MARINO, Giovan Battista
(Giambattista). – Nacque a Napoli il 14 ott. 1569 da Giovan Francesco, giureconsulto; il nome della madre è ignoto.
Il padre coltivava la poesia e pare si compiacesse d’intrattenere in casa sua la nobiltà con «passatempi virtuosi di egloghe et commedie» (Baiacca, pp. 27 s.); morì poco prima della moglie, venuta a sua volta a mancare alla fine del secolo, assistita dal M., primogenito, e da altri sei figli, come testimonia la solenne canzone in morte di lei (Rime. Parte seconda, Venezia 1602, pp. 161-167). Della cerchia familiare importa ricordare il nipote Francesco Chiaro, figlio di Camilla, sorella del M., e del medico Cesare. Fu in contatto con il M. a Parigi nel 1621 e divenne in seguito il suo primo biografo, preceduto solo dalla Vita di G.B. Baiacca (da cui l’accusa di plagio rivoltagli da Chiaro, pp. 63 s.); fu in parte responsabile della pubblicazione delle opere postume dello zio, in quanto interessato all’eredità e legato a Giacomo Scaglia, ultimo editore di fiducia del Marino.
Il M. fu allievo dell’umanista Alfonso Galeota. Compiuti gli studi di grammatica e retorica, all’inizio del 1583 il padre lo avviò allo studio del diritto, nel quale progredì per tre anni prima di abbandonarlo a favore della poesia, come egli stesso attesta nell’Adone (IX, 69-72). A seguito di questa scelta, il padre lo cacciò di casa, mettendolo in condizione di dover chiedere aiuto ad amici e mecenati napoletani. Non è certo da chi venisse ospitato: Chiaro (p. 11) fa i nomi di Ascanio Pignatelli duca di Bisaccia, Innico di Guevara duca di Bovino («alla casa del quale egli dimorò per lo spatio di tre anni») e Matteo di Capua principe di Conca. Di certo chiese una prima volta 4 ducati in prestito a G.B. Manso (Lettere, p. 5; è la sua prima lettera nota, databile al 1593), e anche nella dozzina di lettere successive, pure a Manso, avanza richieste di denaro e promette restituzioni. Con il nome di Accorto entrò nella giovane Accademia degli Svegliati, retta da Giulio Cortese, alla quale erano ascritti, tra gli altri, T. Tasso, Pignatelli e Manso. Con questo pseudonimo figura infatti nella prima parte delle Rime et prose di Cortese (Napoli, G. Cacchio, 1588), cui rivolge un sonetto che risulta essere il suo primo componimento a stampa. Manoscritti rimangono, se sono suoi come asserisce Borzelli (pp. 8 s.), due sonetti per la tragica morte, nell’ottobre 1590, di Maria d’Avalos, moglie di Carlo Gesualdo principe di Venosa, e del suo amante Fabrizio Carafa duca d’Andria.
Mancano invece prove che attestino la precocità della canzone O baci aventurosi, sulla quale si fonda la fortuna del giovane M. e che Tommaso Stigliani afferma già a stampa a Napoli in questo periodo (Raboni, p. 297). Un manoscritto parigino di rime di diversi (Bibliothèque nationale, Fonds italien, 575), che comprende la canzone l’Inno alle stelle e ben undici sonetti a lui attribuiti, di cui otto a stampa solo nella terza parte delle Rime (Venezia 1614), reca la data del 1601. Le prime attestazioni sicure della fortuna musicale toccata ai componimenti mariniani (a partire dal 1602 eccezionalmente ampia, seconda solo a quella coeva del ben più anziano B. Guarini), sono nelle raccolte madrigalesche del napoletano Giovan Domenico Montella (Primo libro de madrigali a cinque voci, Napoli, F. Stigliola, 1595; Secondo libro de madrigali a cinque voci, Venezia, G. Vincenzi, 1596) e del siciliano Tomaso Giglio (Il secondo libro de madrigali a sei voci, ibid. 1601), che mise in musica una strofa della canzone dei baci.
È con ogni probabilità una silloge degli Svegliati la raccolta di rime che il M. progettò di pubblicare (Lettere, pp. 13, 19, 23), poi non andata in porto, per cui Stigliani lo accuserà di non averne favorito la stampa per coprire meglio il saccheggio operato sui manoscritti (Borzelli, pp. 18 s.). Altro impegno editoriale fu la pubblicazione di un dialogo di Tasso, con ogni probabilità Il Manso, overo Dell’amicizia (Lettere, pp. 9 s., 16 s., 19-21, 23), avvenuta postuma alla fine del 1595. Almeno in questa occasione il M. ebbe modo di avvicinare Tasso; entrambi composero versi per la morte di Cordelia de la Noy duchessa di Castel di Sangro, protettrice degli Svegliati (Rime. Parte prima, p. 155 = Rime lugubri, n. 18); e uno scambio di sonetti è attestato da Rime. Parte prima (p. 228).
Nel 1594 il M. era con Pignatelli a Nola, impegnato a comporre alcune egloghe a imitazione di Virgilio, «parte in verso sciolto e parte in quello stile che usa il Tasso nell’Aminta, in versi rotti e intieri, e tra volta e volta quando vi può cader la rima senza regola ferma» (Lettere, p. 18). È questa la prima opera (edita postuma come Egloghe boscherecce, Milano 1627) che pare impegnarlo a fondo: tra queste egloghe, se nel Lamento la presenza virgiliana è rilevante, Dafne, Siringa e Pan mostrano l’attrazione per temi decisamente ovidiani ed è già la premessa della futura Sampogna. Fra i contemporanei esercizi minori e burleschi, per noi persi, si ricordano la Stuffa, cui «ebbero parte altri begli ingegni» (Russo, Studi, p. 179), e la Cuccagna, che in seguito lo metterà nei guai a Torino.
Nella seconda metà del 1596 divenne segretario personale di Matteo Di Capua. Ebbe quindi accesso alla ricca biblioteca e all’imponente quadreria del principe, grazie alla quale ebbe modo di coltivare quel gusto per l’arte figurativa che sarà la passione predominante di tutta la sua vita, in ricercata e spesso felice sintonia con la passione poetica. È di questi anni una cinquantina di componimenti (poi nelle prime due parti delle Rime) su pitture e sculture. Nacque in questo momento anche l’embrione di ciò che sarà l’Adone. Ne è testimone il vecchio Camillo Pellegrino, primicerio di Capua, che in una lettera ad Alessandro Pera, della fine del 1596, afferma: «Ho inteso far le meraviglie del poema d’Adone, che il signor Marino ha per le mani» (Borzelli, p. 210). Anche un sonetto di proposta di Pellegrino al M. (Rime. Parte prima, p. 235) allude a un canto sui sospiri di Venere.
Nel 1598 lo stesso Pellegrino nel suo dialogo Del concetto poetico introdusse il M. a discutere con Di Capua e Pompeo Garigliano attorno a quel che si definirà concettismo. Per quanto sia rimasta manoscritta (poi edita in Borzelli, pp. 325-359), l’opera è un’importante e precoce trattazione sul fenomeno, che nel dialogo, non a caso, è illustrato dal giovane Marino. È anzi significativo che il riconoscimento venga da Pellegrino, il quale nel 1584, con Il Carrafa, overo Dell’epica poesia, era emerso quale entusiasta propugnatore dell’epica tassiana di contro al modello ariostesco.
A tutt’oggi oscuri sono i motivi della prima carcerazione del M. nell’estate del 1598: improbabili le nozze clandestine secondo la diceria raccolta da Borzelli (pp. 38 s.); più probabile l’accusa di sodomia, accennata da qualche fonte e ribadita poi troppo facilmente dai suoi maggiori nemici (Gaspare Murtola, Stigliani), tanto che a un certo punto il M. sentì il bisogno di scrivere la canzone Invettiva contra il vitio nefando, apparsa postuma (cfr. Giambonini, 2000, n. 251). Né aiuta a chiarire i motivi della prigionia il capitolo bernesco intitolato il Camerone (in Borzelli, pp. 216-224, secondo la stampa parigina del 1646), che si conclude con una richiesta di aiuto a Di Capua; ma fu grazie all’intercessione di Manso che il M. recuperò la libertà (Lettere, p. 125).
Apparve di questi tempi la prima stampa autonoma del M.: un Prologo sopra del Pastor fido, rappresentato nella città di Nola l’anno 1599 (s.n.t. [ma 1599]; edito in Viola, pp. 127-137). Lo scritto testimonia un rapporto con Guarini che precede il loro incontro a Roma, e apre le pubblicazioni del M. sotto il segno di una materia mitico-pastorale da cui mai si allontanerà, ma che non coltiverà nell’ambito drammatico. Già in questo prologo il M. propone quella finzione come un mondo poetico che consente di sottrarsi al mondo violento della politica.
Il primo contatto con Roma fu favorito da un viaggio per il giubileo del 1600, che lo spinse sino a Loreto. Dopo l’agosto, a Napoli, fu ricacciato in carcere per falsificazione di atti a favore del giovane nobile Marcantonio D’Alessandro, accusato di omicidio e poi giustiziato in quello stesso anno. Il M. non ricorse più a rime burlesche: implorò bensì l’aiuto di Di Capua e di altri, ma solo Manso riuscì a comprargli la fuga (Fulco, 1997, p. 602), tollerata dal viceré Francisco Domingo Ruiz de Castro y Portugal. L’arrivo a Roma è descritto da Ferrari (p. 70): «in una camera d’una locandiera, afflitto dell’animo e malagiato del corpo». L’amico napoletano Antonio Martorani ne avvertì Arrigo Falconio e Gasparo Salviani, già ammiratori del M., i quali andarono assieme a visitarlo e «a servitii di Melchior Crescentio cavalier romano e cherico di Camera sotto assai honorate conditioni il condussero» (ibid.). Di qui si capisce la dedica a M. Crescenzi della Parte prima delle Rime, ma anche la fedeltà di un’intera vita alla famiglia del gentiluomo.
