Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In un periodo in cui gli artisti, non più al servizio dei principi, devono affidarsi alla benevolenza di potenti mecenati, Marino, di modesta famiglia napoletana, gestisce con spregiudicatezza i propri rapporti, non rinunciando a una libertà di sperimentazione e di apertura conoscitiva ai limiti dell’eresia. Considerato a lungo l’indiscusso capofila della poesia barocca, erede insieme della lirica napoletana e della enorme apertura tematica introdotta dal Tasso, Marino coniuga le due esperienze in un raffinato studio delle risonanze foniche e retoriche dei testi, in particolare sviluppando nella poesia una ricerca di forte e languida sensualità.
Nel mutato panorama che le trasformazioni storiche di fine Cinquecento inducono, una delle più notevoli relativamente alla figura del letterato è quella determinata dalla progressiva marginalizzazione della struttura della corte e dalla conseguente necessità per gli scrittori, privati di ruoli più importanti a livello politico, di ritagliarsi una posizione professionalmente autonoma che non si riduca alla semplice funzione di segretario privato al servizio di principi o aristocratici. In questo senso la figura di Giovan Battista Marino può essere considerata tra le più significative in quanto la sua intera biografia, precocemente canonizzata in ben cinque “vite” scritte fra 1625 e 1633, dimostra l’incidenza enorme della sua personalità nel quadro culturale dell’epoca, dovuta certo anche alla sua capacità autopromozionale, gestita con una accorta politica di annunci anticipati e di polemiche artatamente suscitate a fini pubblicitari. Pur prestando la propria opera all’ombra di mecenati sempre più potenti, Marino dimostra infatti una spregiudicatezza nella gestione dei rapporti che rivela la profonda consapevolezza del proprio valore letterario, e che se si piega a operazioni di cortigianeria per garantirsi l’agio economico, nondimeno mantiene una enorme e autonoma libertà di sperimentazione e di apertura conoscitiva ai limiti dell’eresia.
Giovan Battista Marino
Elogio della rosa
Adone, Canto III, ottave 156-160
CLVI
Rosa riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior donna sublime.
CLVII
Quasi in bel trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona e d’ostro il manto.
CLVIII
Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
CLIX
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.
CLX
E ben saran tra voi conformi voglie,
di te fia’l sole e tu del sole amante.
Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie
l’Aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno
porterai sempre un picciol sole in seno.
Nato da modesta famiglia a Napoli il 14 ottobre 1569 e venuto a contrasto col padre a causa della propria propensione letteraria, Giovan Battista si avvicina presto ai cenacoli letterari napoletani, in un clima poetico fervido di fermenti culturali dove frequenta alcuni degli esponenti di punta della lirica napoletana (il Cortese, il Manso e il Pignatelli) e viene ascritto all’Accademia degli Svegliati, per passare poi al servizio del principe Matteo di Capua, mecenate e collezionista.
Nasce qui, in un ambiente ricco di stimoli figurativi, il primo progetto dell’Adone. In seguito a un non chiaro episodio (forse la gravidanza e l’aborto di una giovane amante) Marino viene incarcerato una prima volta e quindi immediatamente una seconda per falsificazione di atti in un processo di omicidio. Riesce però a fuggire a Roma grazie all’appoggio del Manso, dove entra nella cerchia di Melchiorre Crescenzi, influente chierico di camera cui dedicherà la prima parte delle Rime, edite nel 1602 a Venezia, la piazza editoriale allora più importante in Italia. All’apice del successo mondano e letterario passa al servizio di Pietro Aldobrandini, nipote dell’allora papa Clemente VIII, e viene ascritto alla prestigiosa accademia romana degli Umoristi. In seguito alla morte di Clemente VIII, divenuto papa Paolo V, è però costretto a seguire Pietro a Ravenna e, provvisoriamente e forzatamente lontano dal palcoscenico mondano, si dedica alle sue opere. Amplia il disegno dell’Adone in seguito alla scoperta delle allora sconosciute Dionisiache di Nonno di Panopoli, che gli forniscono materiali e stimoli anche per nuovi e ambiziosi progetti letterari: gli Idilli della Sampogna, anticipati con la pubblicazione nel 1607 di Europa e il primo progetto delle Dicerie sacre e della Galeria. Grazie ai rapporti dell’Aldobrandini entra intanto in contatto con la corte piemontese di Carlo Emanuele I, cui dedica il panegirico Il ritratto, ottenendo in cambio la nomina nel 1609 di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro. A Torino avviene però l’episodio più clamoroso della sua biografia: il contrasto con il poeta di corte Gaspare Murtola che esasperato dagli attacchi delle Fischiate mariniane tenta addirittura di ucciderlo. Scampato al pericolo tuttavia Marino diviene oggetto di sempre maggior attenzione da parte del tribunale dell’Inquisizione, e nel 1610 viene di nuovo incarcerato ad opera del duca stesso che lo terrà per un anno in prigione requisendogli anche tutte le sue carte. Liberato nel 1612 resta a Torino altri tre anni, ma insieme coltiva altri contatti: in particolare, importante per la sua cultura figurativa è il soggiorno a Genova presso il collezionista Giovan Carlo Doria. Nel 1615 avviene infine una svolta fondamentale: in cerca di protezione e per sottrarsi a eventuali nuove accuse Marino si decide di trasferirsi in Francia dove nel clima italianisant della corte di Maria de’ Medici riesce a destreggiarsi tra gli intrighi di corte, pubblicando nel 1619 La galeria (Venezia) e La sampogna (Parigi) e portando avanti il progetto più ambizioso dell’Adone pubblicato in forma definitiva nel 1623. Tornato a Roma nel nuovo clima classicistico che si sviluppa intorno a Maffeo Barberino, il papa Urbano VIII, pur pubblicando la Strage degli Innocenti, non riesce a riacquisire un ruolo egemone, e finisce per tornare a Napoli, dove ospite del Manso muore nel marzo del 1625.
