere il ricordo amaro del processo subito, ma sparlava anche dell'antico compagno di sventura; Gaspare Scioppio, che lo vide a Graz nel marzo 1609, riferisce che egli sconsigliava la liberazione di Campanella, considerandolo un pazzo che si credeva nato a dar legge al mondo, anche in virtù di un oroscopo più eccezionale di quello di Cristo; due mesi dopo rincalzava, asserendo di conoscerne tutti i segreti e di averlo visto con i propri occhi evocare i demoni.
Ricco ormai e senza figli, poteva inseguire le onorifiche vanità: il 15 sett. 1609 ottenne dall'imperatore il titolo non ereditario di conte palatino e il 23 febbr. 1610 quello di barone "von und zu Sparbersbach", l'ameno castelluccio che s'era comperato nei dintorni di Graz e sul quale poteva inalberare uno stemma di tre stelle d'argento in campo azzurro. L'ultima notizia che lo riguarda in vita è una cospicua fideiussione da lui prestata nell'ottobre 1614 a favore di Carlo Albertinelli, che si riprometteva di esportare dai paesi danubiani alla volta dell'Italia 10.000 manzi all'anno per un decennio.
Opere: Poemi raccolti da diversi nobili ingegni de la Patria del Friuli, Udine 1592, c. 31; Relazione delle cose successe nel viaggio di Graz a Trento della ser. Margherita arciduchessa d'Austria (1600), ined. nei codd. Innsbruck, Universitätsbibl., cod. 987, e London, British Library, cod. Sloane 3818; Epigrammatum libri tres, Graeci Styriae 1600; Dialoghi, Venezia 1608; dedica in fronte a L. Clario, Rime teologiche e morali, Venezia 1608; Polinnia per l'ill.mo sig. Tommaso Contarini... podestà di Padova, Padova s.d. [1609], c. F7.
I suoi beni passarono al nipote Giovan Leonardo, figlio di suo fratello Tommaso, residente in Cividale, il quale nel testamento del 3 giugno 1617 menziona il germano Giovan Battista "fisico" come già defunto.
L'erede perfezionò la promozione sociale dalla professione alla nobiltà sposando nel 1617Barbara di Leonhard Götz, cancelliere di corte e futuro vescovo di Lavant; lo stesso ottenne il 20 febbr. 1623 il conferimento della baronia di Sparbersbach, nel '27fu ascritto alla nobiltà di Gorizia e nel '41 venne accolto fra i nobili negli "stati" provinciali di Stiria; suo figlio Baldassarre, designato ormai come barone "di Clary", divenne finalmente conte dell'Impero.
Fonti e Bibl.: Su Giovan Battista seniore: Udine, Bibl. arcivescovile, Acta S. Officii 1568-1573; Ibid., Sententiarum contra reos S. Officii lib. I; Udine, Bibl. comunale, cod. 916; Arch. di Stato di Venezia, Savi all'eresia, buste 25, 161. Sul C. cfr.: Graz, Steiermärk. Landesarchiv, Hofkammer, 1599 febbr. n. 2; 1600 genn. nn. 83; 1607 giugno n. 26; 1610 dic. n. 85; 1614 ott. nn. 28. 45; 1617 genn. n. 56; Ibid., Adelsverleihungen, 2, n. 94; Padova, Arch. vesc., Diversorum I, vol. 58, c. 25; Arch. di Stato di Udine, Fondo Caimo 47; Udine, Bibl. comunale. codd. Ioppi 681 B. 710 B, 710 D; Venezia, Bibl. naz. Marciana, cod. Ital. IX, 287. Cfr. inoltre su Giovan Battista seniore: E. Comba, I nostri protestanti, II, Firenze 1897, p. 678; A. Battistella, Brevi note sul S. Officio e sulla riforma religiosa in Friuli, in Atti d. R. Accad. di Udine, s. 3, X (1902-03), pp. 265-285; A. Tonutti, Fagagna, Udine 194, p. 92; L. Firpo, Ricerche campanelliane, Firenze 1947, pp. 28-32, 310-318; L. De Biasio, L'eresia protestante in Friuli nella seconda metà del sec. XVI, in Mem. stor. forogiuliesi, LIX (1972), pp. 99 ss. Sul C.: B. Bonifacio, Amata,tragedia, Venezia 1622, pp. 5 ss., 76-80; T. Campanella, Syntagma de libris propriis, Parisiis 1642 (rist. Milano 1927, p. 21); [F. Albizzi], Risposta all'istoria della S. Inquisiz. composta già dal r. p. Paolo Servita,s. l. né d. [Roma 1678], p. 119; G. C. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 367 s.; F. Di Manzano, Cenni biogr. di letterati e artisti friulani, Udine 1884, p. 62; L. Amabile, Fra T. Campanella,la sua congiura,i suoi processi..., Napoli 1882, I, pp. 64 ss.; Id., Fra T. Campanella ne' Castelli di Napoli..., Napoli 1887, I, p. 105; II, pp. 46 ss.; B. Brugi-L. Andrich, Rotulus et matricula... Gymnasii Patavini a. 1592-93, Patavii 1892, pp. 29 s.; P. Paschini, Eresia e riforma cattolica al confine orientale d'Italia, Roma 1951, p. 53; T. Campanella, Poetica, in Tutte le opere, a cura di L. Firpo, I, Milano 1954, p. 417; K. F. von Frank, Standeserhebungen und Gnadenakte für das deutsche Reich, I, Schloss Sentftenegg 1967, p. 183; S. Cavazza, Contributi alla tradizione mss. di opere campanelliane, in La Cultura, X (1972), p. 420.