A Roma il M. partecipò alle riunioni della futura Accademia degli Umoristi, che si andava raccogliendo in casa di Paolo Mancini e attraverso Crescenzi si guadagnò la benevolenza di Guarini. Per seguire la stampa delle prime due parti delle Rime, nel 1602 si recò a Venezia, passando per Siena, Firenze e Padova (Rime. Parte prima, p. 98 = Rime boscherecce, n. 61). A Siena T. Pecci gli mise in musica la canzone dei baci (per questo ringraziato in Rime. Parte prima, p. 211). A Firenze, dove soggiornò più del previsto, fu ospite di Iacopo Corsi (ibid., p. 69 = Rime boscherecce, n. 2), esponente di spicco della Camerata Fiorentina, e conobbe G.B. Strozzi. La proposta a Celio Magno (Rime. Parte prima, p. 221) è da ricondursi al fervido soggiorno veneziano, durante il quale strinse amicizia con Guido Casoni che, secondo quanto riferisce G.F. Loredan (pp. 9 s.), sarebbe continuata fino alla morte del Marino. In Rime. Parte seconda sta peraltro una canzonetta su La rosa che decisamente molto deve all’omonima ode di Casoni.
L’aggiornamento delle due cospicue parti delle Rime sulle ultime vicende biografiche del M. è dunque ragguardevole. Uscirono entrambe nel 1602 a Venezia, per G.B. Ciotti, con il titolo Rime amorose, marittime, boscherecce, heroiche, morali, sacre et varie. Parte prima e Rime. Parte seconda. Madriali, et canzoni.
La dedica della prima parte a Crescenzi, datata 10 febbr. 1602, dice di «un rustico ma nuovo ordine», sulla cui novità dispositiva e sulla cui rusticità (marittima e boschereccia) non è lecito dubitare. Il fatto stesso che questi primi fiori venissero definiti «privi in tutto di qualunque ricercato artificio» ha ormai una sua evidenza storica, almeno in rapporto alle più lambiccate espressioni liriche del tempo (Besomi, 1969) e persino in rapporto alla fortuna mariniana, in cui la prima produzione ha mantenuto, anche agli occhi dei mal disposti lettori sette-ottocenteschi, un carattere di freschezza non riconosciuto al Marino. La dedica contiene inoltre l’annuncio di un «frutto maturo di poema più grave» cui il M. stava lavorando, «fondato sopra la vendetta della morte di Cristo, eseguita per divina volontà da Tito imperatore nella città di Gerusalemme»: si tratta della Gerusalemme distrutta, di cui ci resta solo un settimo canto, per di più apparso postumo a Venezia nel 1626 (cfr. Giambonini, 2000, n. 199; Fulco, 2001, pp. 73-75), ma oggi attestato come residuo di un più ampio cantiere, frequentato proprio nel 1602 (Russo, Studi, pp. 68-100).
La Parte seconda, fu dedicata, con data 15 febbraio, a Tomaso Melchiori, quale personalità intendente «delle arti armoniche, come sono musica e poesia». Il M. vi vanta in particolare la canzone dei baci «scherzo giovanile e poco men che fanciullesco» tradotta in varie lingue «come schiavone, spagnuolo, e pur ora da monsignor Ruberto Crampone leggiadrissimamente in francese»: ulteriore segnale, quest’ultimo, di un orientamento francofilo da far risalire almeno all’inizio del secolo, ossia a partire dalle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV, cantate in Rime. Parte prima (pp. 115-119 = Rime eroiche, nn. 5-12).
Le due parti delle Rime sono un evento senz’altro eccezionale, per la mole e per la distribuzione in sezioni che – rispettando la tripartizione prevista da Tasso in amorose, encomiastiche e sacre – il M. dettaglia ulteriormente, distinguendole in sottogeneri autonomi: la materia amorosa in Marittime e Boscherecce, l’encomiastica in Eroiche e Lugubri; separando Morali e Sacre e includendo nelle Varie una materia che sarà più avanti felicemente definita Capricci ed è da subito fortemente autobiografica. La Parte seconda, melica, ripete senza dichiararle le medesime sezioni, consentendo accostamenti inediti tra gli affetti prettamente erotici e quelli sacri. Il genere lirico, sin da questa prima grande prova, si manifesta il genere supremo, tant’è che lo stesso Adone sarà dominato dal tema amoroso: il M. non propone dunque il catalogo del poetabile, come spesso è stato detto, bensì conforma il poetabile all’espressione lirica. Se i generi coltivati da Tasso in un quadro di sicura referenza rinascimentale continuano a sollecitarlo (a esclusione della tragedia), essi sono movimentati dall’interno con il ricorso a modelli antichi prima non operanti: nel caso delle Rime, se pur non esplicitata, l’Antologia greca.
Il successo delle Rime fu immediato e il ritorno del M. a Roma – non senza fermata a Bologna – fu segnato dalla chiamata al servizio del potentissimo cardinal nipote Pietro Aldobrandini, che diede come primo frutto l’epitalamio per le nozze di Elena Aldobrandini, figlia di Gian Francesco, con il duca di Mondragone Antonio Carafa. La nuova posizione garantì al M. un più ampio credito nel mondo degli artisti. Si avviò così un ricco e lungo carteggio con il pittore genovese Bernardo Castello, dal quale il M. ottenne presto opere di suo gusto. Castello lo mise in contatto con l’ambiente genovese di Scipione Della Cella, Gian Vincenzo Imperiale e Gabriello Chiabrera (Lettere, p. 32) e fu sempre lui, in vista di eventuali illustrazioni, ad avere nel 1605 le prime notizie di vari poemetti mariniani, tra cui uno «in tre libri» su Adone, la Strage degl’innocenti in due libri e i primi panegirici: opere che il M. prevedeva di pubblicare a Venezia presso G.B. Ciotti, già intralciato però dall’Inquisizione (Lettere, pp. 53-55).
A Roma sicuramente frequentò la casa di Marcello Sacchetti, pittore e poeta, cui indirizzò quell’Amore incostante che chiude provocatoriamente gli Amori della Lira. Tornò a frequentare don Angelo Grillo, già conosciuto a Napoli, che presto parlò con onore di lui poeta; si rivolse alla concittadina Margherita Sarrocchi con la quale, a dire di Giovan Vittorio Rossi (Eritreo), ebbe una relazione e poi un dissidio tenace, tanto che l’autrice della Scanderbeide fu eternata come Pica accanto al Gufo Stigliani nell’Adone (IX, 184 s.) e prima con lui additata a ludibrio nella Sampogna (pp. 27 s.), non si sa per quali «acute punture» avute dalla penna di lei.
Morto il 3 marzo 1605 Clemente VIII, per il successore Alessandro de’ Medici, papa Leone XI, eletto il 1° aprile, il M. compose tempestivamente, anche in nome di Aldobrandini, pure lui fiorentino, il suo primo panegirico, Il Tebro festante, che rammenta le glorie dei tre papi Medici (28 ottave pubblicate per la prima volta nel Concerto delle muse, Venezia 1608). Fu papato di brevissima durata: il 16 maggio fu eletto papa Paolo V, Camillo Borghese, e Aldobrandini fu invitato a raggiungere la sua diocesi di Ravenna. Il M., privato della vita romana, vi menò «vita afflitta ed egra» (Della lira, Venezia 1614, p. 261), ma lavorò intensamente. Lì rimise mano all’Adone (Lettere, p. 49), allargandone l’impianto grazie alla scoperta delle Dionisiache di Nonno di Panopoli (Pozzi, 1976, pp. 91-93). Il nuovo, prioritario impegno ecclesiastico di Aldobrandini influì probabilmente anche sugli studi e la produzione del M., che nelle Divozioni della Lira accrescerà grandemente il numero delle poesie sacre e nelle coeve Dicerie sacre stupirà il mondo letterario con un’erudizione biblica e patristica non tutta di seconda mano, se lo «studio particolare, che infin da’ primi anni io ho fatto sopra le cose scritturali», rivendicato nella lettera a Ridolfo Campeggi del 15 giugno 1614 (Fulco, 2001, p. 183), fu indubbiamente rinvigorito dall’incontro con l’oratoria sacra romana e, all’occasione, facilitato dallo spoglio dei repertori specialistici (cfr. Dicerie sacre, 1960).
Nel 1607 andò a stampa a Lucca un suo primo idillio, L’Europa, che gli garantì la priorità del rinnovato genere sul successo toccato l’anno dopo a Girolamo Preti e sul proliferare di composizioni affini da parte di diversi «idillianti» lombardi negli anni successivi. Gli sarà difficile confermare in seguito tale primato con un solo nuovo idillio (Il rapimento d’Europa ed il Testamento amoroso, Venezia 1612; ma la prima parte del Testamento fu rivendicata da Claudio Achillini, cfr. Colombo, 1988, pp. 126-131, 143-150) e la grande ma tarda Sampogna (Parigi 1620). A Ravenna nacque anche la prima idea della Galeria, maturata a Torino, e a stampa anch’essa solo nel 1620. In questo periodo cadono inoltre diversi soggiorni a Bologna, come attestano le lettere dirette a Campeggi (Fulco, 2001, pp. 179-184). «Vera, antica e ben fondata amicizia» (Lettere, p. 268) lo legò a partire da questi anni al bolognese Andrea Barbazza, ma anche ad Achillini, a Raffaello Rabbia, a Cesare Rinaldi e in genere alla schiera degli Accademici Gelati.
