MOLA, Giovan Battista
– Nacque a Coldrerio (Coldrè), vicino Como, il 9 luglio 1586, secondogenito di Aurelia della Porta (Gilardi) e di Giovan Pietro «della Molla», appartenente a una famiglia di mastri muratori di consumata esperienza (Genty, p. 16).
I primi anni del M. sono difficilmente ricostruibili poiché sono prive di riscontri documentari le informazioni fornite dal suo primo biografo, secondo il quale un iniziale percorso di studi a Milano sarebbe stato seguito dall’apprendistato presso un non meglio identificato «Enrico Rainber, ingegniere del re di Spagna»: da lui il giovane avrebbe appreso «le regole della geometria e dell’architettura civile e militare» (Pio, p. 86). Sulle orme del fratello maggiore Giacomo, il M. scelse di avviarsi alla carriera architettonica trasferendosi a Roma, dove è documentato per la prima volta nel 1601.
Nello stesso anno, a causa della morte del padre, fece ritorno a Coldrerio, dove si sarebbe recato ancora, per brevi soggiorni, nel 1605, 1608, 1612 e 1614 (Curcio, 1989, pp. 31, 36 n. 62 s.). Nel 1607 sposò Elisabetta Cortesella di Como, dalla quale avrebbe avuto numerosi figli, tra cui, il più noto, il pittore Pier Francesco e Carlo, attestato per la prima volta nel 1622, divenuto sacerdote nel 1642 e morto prematuramente nel 1647 (ibid., p. 36 n. 66; Pillittu, p. 608).
Complice la trama di relazioni intessuta da Giacomo, il M. poté forse compiere una sorta di «praticantato» presso F. Ponzio, all’epoca in cui quest’ultimo dirigeva, a Roma, il cantiere di S. Sebastiano fuori le mura ed era impegnato in quello di S. Maria Maggiore con la partecipazione di altri membri della famiglia Mola (Curcio, 1999, p. 305); ma poté avere accesso anche a un percorso formativo pluridisciplinare frequentando l’«Accademia» di O. Longhi (ibid., p. 306; Manfredi, p. 41). È quanto si desume dai documenti, che lo segnalano nel 1616 tra i mastri muratori attivi nella fabbrica della basilica mariana (Bertolotti, 1881), e da un importante corpus grafico (Milano, Castello Sforzesco, Civico Gabinetto dei Disegni, Raccolta Martinelli, VII; Antinori, 1991; Id., 1999; Curcio, 1999, p. 306).
Il corpus è costituito di trentasette disegni, databili tra gli inizi del secondo e gli inizi del quarto decennio del secolo, nella maggioranza dedicati a varie tipologie di ornato applicate a porte, portali, finestre e nicchie, altari e monumenti funebri, tra i quali, accanto ad esercizi da testi «classici» dell’architettura michelangiolesca, se ne affiancano numerosi altri relativi sia ad opere costruite sia a progetti dei due architetti lombardi. Tra questi ultimi si segnalano, in particolare: il disegno, non finito, con la facciata monumentale d’ingresso del giardino Altemps, realizzato da Longhi tra il 1594 e il 1595 sulla via Flaminia e trasferito nell’Ottocento nel prospetto del palazzo della Ragioneria generale sul Campidoglio (Milano, Civico Gabinetto dei disegni, Raccolta Martinelli, VII, 51a; Antinori, 1999, pp. 310 s.), e quello riproducente il perduto progetto originario di Ponzio per la facciata di S. Sebastiano e databile anteriormente all’ottobre 1611; in quest’ultimo foglio, il M. esibì una ricca elaborazione di motivi, che non sarebbero stati realizzati, con l’intento, forse, dando un saggio delle sue capacità inventive, di subentrare alla direzione del cantiere dopo l’allontanamento di Ponzio nell’autunno del 1611 (Milano, Civico Gabinetto dei disegni, Raccolta Martinelli, VII, 27; Antinori, 1995, pp. 109-114; Id., 1999, pp. 309 s.).
Le occasioni di affermazione sarebbero venute, invece, solo tardivamente e al di fuori del più accreditato contesto romano. A Roma, dal 1617, il M. prese stabile dimora in un appartamento indipendente della proprietà immobiliare del fratello Giacomo «ai Mattei», parrocchia S. Nicola dei Cesarini (Curcio, 1989, pp. 36 s., nn. 65 s.). Agli anni 1623-26, infatti, datano i progetti che il M. elaborò per la sua prima commissione autonoma, finanziata dai coniugi Andrea Mauri di Spoleto, prefetto generale delle poste e delle dogane, e Livia Zucconi di Camerino: la cappella delle Ss. Icone del duomo di Spoleto, per la quale venne realizzato a Roma, e quindi trasferito nella città umbra, un prezioso altare con colonne di verde antico, ornati a commesso di diaspro e tarsie di corniole, lapislazzuli e agate orientali (Falabella, p. 206 n. 14), il cui disegno tradisce «la commistione del vocabolario classicheggiante del primo Seicento romano con l’inserzione di elementi del tardo manierismo» (Noehles, L’architetto…, 1966, p. 195). Nel 1625 il M. fornì inoltre il disegno per l’integrale ristrutturazione dell’oratorio della Confraternita di S. Maria in Lauro Candelora ancora a Spoleto, conseguente all’accorpamento della confraternita a quella di S. Giovanni Decollato, complesso decaduto nella seconda metà dell’Ottocento (Di Marco).