Il Marino è stato considerato fino alla metà del Novecento circa l’indiscusso capofila della poesia barocca. Gli studi più recenti hanno però provveduto a una miglior descrizione della complessità del panorama della poesia secentesca, entro la quale la sua figura è stata meglio analizzata. In particolare la conoscenza più dettagliata della lirica di ambito settentrionale di fine Cinquecento ha mostrato come la posizione mariniana fosse tutt’altro che estremistica, ma anzi abbia operato una sorta di filtro e di sistemazione sui prodotti più avanguardistici, alla luce di una più scaltrita sensibilità poetica e stilistica. Erede insieme della raffinata lirica napoletana, particolarmente spinta all’arguzia concettosa, e della enorme apertura tematica introdotta dal Tasso che offriva alla elaborazione lirica un patrimonio fino ad allora inesplorato, soprattutto nella raffigurazione femminile calata entro cornici domestiche e quotidiane, con incremento di dettagli descrittivi (il neo, particolari dell’abbigliamento, ecc.), Marino coniuga le due esperienze in uno raffinato studio delle risonanze foniche e retoriche dei testi, in particolare sviluppando nel madrigale (dove notevole è l’eredità dell’altro grande rimatore per musica cinquecentesca, Giambattista Guarini) una ricerca di forte e languida sensualità e variatio. Particolarmente originale appare la Terza parte delle Rime, La lira, del 1614: ben 408 testi divisi tematicamente nei quali vengono portate a perfezione le sottili allusioni erotiche,il gusto del capovolgimento e dell’infrazione, insieme all’altissima specializzazione nella partitura retorica (principalmente fondata sulle figure dell’antitesi e dell’ossimoro) e fonica, ingredienti tutti che maneggiati con senso del gusto e dell’equilibrio, rispetto a esperimenti concettualmente anche più spinti dei lirici coevi, gli guadagnano la posizione preminente che diverrà poi tradizionale in tutta la storiografia letteraria successiva.
Giovan Battista Marino
Piacere imperfetto
Amori, XLIII
Alza costei dal fondo de’ tormenti
dov’erger l’ali apena osan le voglie,
promettendo conforto a tante doglie,
le mie speranze debili e cadenti.
Ma come sol, che con suoi raggi ardenti
nube in alto solleva e poi la scioglie,
repulsa allor mi dà quando m’accoglie
e i più lieti pensier fa più dolenti.
Lasso, e perché con placid’aura e lieve
le mie vele omai stanche al porto alletta,
se poi tra’ flutti abbandonar mi deve?
Così suol giocator, che palla aspetta
per ribbatterla indietro, e la riceve
sol per spingerla poi con maggior fretta.
La stessa raffinatezza e il medesimo gusto alessandrino dimostrano anche le altre opere mariniane: i Panegirici (Il Ritratto e il Tempio per Maria de’ Medici del 1615), scritti entrambi in sesta rima e caratterizzati dal gusto dell’ekfrasis, dell’accumulo, della preziosità, e gli Epitalami (Parigi 1616), una serie di componimenti di vario metro (endecasillabi e settenari sciolti; sonetti, canzoni) che offrono una ardita contaminazione di modelli classici, dall’erotismo catulliano a Stazio e Claudiano. Al piano comico, dove si intrecciano polemica letteraria e vicende biografiche, vanno invece ascritti Gli scherzi al Poetino contro Giambattista Vitali (editi postumi nel 33: tre capitoli e un sonetto) e soprattutto le Fischiate (sonetti e sonetti caudati) contro il Murtola (che rispose con la sue Risate): espressione del lato più triviale e carnascialesco del Marino ma, pur nella fondamentale opacità, segnate da guizzi di una fantasia grottesa e deformante nutrita dalla ripresa parodica e stravolta dei modelli classici.