Un secondo polo che attrasse il M. durante il periodo ravennate fu Parma, dove operava Stigliani, al servizio del duca Ranuccio I Farnese dal 1603. Tenacissima fu l’inimicizia insorta tra i due letterati in questi anni, protrattasi ancora per vent’anni dopo la morte del M. da parte del contendente superstite e comunque foriera di polemiche letterarie durate quasi un secolo.
Il M. doveva avere conosciuto Stigliani durante il periodo napoletano, quando si contesero il tema di Polifemo (Sampogna, p. 37). Fu il M., per quanto più vecchio di quattro anni, a rivolgersi all’altro con un sonetto pubblicato in Rime. Parte prima (p. 227), che ricevette una risposta già piena di sospetto. Si ritrovarono a Roma, dove anche Stigliani gravitava attorno alla corte di P. Aldobrandini, cui dedicò le sue prime Rime (Venezia 1601) e gli Amori civili delle Rime distinte in otto libri (ibid. 1605). Da Venezia, nel 1602, il M. inviò a Stigliani un non meglio precisato «originale, non ostante che vi siano alcuni scherzi, i quali non vorrei che fussero veduti da altri» (Lettere, p. 31): lo trattava dunque come amico, ma con una circospezione che testimonia più che altro un tentativo. Da Ravenna poi gli manifestò apertamente il sospetto che fosse stato «in parte consapevole della congiura orditami contra, costì in Parma, presso al tribunal sacro»: negò di essere autore di «poesie oscene e sporche» e prova della reciproca affezione avrebbe dovuto essere la richiesta di inviargli il suo ritratto, con cui arricchire il proprio personale museo (ibid., pp. 102 s.). L’ultima lettera del M. a Stigliani è da Parigi, del luglio 1619: «non già per risponderle, ma per farle sapere che non le vo’ rispondere se non in istampa» (ibid., p. 216). Vi respinge la «finta discolpa» di Stigliani in merito alle tre ottave del Mondo nuovo (Piacenza 1617), sul «pesciuom», «detto altramente il cavalier marino» e peggio ancora la «scimmia del mar», in quanto animale che «è ciò che far vede a rifar presto». Non è noto se la lunghissima «discolpa» di Stigliani in data 2 giugno (G.B. Marino, Epistolario, II, Bari 1912, pp. 288-303) abbia la forma di quella che il M. ricevette, ma certo il M. tenne conto anche di questa nel preambolo della Sampogna (pp. 38 s.). La promessa risposta mariniana per le stampe ebbe ben presto la massima evidenza ne La galeria, La sampogna e l’Adone.
Chiara è la lotta per la preminenza fra «i duo luminari», come il M. ancora si esprimeva, insinuante verso il rivale, nel 1609 (Lettere, p. 102). Fu vinta certo dal M., che però ebbe motivo di temere dell’altro sino alla fine dei suoi giorni. Meno chiara è la materia poetica del contendere: interessante a questo riguardo una lettera mariniana fabbricata da Stigliani con notevole estro (ibid., pp. 618 s., individuata come falsa da Croce), ma anche con gravi conseguenze per la fortuna del M., a volte condannato proprio in base a questa deformazione parodica. Qui la differenza fra i due sembra consistere nella difesa mariniana dell’arditezza dei traslati e della novità antitradizionale. Tuttavia, sia il diverso metaforeggiare sia il diverso rapporto con la tradizione sembrano adombrare soprattutto un mutato rapporto con la modernità, più immediato e superficiale nello Stigliani del Mondo nuovo, più mediato e profondo nel Marino. In questo forse sta il nocciolo di una disputa protrattasi per lunghi decenni. Chiari sono anche l’avvio e il mantenersi della polemica nei termini delle sempre rinnovate accuse di furto avanzate da Stigliani all’indirizzo del rivale: furti da intendersi anzitutto a proprio danno, nonché della costellazione degli autori elencati nell’Occhiale (Venezia 1627). Queste accuse si possono invece ricondurre in gran parte alla classica dinamica dell’imitazione e dunque sono da tradurre sovente in valide indicazioni di fonti. Stigliani rappresenta comunque un nuovo tipo di sensibilità nei riguardi della tradizione: tra i primi a vantare l’originalità di invenzione e dunque a degradare il principio stesso di imitazione, egli ebbe per lo meno il merito di stimolare la riflessione mariniana al riguardo. Fu forse il primo a parlare di «marinisti», ossia di una setta seguace del M. in vita e soprattutto in morte, e perciò può essere considerato il responsabile di una discussa categoria storiografica, da lui detta dello «stile metaforuto», secondo un aggettivo che pretese inventato dal M. e che invece fu probabilmente lui a coniare (Epistolario, cit., pp. 271, 345). In ogni modo, i due poeti furono circondati da una folta schiera di amici e nemici, di cui si valsero per meglio tenersi d’occhio. Primi fra gli amici di entrambi furono Fortuniano Sanvitale e Guidubaldo Benamati, ai quali il M. ricorse per sondare le mosse del rivale e minacciarlo di ritorsioni; per contro, «Non esce sillaba della sua penna – dichiara Stigliani nella «discolpa» (ibid., p. 301) – che non pervenga in poco tempo alle mie mani, purché si confidi da lei ad uno o a due amici».
Il 24 genn. 1608 il M. arrivò alla corte di Torino con il cardinale Aldobrandini, protettore del Piemonte, che, in vista delle doppie nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia e di Alfonso d’Este con Isabella di Savoia, accorreva anche per sventare le minacce di guerra tra Carlo Emanuele I ed Enrico IV di Borbone a causa del Marchesato di Saluzzo. Immediato nacque il conflitto tra il M. e uno dei poeti di corte, il genovese Murtola, segretario del duca, che già gli aveva rivolto un sonetto a Roma (Rime. Parte prima, p. 240).
Una prima occasione di scontro fu l’andata a Mantova per le nozze di Margherita con il principe Gonzaga, durante la quale (secondo la versione offerta dallo stesso M. in Lettere, p. 79) i due si affrontarono nella barca del conte Alessandro d’Arò. Durante il soggiorno mantovano il M. poté tra l’altro assistere alla rappresentazione dell’Arianna di C. Monteverdi, su libretto di O. Rinuccini, protagonista principale Virginia Andreini, come ricorderà nell’Adone (VII, 88). Per quelle nozze scrisse l’epitalamio Il letto (per le altre, di Isabella di Savoia con Alfonso d’Este, offrì Il balletto delle muse). Da parte sua Murtola dedicò agli sposi la favola pescatoria La creazione della perla, appena dopo aver approntato per la stampa il poema sulla Creazione del mondo, a rinnovare tempestivamente l’interesse per la tematica che il Tasso postumo del Mondo creato aveva suscitato. Il M. ammise di averne sconsigliato a Ciotti la pubblicazione (Lettere, p. 79). Murtola, lasciata Mantova, andò appunto a stamparlo a Venezia. Al ritorno a Torino stese, sempre secondo il M. (ibid., p. 83), un Epilogo della vita del M., che lo accusava di oscenità ed empietà. Di qui i sonetti satirici mariniani in risposta: trentacinque Fischiate iniziali, confessate dal M. nella lettera al duca (Lettere, p. 89), poi aumentate sino all’ottantina e diffuse per le stampe postume con il titolo di Murtoleide (Norimberga 1642; falsa è la data del 1619 sull’edizione descritta in Giambonini, 2000, n. 81). Le migliori Fischiate sono di travolgente gusto parodico nei riguardi del poema esameronico di Murtola e della sua poetica (nella chiusa di XI: «fior, fronde, herb’ombre, e cavoli fronzuti»). Murtola non poteva competere in estro comico e iniziativa linguistica, per cui rispose con impaccio, ma avanzando accuse sostanziali, in parte precise (i furti poetici da Casoni e da Rinaldi, nella Risata I), in parte vaghe ma pesanti: di oscenità in parole e opere, di sodomia, di empietà, di maldicenza su tutto il Parnaso contemporaneo, da L. Ariosto in giù.
Intanto il M. aveva steso il Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, un panegirico più esteso dei precedenti e in nuovo metro (la sesta rima), pubblicato a Torino alla fine del 1608 con dedica al principe Vittorio Amedeo, firmata dal «conte di Revigliasco», ma stesa palesemente dal Marino.
La mossa di cedere la propria parola ad altri, che avrà una seconda grande occasione in apertura della terza parte delle Rime, serve a parlare di sé senza le formule di modestia d’obbligo, e sarà, insieme con quella della lettera diretta ad Achillini davanti alla Sampogna, la forma al M. più consentanea della polemica e della programmazione poetica. Nella dedica del Ritratto si tratta appunto di rivendicare la novità del componimento e di inserirsi nel dibattito sul poema epico. Se quello è caratterizzato dal verosimile, qui si tratta di proporre un poema che resta nei termini del semplice vero: le imprese «di quell’unico sole» cui non conviene «altra penna che di questa unica fenice». Il Ritratto è poi eseguito rivolgendosi al maggior pittore di quella corte, G.A. Figino, a suggerirgli quanto l’artista deve dipingere e mettere in mostra nella galleria ducale (strofe 56-65). Ma quando si tratta di rappresentare «l’interna virtù» del duca, «qui convien, che ’l pennel ceda a la penna» (strofa 89): la penna è quella di Chiabrera, a suo tempo intento a cantare dell’eroico avo Amedeo, ed ora quella dello stesso M. (strofe 90 s.).