Probabilmente agli inizi degli anni Trenta, quando ricevette pagamenti in qualità di architetto della Camera Apostolica, il M. partecipò alla realizzazione del Forte Urbano di Castelfranco in Emilia, progettato da G. Buratti e quasi interamente distrutto: la sua presenza nel cantiere non dovette essere determinante ma è comunque attestata dai due disegni autografi relativi al piano terra e alla facciata del blocco di fabbrica della caserma (Londra, Victoria and Albert Museum, Print Room, E 303-1937, D 114-1890; Noehles, L’architetto…, 1966, p. 195; Curcio, 1989, p. 31; Sperandini).
Al principio del quarto decennio data anche la serie di disegni, molti dei quali firmati e datati «1631» e alcuni corredati da elementi figurativi del figlio Pier Francesco, in cui il M. elaborò in numerose varianti i temi del portale, dell’altare, del deposito funebre (New York, Metropolitan Museum of art, Harry G. Sperling Fund; Curcio, 1989, pp. 33, 39 n. 114; Id., 1999, p. 312): la riflessione privilegiata su quei motivi, forse destinata a tradursi «nella stesura di una raccolta di architetture del suo tempo» (Curcio, 1989, p. 33), ebbe modo di concretarsi, tra il 1636 e il 1637, nelle formule decorative di sapore rainaldiano applicate all’ornato del portale del casino di Pietro Zaccone, già di fronte alla porta d’accesso al monastero romano dello Spirito Santo, demolito per l’apertura di via dei Fori Imperiali e sistemato, nel 1950, tra il Braccio Nuovo dei Musei Capitolini e il giardino Caffarelli (Pietrangeli; Passigli, p. 325).
A conferma dell’acquisita consapevolezza del proprio ruolo, il M. si cimentò in una prova pubblica, partecipando, all’inizio del 1637, alla consulta indetta dalla congregazione dell’Oratorio dei filippini; il progetto da lui inviato, tuttavia, fu giudicato insoddisfacente per mancanza di originalità inventiva e inadeguatezza delle soluzioni approntate per la distribuzione delle finestre (Connors; Curcio, 1989, p. 31). Intorno a quello stesso anno, il M. partecipò ai lavori di ricostruzione della chiesa di S. Ambrogio della Massima (o in Pescheria) presentando, con uno sfoggio di «zelo non richiesto» (Curcio, 1989, p. 31), un ambizioso progetto, non realizzato, atto a trasformare il braccio sinistro del transetto in una navata a tre campate (Hibbard, p. 138); il suo impegno in quella sede fu invece circoscritto al disegno degli stucchi della cappella di S. Stefano, già assegnati da fonti seicentesche al fratello Giacomo (Martinelli). In compagnia di quest’ultimo, e con l’ausilio degli stuccatori G. Fontana e G. Ferrabosco, tra il 1640 e il 1641 lavorò al rifacimento della tribuna e dell’altare maggiore della chiesa di S. Eligio dei Ferrari (Curcio, 1989, p. 37, n. 84).
Gli anni Quaranta siglarono effettivamente l’inizio di un periodo di maggiore visibilità per il M.: ad apertura del decennio ricevette pagamenti attestanti la sua collaborazione con il fratello per la progettazione della «corsia nuova» dell’ospedale Lateranense e a lui sarebbero da ascrivere struttura e decorazioni dei portali e la facciatella verso il battistero (Id., 1979, pp. 119-121; 1989, p. 30; Curcio - Spezzafero, p. 84); dal 1642 al 1644, proseguì i lavori lasciati interrotti da N. Sebregondi in S. Maria del Pianto, progettando l’intera zona absidale e ampliando la sacrestia maggiore (Gröbner - Tucci, pp. 50, 62, 77, 101, 125); nel 1643, su committenza del duca di Acquasparta, Federico Cesi, realizzò in S. Francesco a Ripa il deposito di Innocenzo da Chiusi, già nella prima cappella a sinistra e ora nel pilastro della navata centrale a sinistra dell’ingresso (cfr., del M., Breve racconto delle miglior opere d'architettura, scultura et pittura, fatte in Roma et alcune fuori di Roma, in K. Noehles, Roma…, 1966, p. 88; Menichella, p. 63 n. 35). Ancora per effetto del ruolo rivestito dal fratello, dal 1642 al 1649 architetto della Confraternita della Ss. Trinità dei Pellegrini, il M. intervenne in quel cantiere dando un saggio delle sue competenze di ingegneria idraulica applicate ai problemi relativi al sistema fognario. Nuovamente accanto a Giacomo, impegnato, presumibilmente intorno ai primi anni Quaranta, nella ristrutturazione e nell’ampliamento dell’ospedale dei Mendicanti a ponte Sisto, realizzò la «chiavica che si vede nel Fiume … che prima penetrava nelle cantine dell’Ospedale» (Breve racconto ..., p. 104; Spezzaferro, in Salerno - Spezzaferro - Tafuri, pp. 514 s.). Inoltre, come già il fratello, anche il M. rivestì l’incarico di «sottomaestro delle strade» per un periodo forse più lungo di quello documentato continuativamente dal gennaio 1642 al marzo 1646 (Bentivoglio).