Ancor più complesse dal punto di vista della costruzione, della raffinatezza retorica e della citazione dotta sono le prose delle tre Dicerie sacre dedicate al Paolo V: La Pittura. Diceria prima sopra la Santa Sindone; La Musica. Diceria seconda sopra le Sette parole dette da Cristo in Croce e Il Cielo; Diceria terza, luogo di affollate memorie evangeliche, patristiche, allegoriche e insieme erudite e letterarie in un precipitato retorico di altissima e complessissima orchestrazione arricchito da una prosa ricca di allusioni, calchi più o meno occulti, preziosismi lessicali.
Il gusto sensuale del Marino si nutre in tutte le sue opere di una estrema sperimentalità sincretistica, attentissima alla fusione dei linguaggi e degli stimoli delle arti figurative e della musica, tanto nelle rime quanto soprattutto nella Galeria e nella Sampogna. La prima, divisa in Pitture (542 testi) e sculture (82): madrigali e in misura minore sonetti e altri metri, strutturati le prime in Favole/ Historie/ Ritratti/ Capricci, le seconde in in Statue/ Rilievi, modelli e medaglie/ Capricci. Più che nei singoli testi, impostati secondo lo stesso impianto concettoso delle rime, la novità sta soprattutto nell’organizzazione museale della raccolta, tramata da una serie di “narrazioni” più o meno esplicite, che disegnano di volta in volta i riferimenti pittorici, letterari, biografici dell’autore in un sottile gioco enigmistico e di simbiosi tra artisti e pittori. Tutta giocata sullo scambio e sulla gara con la musica è invece la Sampogna, costituita da 12 idilli (8 favolosi e 4 pastorali), lavorati con una escursione stilistica amplissima, che svaria dalla intonazione alta a quella rustica dei pastori, impiegando l’intera tastiera di traslati e artifici formali all’insegna della musicalità, e aperta non a caso dal polimetro Orfeo, ispirato a Poliziano e all’Euridice di Rinuccini: tecnicamente in gara con la musica a lui contemporanea.
Alla composizione di un poema il Marino comincia a pensare fin dagli anni napoletani, abbozzando una Gerusalemme distrutta di cui verrà pubblicato postumo soltanto un frammento (Il settimo canto), dedicato alla adunanza della corte celeste. Il progetto abortisce, ma il tema verrà in parte ripreso nella Strage degli Innocenti, edita nel 1632. Ben diverso invece l’orizzonte tematico e culturale dell’Adone, pensato, secondo una felice formula dello stesso Marino, come “poema della pace”, della celebrazione della sensualità e della meraviglia del reale in contrapposizione al tormento intimistico e religioso della Gerusalemme tassiana. Progettato probabilmente fin dal 1598, e cresciuto nel tempo attraverso rimaneggiamenti e ampliamenti, il poema passa dai tre libri iniziali ai venti definitivi, venendo a costituire, con le sue oltre 5.000 ottave, il poema più lungo della nostra letteratura. La breve favola idillica degli amori di Venere e Adone si dilata attraverso l’innesto di episodi secondari: al gusto mitologico e favoloso si aggiunge la fascinazione per le scoperte scientifiche e tecniche (si veda l’elogio di Galileo nel canto X) in una celebrazione e rassegna della molteplicità del reale condotta nell’accumulo e sovrapposizione di dettagli preziosi, figurazioni icastiche, tutte giocate sul tema metamorfico. La stessa struttura architettonica del poema rivela la mancanza di un ordine univoco: alla tradizionale struttura concentrica e all’andamento lineare della favola si oppone una trama di duplicazioni e opposizioni: gli episodi (lo stesso centrale dell’innamoramento di Venere e Adone) vengono ripetuti e variati in una continua dinamica opposizione fra “eccessi di simmetria” rilevabili nella esasperata sottolineatura degli aspetti binari sintattici e retorici (bimembrazioni, coppie, rapportationes; ottava strutturata prevalentemente a distici) e “eccessi di informalità” delegati a una sintassi dove predomina l’eloquio patetico e l’impiego costante di figure retoriche come paronomasia e figura etimologica che potenziano e diffondono in maniera disordinata l’energia di alcune parole. Da qui l’effetto di architettura “barocca” del poema e le ragioni del suo grande successo ma insieme delle polemiche e delle condanne che ne accompagnarono l’uscita, prevalentemente dirette contro la macchinosità e la mancanza di unità del poema ma anche contro l’ardito impasto linguistico, aperto a dialettalismi, forestierismi, latinismi, neologismi e all’utilizzo di un lessico specializzato e tecnico, fortemente innovativo e mirato a una sorta di “lingua comune italiana” che costituirà infatti la fonte principale, per la sua facile traducibilità, delle grammatiche francesi della lingua italiana a partire dalla seconda metà del Seicento.