In premio del panegirico il M. ottenne l’abito dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, conferito con solenne cerimonia l’11 genn. 1609: titolo di cavaliere che d’allora in poi lo distinse anche nella storia letteraria e croce che campeggia nei suoi ritratti. Murtola fu licenziato dal servizio ducale e non sapendo «più contenersi», credendo il licenziamento opera del M., «vinto dalla rabbia e portato dalla disperazione», il 1° febbraio «su la strada maestra, presso la piazza pubblica, poco innanzi le ventiquattro ore […] con una pistolotta carica di cinque palle ben grosse» sparò al M., appena colto di striscio, ma ferendo il compagno di passeggio, Ettore Braida. L’arresto fu immediato, il reo subito confesso. Il M. diede all’episodio il massimo di pubblicità, chiedendo ai suoi amici di essere spalleggiato, ai tiepidi di schierarsi e costringendo i falsi amici come Stigliani a scoprirsi. Del 15 febbraio è il lungo «manifesto» al duca, contenente la richiesta di grazia per l’attentatore, ma anche una scrupolosa difesa contro le accuse di turpitudini a stampa e a penna, rifiutate, specie in quanto empie, come non scritte da lui (Lettere, pp. 77-95). Sono preoccupazioni del tutto coeve ai pericoli di nuove inquisizioni, sullo stesso Ritratto già stampato, di cui lo avvertì nel frattempo da Parma A. Tassoni (ibid., p. 110).
Murtola, condannato a morte, non fu giustiziato e venne liberato in settembre; riparò presso Paolo V. Il numero complessivo delle Fischiate mariniane, nonché delle Risate con annesse Bastonate murtolesche (queste ultime pubblicate in Borzelli, pp. 236-250) fa comunque pensare che la contesa continuasse anche dopo l’attentato, non senza conseguenze sulla posteriore carcerazione del Marino. Lo suggerisce lo stesso M. in Adone (IX, 78-85), dove inverte i due eventi, quasi facendo dipendere l’episodio dell’agguato di Murtola dalle accuse dei «disleali amici» che lo condussero in prigione.
All’inizio del 1610 il M. fu nominato segretario del duca. Senonché un giorno lesse a creduti amici la burlesca Cuccagna scritta a Napoli e questi la spacciarono come diretta contro il duca (così già Ferrari, p. 79, mentre Stigliani suggerì che il M. avesse riesumato il poemetto in funzione antiducale, cfr. Russo, Studi, p. 177 n. 191). L’accusa provocò la carcerazione, dall’aprile 1611 al giugno 1612. Ma il sequestro degli scritti si prolungò oltre, intralciando enormemente il lavoro del Marino. Il 27 apr. 1611 scrisse al principe di Mantova Francesco Gonzaga, affinché con la moglie Margherita di Savoia intercedesse presso Carlo Emanuele. In tutte le richieste di aiuto l’atteggiamento verso il duca rimase comunque molto cauto: il duca – scrive all’inizio del 1612 – «mi farebbe non solo liberare, ma mi confonderebbe di grazie, quando fosse sicuro che io non facessi poi quel che sogliono talora i poeti irritati, cioè convertire i panegirici in satire» (Lettere, p. 118).
Intanto produsse una serie di sonetti per riavere gli scritti, poi confluiti nei Capricci della Lira. Rinnovò, ma in prosa, l’antica vena burlesca suscitata dalla prigionia, con la lettera «Dal Senato, li X febraro 1612» (o più probabilmente «Dal Serrato», ossia dal carcere di Torino) diretta a Ludovico San Martino di Agliè, tenuta sul filo di svariate e ardite citazioni bibliche; non vi può mancare il parallelo con Tasso recluso nell’ospedale di S. Anna, al quale tuttavia, precisa, non furono sottratti gli scritti (ibid., pp. 526-537).
La consapevolezza di un passaggio delicato della propria esistenza si avverte nella lettera al cardinale Ferdinando Gonzaga del 14 apr. 1612: «non posso, se ben volessi, partir più di questa corte per diversi rispetti, ma specialmente per essermi licenziato dai servigi del signor cardinale Aldobrandino per alcune occasioni di disgusto» (ibid., p. 129). Il 15 luglio annunciò al cardinale Gonzaga la liberazione a istanza dell’ambasciatore inglese presso la Serenissima sir Henry Wotton (ibid., p. 130). L’intenzione era di seguire l’ambasciatore a Parigi e di lì a Londra, come confidò a Manso, ringraziandolo della lettera con cui aveva attestato che la Cuccagna era opera napoletana, estranea a intenti satirici antisabaudi (ibid., p. 131). Dopo la liberazione sua, ma non delle scritture, e prima del 7 ott. 1612 (data della morte di Guarini), espresse a Salviani il desiderio di tornare a Roma, premendogli di partecipare alla raccolta poetica che gli Umoristi preparavano in onore di Guarini («egli solo […] pare a me che in questo secolo meriti titolo di vero poeta», p. 123). A Barbazza invece, dopo la morte (22 dic. 1612) del duca di Mantova Francesco IV, confidò l’intenzione di raggiungerlo a Mantova presso il cardinale Gonzaga, successore di Francesco, anche a costo di lasciare a Torino le famose scritture (ibid., pp. 137, 139).
La morte di Francesco IV motivò le pretese di successione da parte del duca di Savoia e quindi, nell’aprile successivo, l’occupazione del Monferrato; di qui la reazione antisabauda della Spagna, sino alla pace di Asti del 21 giugno 1615. La posizione del M. in questa contingenza è in parte chiarita dalla prima lettera dalla Francia, diretta al nuovo duca di Mantova Ferdinando, dove afferma di non aver voluto sottoscrivere «alcune scritture publiche pregiudiciali alle sue [del Gonzaga] ragioni» (ibid., n. 195).
In questi tempi cade anche il soggiorno di «forse tre mesi per alcuni negozi importanti» a Genova, attestato in una lettera inedita del 2 marzo 1613 (Giambonini, 1988, pp. 314 s.), che contribuisce a spiegare i suoi rapporti con i Castello, gli Spinola, i Doria, ben presenti nella Lira, negli Epitalami e nella Galeria. A Benamati il M. annunciò di avere recuperato le sue scritture (Lettere, p. 156) in una lettera di data incerta, ma collocabile tra il 1613 e il 1614. Il rilancio delle stampe fu immediato e affidato, nell’aprile del 1614, alla terza parte delle Rime (con dedica in data 1° aprile), e alle Dicerie sacre (con dedica in data 15 aprile).
La terza parte delle Rime – Della lira. Parte terza. Divisa in Amori, Lodi, Lagrime, Divotioni, e Capricci – è dedicata al cardinale Giovanni Doria. Il volume venne dunque a rispondere al successo del 1602 e a coronarlo, ribattezzando l’intera opera lirica con il titolo complessivo di Lira, non senza qualche adattamento delle prime due parti, cui sono sottratti i componimenti ecfrastici, destinati ormai alla Galeria. L’apparizione di questa terza parte fu seguita dalle proteste contro il suo «assassinamento» tipografico da parte di Ciotti (ibid., pp. 171, 179 s.), che determinarono, almeno a partire dal 1615, ristampe a volte più corrette. Più importa che la prima stampa risulta in parte diversa dalle successive, in quanto comprende un osceno Duello amoroso, reca in limine una versione più ampia della «lettera Claretti» (edita in Russo, Studi, pp. 138-184) e allega in conclusione le Ragioni del conte Lodovico Tesauro in difesa di un sonetto mariniano attaccato per una svista mitologica da Ferrante Carli. Per quanto sia ricca di nuove occasioni e dia atto di più di un decennio di vita poetica, la Lira conferma sin dalla sua strutturazione una linea già esperita, non rispondente dunque alle vaste e nuove attese che il M. aveva suscitato. Per questo è preceduta dall’ampio programma illustrato nella lettera, a firma del segretario ducale della corte sabauda Onorato Claretti, certamente nella persuasione di poter rispondere in tempi brevi a tante promesse.
La lettera Claretti ha un’importanza particolare nel percorso poetico del M., come primo bilancio di quanto egli ha composto, ma che è stato impedito a pubblicare dalle circostanze sopra descritte: l’obiettivo è quello di cautelarsi contro «coloro, i quali si dilettano di farsi belli dell’altrui spoglie, a usurparsi parte delle invenzioni da lui occupate» (Russo, Studi, pp. 139 s.). Al contrario, il M. si presenta per la prima volta come ultimo anello di una catena di elettissimi classici, eppure rivendicando una sua originalità: «il Cavalier Marino, a cui non piacque mai murare (come si dice) sopra il vecchio, ma formare modelli nuovi a suo capriccio», in modo simile a Raffaello, Correggio e Tiziano, «dipintori che si fanno capi d’una maniera propria loro» (pp. 142 s.). Passando sopra furti particolari, più gli dispiace «l’essere prevenuto in certe invenzioni universali propriamente sue, e da niuno altro prima di lui tirate in questo nostro idioma dagli antichi d’altra lingua» (pp. 144 s.). Di qui l’esigenza di cogliere questa occasione per stendere un catalogo di tutte le opere pronte da pubblicare. A dimostrare l’importanza della sua particolare idea di imitazione, pressoché ogni opera è accompagnata dal suo modello. Della Galeria si dà la fonte classica (Filostrato) e le fonti particolari neolatine e volgari (pp. 150-153). I cinque panegirici sono accompagnati dalla rivendicazione di essere egli il «primo ritrovatore» della loro forma (pp. 153-155, fra di essi sta Il tempio, che sarà pubblicato di lì a un anno a Lione). Dei dodici Epitalami, otto degli undici titoli elencati corrispondono a composizioni della princeps parigina del 1616. Le Fantasie restano per noi l’opera meno definita (p. 155). Ci sono poi sei poemetti in ottave: tra di essi La strage degl’innocenti in quattro libri, ossia già molto simile a quella che sarà la forma ultima dell’opera; l’Adone, «il quale è poco meno di mille stanze, ossia in quattro libri, cioè Amori, Trastulli, Dipartita e Morte»; il Pescatore, emulo del Vendemmiatore di L. Tansillo (pp. 155-158). La Sampogna comprende forse cinquanta o sessanta idilli (p. 158), cifra iperbolica rispetto ai dodici della stampa, ma la prevista ristampa ne contemplava ancora dodici profani e tre sacri (cfr. Lettere, p. 258), senza dimenticare la produzione boschereccia giovanile riproponibile, e in effetti riproposta postuma come seconda parte dell’opera da Scaglia a Venezia nel 1626 (Fulco, 2001, pp. 69-72).
La Polinnia, opera destinata a non vedere la luce in forma autonoma, è presentata come opera «bella, piena di buona dottrina e varia, come accenna il titolo istesso, ch’altro non importa se non canto di molte cose, a concorrenza quasi del Pontano» dell’Urania, «discorre tutta la scala della Natura […] et arriva allo stesso Iddio» ed è composta di inni «alla foggia tenuta da’ cori degli antichi tragici» (Russo, Studi, pp. 159 s.). Una simile ascesa lungo il creato ha sicuri agganci ai poemi esameronici di Tasso, di G. de Salluste du Bartas e di Murtola, ma mutandone la natura epica e narrativa in lirica, se costituita appunto da inni, o, sin dalla sua prima enunciazione nel 1604, da «canzonette di versi spezzati» (De Miranda, 1993, p. 23), e semmai mantenendo viva quella minuziosa curiosità per le «materie tutte subalternate alla creazione del mondo» quali le cacce, i pesci, gli uccelli, «poemi narrativi de’ quali la lingua nostra è povera», come sottolinea Murtola nella premessa alla sua Creazione del mondo (Russo, Studi, p. 158 n.). La Polinnia poteva comunque anche essere un capiente e facile raccoglitore predisposto per liriche disperse o altrimenti collocate. Regge dunque tuttora l’ipotesi di Pozzi (1976, pp. 112 s.), che, al di là dell’ultimo ricordo dell’opera come pronta per la stampa (Sampogna, p. 63), parte del materiale, data la facilità di trascrizione mariniana, confluisse nei canti dell’iniziazione sensitiva e intellettiva dell’Adone, come una trentina di rinvii del commento di Russo (Studi, pp. 161-168) ha mostrato.
Il successivo progetto di «Epistole eroiche» (pp. 168-171) ossequia anche nel metro (la terza rima) il volgarizzamento delle Eroidi ovidiane condotto da C. Camilli nel 1584, almeno nell’unico esempio (dei quindici elencati) venuto alla luce: Lettera di Rodomonte a Doralice (Venezia 1619). Per le prose la lettera Claretti formula una sorprendente premessa: «quanto egli ne’ versi si diletta d’esser licenzioso et ardito, tanto nel parlare sciolto suol essere rigido e ritenuto, sforzandosi […] d’avere stile culto, polito e candido» (p. 171). Dichiarazione da porre in rapporto soprattutto alle imminenti Dicerie sacre, qui presentate come «dettate in istile alquanto poetico, e quasi in quello che Marco Tullio chiama sofistico benché delizioso» (pp. 174 s.; cfr. ed. 1960, pp. 62 s.). Passando alle «cose burlesche», il M. comincia dalla vecchia Cuccagna, data per persa, proseguendo con le recenti Fischiate, e si premura di dichiarare non sue certe fatiche «satiriche, oscene et empie» che vanno sotto il suo nome (pp. 176-180). Non mancano, allo stadio di pura ideazione, drammi di ogni genere: due tragedie, due commedie, sei rappresentazioni sceniche per musica (pp. 180-182). In chiusura il M. torna all’impegno eroico che, pubblicato quanto era già pronto, lo avrebbe completamente assorbito. In un non specificato «poema grande, […] nuovo genere non più tentato da’ volgari, dove impiega tutto il suo studio, e da cui sperar tutto la gloria sua» (pp. 182 s.), dato che l’Adone è già presente nell’elenco, è giusto ravvisare (Fulco, 2001, pp. 63 s.) le Trasformazioni, per noi affidate alla descrizione di Baiacca (pp. 60 s.), destinate a essere assorbite, non meno della Polinnia, nell’Adone, come asserito da Lorenzo Crasso e argomentato da Pozzi (1976, pp. 114-119). Se il catalogo indica dunque varie opere rimaste inedite o nella penna del poeta, d’altra parte elenca tutte le maggiori opere effettivamente pubblicate: a questa altezza cronologica il M. ha programmato l’intera opera sua e in gran parte l’ha pure eseguita.
Largamente annunciate e vantate per quel che sono, ossia come sorprendente irruzione in un genere di lunga tradizione e assai specializzato come l’oratoria sacra, sulle Dicerie sacre il M. si diffuse, oltre che pubblicamente nella lettera Claretti, privatamente in quella a Benamati: «questo libro ha da far disperare tutti i predicatori, i quali so che si sforzeranno d’imitar questo modo» (Lettere, p. 168). La dedica andò a Paolo V, il papa che non lo amava, tramite un’epigrafe encomiata per la sua magnificenza da Emanuele Tesauro nel Cannocchiale aristotelico. Ciascuna diceria ribadisce la fedeltà alla casa Savoia: La pittura al duca Carlo Emanuele, La musica al cardinale Maurizio, Il cielo al principe Vittorio Amedeo. Già i titoli implicano forti commistioni con la trattatistica artistica, musicale e astronomica e in questo manifestano una profonda coerenza con la produzione poetica maggiore del Marino. Le tre dediche ribadiscono l’ardire di mettersi a gara con i «sacri arcieri» e si aprono con tanto classici quanto pagani esempi agonistici. Come precedente possono essere evocate le Prediche quadragesimali di Giulio Cesare Capaccio, laico organizzatore di concetti predicabili sotto forma di metafore continuate (Pozzi, 1960, p. 33), ma del tutto inaudita è nelle Dicerie la commistione tra favole pagane e sacramenti cristiani, che l’avvio della Musica giustifica con l’autorità di Fulgenzio (Dicerie, p. 212).
L’andata a Parigi, preparata da molti segni di predisposizione filofrancese, particolarmente diffusi nella Lira, ebbe luogo al principio del 1615. Incamminatosi con l’ambasciatore inglese, a Lione il M., in data 15 maggio, dedicò Il tempio, panegirico alla maestà christianissima di Maria de’ Medici, reina di Francia, et di Navarra, a «Madama la Maresciala d’Ancra», la fiorentina Leonora Dori Galigai, moglie di Concino Concini, andato poco dopo a stampa nella stessa città.
Il panegirico consta di 297 sestine: dopo quello pittorico al duca di Savoia, questa volta il contenuto è architettonico. Il titolo richiama le omonime raccolte collettive encomiastiche fiorite nel Cinquecento, ma ora il tempio è eretto da un solo poeta e con intenti altissimi. È una successione di tre ecfrasi attorniate da due descrizioni: dapprima è descritto l’edificio, poi sulle porte d’oro si legge incisa la storia di Enrico IV, compresi i suoi contrasti con «di Savoia il fiero sire», sul fregio quella della dinastia medicea, sui mosaici dei muri interni la storia di Maria, con spazio riservato al futuro del figlio Luigi; al centro del tempio, corrispondente alla chiusa del panegirico, sta l’altare con il ritratto della regina.
A giugno l’ambasciatore fiorentino Luca degli Asini testimoniava l’accoglienza lusinghiera del M. presso Maria de’ Medici, ma anche l’intenzione di proseguire per l’Inghilterra e di lì nelle Fiandre (Russo, Studi, p. 191). L’Inghilterra è termine effettivamente vagheggiato nella lettera a Giacomo Castelvetro del 2 marzo 1616 (Fulco, 2001, pp. 198 s.); le Fiandre si possono spiegare con la presenza a Bruxelles sino all’ottobre 1615 del nunzio pontificio Guido Bentivoglio, suo estimatore e protettore. Il 31 luglio Asini dichiarava però che il M. aveva pensione e donativo per «impegnare la penna in esaltare le lodi della regina» e che si tratteneva (Russo, Studi, p. 192; cfr. Lettere, pp. 199-201). Tra il marzo e il novembre 1616 lavorò all’Adone e approntò la dedica a Concini, secondo la testimonianza del nunzio apostolico Roberto Ubaldini, che, su sollecitazione dello stesso Concini, il 17 novembre chiese al cardinale S. Borghese il privilegio di stampa nello Stato della Chiesa, richiesta non negata per il rango del dedicatario e per il «merito del Cavaliere che ogni giorno più avanza se stesso» (Fulco, 2001, p. 12). Il manoscritto Ital., 1516 della Bibliothèque nationale di Parigi risponde a questo stadio del poema (Pozzi, 1976, Appendice I). Intanto, il 1° apr. 1616 il M. dedicò a Concini gli Epithalami, pubblicati a Parigi, con privilegio del 15 giugno.
La dedica è una forte rivendicazione dell’educazione classica, solo baluardo contro la barbarie guerresca. Il primo epitalamio è, in presa quasi diretta degli eventi, La Francia consolata, per le doppie nozze del re Luigi XIII con Anna d’Austria, primogenita di Filippo III di Spagna, e del futuro Filippo IV con Elisabetta di Borbone (in Spagna Isabella), sorella di Luigi. Fra la data di dedica e quella del privilegio si verificò l’entrata del re con la sposa a Parigi, di cui sono descritti i preparativi, ricorrendo in particolare a Claudiano. Gli epitalami sono dieci, seguiti da alcuni sonetti epitalamici. Venere pronuba per Giovan Carlo Doria tocca, contaminando Claudiano con Giovanni Secondo, vette di erotismo rare, legittimate peraltro dal tema nuziale.
Nel frattempo, già dal 1° sett. 1616, le sorti del maresciallo d’Ancre Concini vacillavano e il 24 apr. 1617 Luigi XIII lo fece assassinare nel Louvre; in seguito la moglie fu imprigionata nella Bastiglia e, giudicata colpevole di lesa maestà, decapitata l’8 luglio. Era la fine della reggenza di Maria de’ Medici, che partì in esilio a Blois con A.-J. de Richelieu, capo del suo Consiglio. Il M. si volse prontamente al re con La Sferza, invettiva ai quattro ministri della iniquità (cioè i quattro ministri del culto ugonotti che avevano indirizzato una lettera a Luigi XIII), con dedica del 15 luglio, a ridosso della lettera inviata dai ministri, che il M. accusa di ignoranza, malizia e insolenza. Già il giorno dopo la dedica scrisse a Crescenzio Crescenzi che, dopo la «perdita de’ miei partialissimi protettori», il re gli aveva accresciuta la pensione e la regina intendeva garantire la stampa promessa da Concini (Fulco, 2001, pp. 201 s.). Ispiratore dell’operazione antiugonotta pare fosse il nunzio Bentivoglio, come risulta dalle lettere che scrisse al cardinale S. Borghese (Carminati, 2006). Quella del 17 agosto (Bentivoglio, p. 331) parla della Sferza come invettiva di particolare zelo verso il papa: l’opera guardava dunque non meno all’Italia che alla Francia. Peraltro il re e il suo nuovo ministro Charles duca de Luynes non ritennero di pubblicarla, per non esporre il M. a ritorsioni, sempre stando alla lettera del nunzio. La stampa a Parigi ebbe luogo solo nel 1625.
Le ostilità tra re e regina madre erano sempre vive all’inizio del 1619 e l’Adone dovette attenderne la conclusione per proseguire nella registrazione degli eventi e per venire alla luce. In questa attesa, con la stampa veneziana del 1619-20, il M. chiuse la lunga partita della Galeria, libro accuratamente descritto nella lettera Claretti, salvo che per le due serie di Capricci, dove stanno i manufatti artistici più curiosi e da Wunderkammer.
Il 16 nov. 1619 firmò le dediche delle due parti: Le pitture, il cui frontespizio porta la data 1620, a G.C. Doria, e Le sculture, con la data del 1619, a Luigi Centurioni. Dei due personaggi, entrambi genovesi, è più noto Doria, al quale il M. aveva già indirizzato il sonetto epitalamico Venere pronuba e ben presente nella terza parte della Lira e soprattutto nella stessa Galeria con dieci dipinti di sua proprietà. Seguirono proteste contro la stampa di nuovo «assassinata» da Ciotti, in privato (Lettere, pp. 225-232, 257-261) e in pubblico, premettendo all’edizione parigina della Sampogna del 1620 (pp. 61-65) una lettera in cui il M. dichiara di sottrargli la princeps dell’opera. La ristampa ciottina della Galeria nel 1620 (cfr. Giambonini, 2000, n. 56) portò così una lettera di scuse de «Lo stampatore a chi legge»; ma in quello stesso 1620 uscirono in Italia ben quattro edizioni pirata (cfr. ibid., nn. 51-54).
La Galeria è costituita da ben 624 componimenti (542 per le pitture, 82 per le sculture): «la più vasta e ambiziosa celebrazione poetica delle arti figurative mai apparsa nella letteratura europea» (Caruso, p. 71). Il primo dipinto, che apre la serie più preziosa delle Favole, è indicativamente una Venere in atto di disvelarsi a Marte di Giacomo Palma, ceduta dallo stesso M. al dedicatario (Lettere, pp. 230 s.). L’ultimo componimento (Uno scultore in morte della figliuola) allude all’opera finita, figlia e sepolcro al tempo stesso del suo creatore, adattando al caso il tema di Artemisia e Mausolo, caro agli epigrammisti antichi e recenti, nei quali l’opera trova le sue prime fonti. Nella Galeria gli scherzi poetici vengono solo in parte a sovrapporsi a opere davvero attestate degli artisti evocati nei titoli; più spesso dicono quello che da quegli stessi artisti il M. avrebbe voluto avere per la sua galleria e il suo museo, in cambio della fama che i versi avrebbero loro conferito a latitudine europea.
Subito successiva alla Galeria è la stampa della Sampogna. Divisa in idillii favolosi et pastorali, pubblicata a Parigi da A. Paccard all’inizio del 1620, con dedica al principe di Carignano Tommaso di Savoia.
Nel 1614, nella lettera Claretti il M. aveva promesso cinquanta o sessanta idilli di quelli favolosi «che tirano al boschereccio». Ne uscivano ora dodici: otto favolosi, ossia mitologico-boscherecci, e quattro pastorali, secondo una congiunzione tra mito e idillio costante in tutta l’opera mariniana; l’interesse per la tradizionale egloga in versi sciolti, ma già declinata in senso favoloso, risaliva infatti al 1594 (Lettere, p. 18). Il primo idillio polimetro è l’Europa, stampata a Lucca nel 1607 già come Della sampogna idillio XXXV (numero iperbolico, ma che rinvia a Teocrito). Il prodotto finale non punta più sulla quantità, ma su una qualità che lo sottrae alla mediocrità degli «idillianti» proliferati nella dozzina d’anni intercorsi tra la prima prova e questa. Il M. punta ora, grazie all’impareggiabile maestria madrigalesca, su una sontuosa esecuzione dei più svariati affetti. Sono gli argomenti, gli accenti patetici e la versificazione del coevo teatro per musica, dal M. peraltro mai effettivamente coltivato: qui tuttavia acquistano un nitore descrittivo e un brio rappresentativo che il libretto raramente consente e che non è inadeguato definire classici. Onnipresenti sono Teocrito e Virgilio, pure declinati in senso decisamente amoroso, ma emergono anche Nonno per Europa, Claudiano per Proserpina, I. Sannazzaro, Bernardo e Torquato Tasso, Guarini; altri autori moderni offrono spunti precisi: Erasmo da Rotterdam per la Disputa, Jorge de Montemayor per Piramo e Tisbe.
Alla materia solo in parte nuova il M. premise ben cinque lettere nuovissime, tre sue e due a lui dirette, tutte sulla posizione da lui raggiunta in poesia. Tra queste la famosa lettera ad Achillini: un secondo grande manifesto della sua poetica, dopo la lettera Claretti. Contiene un ben selezionato elenco di «molti poeti moderni» che hanno offerto «qualche publico testimonio al mondo con le stampe in lode sua» (Lettere, p. 235) e dopo il copioso ma ben calibrato elenco sferra un attacco contro i suoi rivali, in particolare Stigliani. Torna poi a pronunciarsi sul principio di imitazione, con distinzioni tra l’imitare, il tradurre e il rubare, fattesi sottili e problematiche almeno da quando, proprio attraverso il suo esempio, alla reverenza verso la tradizione era subentrato un senso più inquieto di emulazione. La lettera a Ciotti, di protesta per lo sconcio della Galeria, diventa un nuovo catalogo di opere che il tipografo potrà stampare: nuovi idilli sacri e profani, le Fantasie, le Epistole eroiche, la Polinnia, le Dicerie sacre riformate e aumentate, un libro di lettere e ancora due poemi, la Gerusalemme distrutta e le Trasformazioni, alla realizzazione dei quali il M. non aveva dunque rinunciato.
Rispetto alla Sampogna parigina, le Rime boscarecce del Marino: Sospiri d’Ergasto, Tirsi, Aminta, Dafne, Siringa, Pan, Elcippo (Napoli 1620) sono certamente estranee alla volontà del M. (essendo in parte versioni prime degli omonimi idilli parigini) e con qualche adattamento sostituiranno la promessa seconda parte della Sampogna, non compiuta dal M., ma disinvoltamente pubblicata postuma da Scaglia a Venezia a partire dal 1626, e con qualche maggior scrupolo a Milano nel 1627 come Egloghe boscarecce (De Maldé, 1993, p. LXXIX).
Stampata la Sampogna, la ripresa dell’Adone continuò a essere difficile: «tutta la Francia è in guerra. […] Se le cose andassero contrarie per alcuni personaggi, che al presente sono in favore ed in grandezza, sarei costretto a mutar nel libro molte circostanze particolari» (Lettere, p. 283). A fine marzo 1621 il settimo canto era già stampato, se il M. cortesemente rifiutò a Giulio Strozzi di inserirvi un cenno encomiastico (ibid., p. 309). Il 13 dic. 1621 al tipografo A. Paccard giunse il privilegio reale per la stampa (Borzelli, p. 159 n. 2). La dedica del poema è datata 30 ag. 1622, ma la stampa non seguì prontamente: nella primavera del 1623 Paccard morì e gli successe Olivier de Varennes. L’Adone era terminato il 24 aprile. Il frontespizio e la protasi dedicano il poema a Luigi XIII, ma l’epistola iniziale è indirizzata a Maria de’ Medici. Segue il Discours apologetico del giovane Jean Chapelain, poi ripudiato dal suo autore. L’edizione italiana fu assicurata da G. Scaglia a Venezia presso G. Sarzina, nello stesso 1623, senza il discorso di Chapelain, che verrà tradotto in una successiva edizione parigina (cfr. Giambonini, 2000, n. 10), e pure senza il «lungo discorso» apologetico in cui si «parlava diffusamente dello scriver lascivo», progettato dal M. come accompagnamento del poema in Italia, dato per fatto (Lettere, p. 355, da Roma 28 luglio 1623) e mai ultimato.
Giunto, al termine della sua vicenda compositiva, alla misura di venti canti (come la Liberata di Tasso), l’Adone rappresenta lo straordinario sviluppo della favola tragica del pastore amato da Venere – oggetto dell’attenzione del M. sin dagli anni napoletani – oltre la misura idillica sostenibile dal mito e adottata in quel primo approccio. La poderosa macchina narrativa costruita dal M. eluse ogni aspettativa epica tradizionale, prendendo risolutamente il largo dai modelli consacrati dall’epica cinquecentesca: quello epico, protratto dagli epigoni secenteschi della Liberata, e quello del poema esameronico, pure su autorizzazione tassiana in virtù del Mondo creato. Attraverso la programmatica effrazione del movimento centripeto che sovrintendeva a quella concezione epica, il dialogo instaurato nel nuovo poema con una fitta serie di modelli e antimodelli (anzitutto Ariosto, Ovidio e Nonno di Panopoli), assunti per essere riconsegnati con inesauribile energia ricreativa a nuove funzioni e nuovi significati, propose l’Adone con caratteristiche di spiazzante novità, immediatamente avvertita dai lettori contemporanei e oggetto di un dibattito protrattosi per i decenni successivi all’apparizione, poi destinato all’eclissi o alla deliberata rimozione nei secoli successivi.
Il risultato è una moltiplicazione dei materiali narrativi, dei sovrasensi, dei generi artistici convocati, dei domini della conoscenza percorsi, della molteplicità pulviscolare ed eclettica delle fonti evocate, in cui si avverte il dibattersi costante tra tensione geometrica all’equilibrio e alla simmetria delle parti e la fuga eccentrica e polimorfa del poetabile. Tra il canto dell’evento iniziale della storia di Adone (III, L’innamoramento, preceduto da I, La fortuna e II, Il palagio d’Amore) e quello dell’evento finale della vicenda di Adone (XVIII, La morte, seguito da XIX, La sepoltura e XX, Gli spettacoli) si estende un corpo centrale di quattordici canti, in cui la favola si dipana in una elaboratissima successione di quadri, montati sull’esile filo del mito originario, che vanifica ogni possibile distinzione tra vicenda principale ed episodi. Il protagonista è iniziato alle delizie dei sensi (canti VI-VIII) e dell’intelletto (X-XI), in mezzo alle quali stanno sovrane, non meno sensitive che intellettive, quelle della poesia (X). Il canto IX (ottave 59-91) contiene l’autobiografia lirica del M., modellata su quella di Ovidio e stesa nello stesso canto in cui appare il canone dei massimi poeti italiani (rappresenta dunque l’ultima poetica, e perciò più alta, risposta ai suoi detrattori). Il canto X è l’occasione, durante il viaggio di Adone guidato da Mercurio nel cielo della Luna, per un caloroso omaggio di G. Galilei quale inventore del telescopio (ottave 42-47). Intricatissime peripezie occupano i sei canti successivi, racchiusi tra La fuga di Adone (XII) e La dipartita (XVII), nei quali il protagonista è in balia di forze malefiche e benefiche, senza mai agire di propria iniziativa in modo efficace.
Poema non eroico, giacché la materia non è guerresca, e non sacro, data la favola pagana, l’erotismo su cui si imperniano i casi della storia amorosa della dea con il giovane pastore è espresso in termini mistici che portano a una sacralizzazione dell’eros e, per converso, a una estensione dell’erotico alla sfera del sacro, da cui discende una relativizzazione dello stesso cristianesimo, eluso nel poema nella sua realtà dottrinale e storica. Di contro si accampa, corrusca e fastosa, la storia contemporanea, specie negli Spettacoli dell’ultimo canto.
Gli otto anni trascorsi presso la corte di Maria de’ Medici e di Luigi XIII, proprio nel tempo in cui erano in lotta fra loro, per il M. furono particolarmente tormentati, anzitutto perché l’esito a lungo incerto di questa lotta metteva in forse il destinatario ultimo del poema e, più, la rappresentazione della società e della storia contemporanea, cui il genere apriva larghi spazi; inoltre il M. non vi godette, specie negli ultimi tre anni, di buone condizioni di salute e gli si presentarono notevoli difficoltà di contatti con l’Italia, in una prospettiva di rientro sempre aperta, ma altrettanto incerta per destinazione e ruolo sociale da assumere. Tutto questo rallentò enormemente il progetto accarezzato alla partenza: la stampa dell’Adone in condizioni di minor controllo ecclesiastico, progetto di per sé giustificato dal clima culturale assai liberale vigente in Francia e che peggiorò soltanto al momento del suo rientro in Italia. Il poema, già grande al momento «di dare una passata alla corte di Francia» (Lettere, p. 188), era destinato a diventare uno dei più lunghi della letteratura italiana, da una parte per le nuove intenzioni encomiastiche assunte verso i mutevoli mecenati, dall’altra perché con ogni probabilità assorbì, nella sua fase più recente, materiali destinati a dar corpo ad altre opere in altri momenti di programmazione. Di tutto questo danno un sicuro scorcio una settantina di lettere di recente meglio ordinate (Fulco, 2001, pp. 195-215) e illuminate grazie a qualche nuovo acquisto: uno scorcio, in quanto quel che rimane dell’epistolario mariniano, in cui si aprono lacune di anni interi, fa arguire un numero ben maggiore di corrispondenti, nonché di lettere ai corrispondenti noti.
Nei tempi della gestazione del poema erano giunti dall’Italia segnali positivi. Il 20 dic. 1621 il nipote Chiaro inviò buone nuove da Roma (ibid., pp. 209-211): Preti intercedeva per lui presso il nuovo papa Gregorio XV; il cardinale Stefano Pignatelli aveva in casa il ritratto del M. fatto da Caravaggio; ma giunse anche l’attestazione di una precoce gestazione dell’Occhiale da parte di «quel balordo di T. Stigliano». Il cardinal nipote Ludovico Ludovisi, con lettera del 9 apr. 1622 al nuovo nunzio in Francia Ottavio Corsini, dichiarò il suo desiderio di vedere presto il M. a Roma. Lo stesso M., in una lettera che deve essere coeva, comunicò a Sanvitale il proprio sollievo: la nuova protezione lo liberava dalle mene parmensi di Stigliani. Così nel luglio poté scrivere a Lorenzo Scoto, cappellano del cardinale Maurizio di Savoia, che «in Roma è aspettato come papalino», ma senza obblighi di servitù (Lettere, p. 341). È un punto essenziale: «stracco delle corti» il M., non meno di Tasso, vuol vivere a se stesso i suoi ultimi anni, come confessò sempre a Sanvitale (ibid., p. 343)
Se all’inizio il M. aveva pensato a pochi mesi di permanenza francese, alla fine la prospettiva si rovesciò: si trattava di passare un anno tra Roma e Napoli senza perdere la ricca pensione reale e quindi tornare a corte, non fosse che per brevi periodi. Durante il soggiorno, nonostante le sin troppo note espressioni di soddisfazione per lo status raggiunto, le difficoltà anche finanziarie non mancarono: ai molti scudi vantati agli amici e ai nemici italiani rispondono le richieste di intercessione agli italiani della corte itinerante perché la pensione gli sia effettivamente versata (ibid., pp. 220 s., 223 s.). I soldi per la stampa furono disponibili all’inizio del 1620 (pp. 232, 234), ma poi venne la guerra. Finalmente nel settembre successivo (p. 290) poté concretamente dire a Salviani che la pensione gli sarà corrisposta. Il primo indirizzo parigino fu presso il nunzio Roberto Ubaldini e poi, dalla fine del 1621, presso il nunzio Bentivoglio. Di vita mondana non parlò mai, se non per farsene distaccato osservatore nella lettera burlesca a Scoto (pp. 553-558). Al medesimo dichiarò di non toccare carte da gioco da due anni (p. 288, settembre 1620) e nella primavera del 1622 aggiunse: «vi giuro da vero amico che da un tempo in qua vivo con molta regola e senza far stravaganze» (p. 336). Le stravaganze sono piuttosto quelle descritte dai biografi: «Gli suoi studi erano continui, et particolarmente la notte, nella quale non prendeva di sonno altro, che due hore, dormiva con li libri in mano» (Chiaro, p. 48); «come intento a gli studi, poco d’ogni lautezza curandosi, in povero albergo non senza qualche licenza di costumi filosoficamente si ricovrava» (Baiacca, pp. 43 s.). Unica consolazione era la passione del collezionista, che crebbe più che mai dopo la stampa della Galeria, con continue richieste di acquisti in più direzioni.
Il ritorno in Italia ebbe luogo nello stesso aprile 1623 in cui venne alla luce l’Adone. Il M. partì provvisto della pensione reale, che tuttavia in seguito non gli fu più versata, in quanto non ebbe più modo di presentarsi a corte per la riscossione. La prima tappa del rientro fu Torino, dove il principe Tommaso di Savoia gli donò una collana d’oro. Di lì prese la strada per Roma con il cardinale Maurizio di Savoia e vi arrivò in maggio. A Roma fu accolto dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi e da suo fratello Nicolò, principe di Venosa, di cui Preti era precettore, ma scelse di stare in casa Crescenzi. Fu eletto principe degli Accademici Umoristi. Ritrovò N. Poussin, da lui scoperto a Parigi e introdotto nell’Urbe. Ma non furono solo trionfi. A Biserta la barca con i suoi bagagli fu depredata dai corsari turchi: la perdita ammontò a più di 7000 scudi, con particolare rincrescimento per le tele originali, di cui tentò di procurarsi nuove esecuzioni. Ad Ancona stamparono l’Adone alla macchia, in concorrenza con l’edizione purgata che egli preparava a Roma, e in attesa della quale pregò Scaglia di sospendere la ristampa della sua veneziana (Lettere, p. 366). L’8 luglio morì Gregorio XV e il 6 agosto fu eletto Maffeo Barberini, in cui il M. riponeva legittime speranze (ibid., p. 363). Ma Urbano VIII non gli fu favorevole: l’edizione romana dell’Adone, che doveva essere «la più corretta» (ibid., p. 373; e pp. 359, 361, 366), non vedrà mai la luce.
Verso la fine di maggio 1624 il M. partì per Napoli. Manso gli venne incontro sino a Capua. Dapprima il M. fu ospite dei padri teatini, poi di Manso, in seguito alloggiò in proprio, alla ricerca di un palazzo dove collocare libri e quadreria. Appena giunto, trovò le balle dei suoi libri inviati da Roma sequestrate in dogana, e l’ordine da Roma per il dissequestro tardò a giungere, nonostante ogni sollecitazione, di cui incaricò Antonio Bruni (ibid., pp. 382 s.). Fu accolto dalle due Accademie rivali, degli Infuriati e degli Oziosi, e di quest’ultima fu fatto principe, ma fu anche seriamente coinvolto nei loro contrasti; il viceré Antonio Álvarez de Toledo lo accolse con gran cortesia, ma nella lettera a Bruni del maggio 1624 il M. dichiarò di morire già «di desiderio di riveder Roma, perché tutte l’altre delizie mi paion nulla» (ibid., p. 384). Ancora a Bruni, una volta dissequestrati i libri, confessò di pensare di rispedirli a Roma, «perché in effetto mi par mill’anni di esservi, tali son le miserie di questa città» (ibid., p. 387).
Ma anche da Roma aveva notizie scoraggianti: circolava una lettera del gesuita Agazio Di Somma, del 5 sett. 1623, che attribuiva a Preti l’opinione secondo la quale «questo poema sia di gran lunga superiore alla Gierusalem di Torquato Tasso» (Paudice, p. 105). Preti si era sentito in obbligo di smentire e quindi si ebbe una circostanziata ma molto piccata reazione da parte del M., dove emergono la proposta di poema «divino, perché parla de’ dèi» di contro alla negazione che sia «eroico, perché non tratta d’eroe», nonché la piena assunzione delle Metamorfosi ovidiane come modello non inferiore a quello dell’Eneide (Lettere, pp. 394-397). Oltretutto Preti aveva convinto Bruni a condividere la sua posizione, dal che nuove lagnanze del M. al primo (ibid., pp. 398 s.) e, con più cautela, al secondo (pp. 400 s.), pur rinunciando a dare a Preti una risposta che potesse guastare definitivamente l’amicizia (p. 408).
L’8 ott. 1624 scrisse a Bruni che stava «dando l’ultima mano al poema degl’Innocenti» e che resisteva alle offerte del viceré, meditando di tornare a Roma in casa del cardinale Maurizio di Savoia. La mira era ormai questa e le lettere a Bruni insistono anche sul partito di voler «coltivare la sua servitù» con il cardinale Desiderio Scaglia. La correzione dell’Adone stava tra le mani del cardinale Pio di Savoia, con soddisfazione del M., che ricordava comunque al prelato, via il solito Bruni, «ch’egli fu prima principe che prete» e che «quanto vi è di lascivo, è tutto indirizzato al fine della moralità», con rinvio al discorso mai giunto a termine dove doveva dimostrare «la differenza ch’è tra la lascivia dello scrivere e l’oscurità» (ibid., p. 415). Ma su quella revisione l’ultima lettera a Bruni, del 12 marzo 1625, a due settimane dalla morte, è sfiduciata. Tre giorni dopo scrisse quella che è per noi l’ultima sua lettera, a Manso: un omaggio che sentiamo estremo al proprio protettore, al mecenate napoletano e, somma lusinga, allo scrittore, esortato a pubblicare tutte le opere, non solo i dialoghi dell’Erocallia, per i quali il M. compose quegli Argomenti che a nessuna altra opera aveva concesso e che figurano nell’edizione di Venezia 1628.
In una lettera non datata, ma certo da Napoli a Roma, a Ottavio Tronsarelli (Giambonini, 1988, p. 324), il M. accusa cattiva salute, timori di «disastro» per la Strage non ancora data alla luce; denuncia furti di opere da parte di un servitore, teme per altre rimaste a Roma: è un quadro estremo molto oscuro. Non meno oscuro quello dipinto dai primi biografi, di un M. che sul letto di morte ordinò il rogo penitenziale di molti suoi scritti; né ci consola il fatto che i circostanti rubassero «alla voracità delle fiamme tutto quel che potevano», poiché il rubare non va probabilmente inteso come semplice metafora, se il testimone aggiunge che «così molte sue fatiche sono rimaste guaste et imperfette» (Chiaro, pp. 42 s.). Su altri manoscritti (ancora posseduti da Crasso), sui suoi libri e sui suoi quadri scese il fuoco del Vesuvio nel 1794 o sono stati altrimenti dispersi, in parte forse non irrimediabilmente.
Il M. morì a Napoli il 25 marzo 1625 «di stranguria, dopo assunzione di rimedio inopportuno» (ibid., p. 42).
Della sua morte dà un quadro apologeticamente edificante Preti in una lettera ad Achillini (Baiacca, pp. 11-14). Fu sepolto il 3 aprile ai Ss. Apostoli. Splendide le onoranze all’Accademia degli Oziosi, ma più splendida la pompa funerale fatta dagli Umoristi a Roma, il 7 settembre, come descritta nella Relazione di Flavio Freschi. Il testamento chiamava erede ed esecutore Manso. Questi suggerì di destinare i libri al collegio dei Nobili che intendeva fondare, affidandone la cura ai padri teatini dei Ss. Apostoli, forse già destinatari primi della libreria; di qui i dissidi tra lui e i padri, nonché con i Chiaro in merito anche al lascito dei manoscritti (Borzelli, pp. 194-196 e soprattutto Fulco, 2001, pp. 86 s., che ragguaglia sui documenti superstiti). Rovinati furono anche il cenotafio voluto da Manso e il ritratto accanto al sepolcro del M., fatto eseguire dai teatini nel cimitero sotterraneo della loro chiesa.
Postume sono le edizioni della Strage degl’innocenti, Napoli 1632, a cura di Chiaro, e delle lettere, che il M. stesso aveva progettato, Venezia 1627 e 1628. Dopo la condanna all’Indice dell’Adone, il 4 febbr. 1627, la Strage risulterà essere l’opera del M. più ristampata, con gran seguito di traduzioni e addirittura con una fortuna popolare che Menghini (p. 280) ritenne più alta di quella della Gerusalemme. Delle lettere si attende, dopo i restauri di Fulco e di Russo, l’edizione che, chiarendone la tradizione e l’ordine, le renda meno infide e quindi meglio fruibili.
Per le edizioni antiche si rinvia a F. Giambonini, Bibl. delle opere a stampa di Giambattista M., Firenze 2000. In edizioni moderne: Epistolario seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, I-II, a cura di A. Borzelli - F. Nicolini, Bari 1911-12; Poesie varie, a cura di B. Croce, ibid. 1913; Dicerie sacre e La strage de gl’innocenti, a cura di G. Pozzi, Torino 1960; Lettere, a cura di M. Guglielminetti, ibid. 1966; L’Adone, a cura di G. Pozzi, Milano 1976 (ed. con Poscritto bibliografico ibid. 1988); La galeria, a cura di M. Pieri, Padova 1979; Gierusalemme distrutta e altri teatri di guerra, a cura di M. Pieri, Parma 1985; La sampogna, a cura di V. De Maldé, Milano-Parma 1993; La sferza e Il tempio, a cura di G.P. Maragoni, Roma 1995. Delle Rime. Parte prima, sono modernamente edite: Rime amorose, a cura di O. Besomi - A. Martini, Ferrara-Modena 1987; Rime marittime, a cura di O. Besomi - A. Martini - C. Marchi, Ferrara - Modena, 1988; Rime boscherecce, a cura di J. Hauser - Jakubowicz, ibid. 1991; Rime lugubri, a cura di V. Guercio, ibid. 2000; Rime eroiche, a cura di O. Besomi - A. Martini - C. Newlin-Gianini, ibid. 2002.
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