Alla metà degli anni Quaranta il M. poté evidentemente rientrare nel novero degli architetti più stimati operanti in città: nelle riunioni della congregazione della Reverenda Fabbrica di S. Pietro, svoltesi il 9 ott. 1645 e il 20 febbr. 1646, infatti, fu tra gli otto che presentarono progetti per l’erezione del secondo campanile della basilica vaticana. Le sue proposte, tuttavia, finalizzate a «rifare li Campanili da fondamento in altro luogo con dilatare maggiormente la lunghezza della facciata», vennero giudicate negativamente, e anche la scelta dei partiti ornamentali dei campanili non fu apprezzata, in particolare per la soluzione dell’ultimo ordine «troppo trito» (McPhee, pp. 239, 241).
Allo scadere del 1646, il M. venne chiamato in Sardegna, in risposta a una richiesta formulata il precedente febbraio dai Consiglieri di Cagliari di contattare a Roma un «ingegnere» non locale per la risoluzione dei gravi problemi di approvvigionamento idrico di quella città.
La presenza del M. nell’isola, documentata non continuativamente tra il novembre 1646 e il giugno dell’anno successivo, si accompagnò alla redazione di progetti per un acquedotto da situarsi tra Domusnovas e Cagliari, nessuno dei quali realizzato causa il mancato saldo delle prestazioni da lui fornite (Pinna). Pur non esistendo prove dirette a conferma degli ulteriori impegni che il M. avrebbe assolto in Sardegna secondo le fonti (Pio, p. 86), alcuni indizi documentari lascerebbero supporre che egli possa esser stato perlomeno chiamato a fornire consulenze per una ristrutturazione delle mura di Villanova, comprendenti anche il prospetto orientale del palazzo Regio, promossa in quegli stessi anni dal viceré di Sardegna Luigi Guglielmo Moncada duca di Montalto (Pillittu).
A Roma, entro la fine degli anni Quaranta, il M. tornò nel cantiere di S. Maria del Pianto progettando, a sinistra dell’altare della cappella di S. Francesca Romana, il monumento funebre di P. Palmieri, completato il 2 dic. 1650 (in situ) e, presumibilmente, fu ancora lui a fornire, a distanza di pochi anni, progetti per la decorazione a stucco della cupola della chiesa, realizzata da F. Diodini (Gröbner - Tucci, pp. 115, 107).
Nel novembre 1651 il M. fu incriminato per aver compiuto scorrettezze ai danni del mercante di marmi Santi Ghetti, condannato all’esilio dalla città per sei mesi e poco prima incarcerato nelle prigioni di Corte Savella allora poste sotto la direzione di Virgilio Spada, consigliere di Camillo Pamphili. Fu probabilmente lo stesso Spada a convincere dell’innocenza del M. il principe e a suggerire a quest’ultimo di avvalersi della consulenza dell’architetto per le numerose fabbriche pamphiliane allora in corso. In veste di «familiare», il M. iniziò un’attività che si protrasse per circa un decennio e che lo vide impegnato, in particolare, nel fornire pareri sullo stato di conservazione della villa di Frascati, in lavori per il palazzo Pamphilj di Nettuno, nella ricostruzione, tra il 1652 e il 1657, della chiesa di S. Urbano ai Pantani, demolita con l’apertura di via dei Fori Imperiali, e nel fornire disegni per la chiesa di S. Agnese in piazza Navona, cui avrebbe voluto dare un differente orientamento, sul lato nord della piazza verso Tor Sanguigna (Hess - Röttgen; Curcio, 1989, p. 39 n. 112; Noehles, L’architetto…, 1966, p. 196). Fu soprattutto la redazione di quest’ultimo progetto a costituire il nodo della causa che il M. indisse contro C. Pamphili per rivendicare mansioni di «architetto progettista» che, rispetto a quelle di un «familiare», avrebbero dovuto essere diversamente stimate e retribuite (Eimer). La vertenza si chiuse in tribunale nel 1662 a favore del M., che già da alcuni anni doveva aver concluso la sua attività «pratica» e orientato le sue competenze alla redazione di una guida di Roma con informazioni particolarmente dettagliate sugli interventi urbanistici e le opere di architettura, rimasta inedita lui vivente e nota in una prima versione, anonima, datata 1660 (Opere di diversi architetti, pittori, scultori, et altri bellingegni fatti in Roma, Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1707), e in una seconda, firmata e datata 1663 (Viterbo, Biblioteca comunale, Mss., II, D I, 11).
L’edizione moderna del Breve racconto delle miglior opere d'architettura, scultura et pittura, fatte in Roma et alcune fuori di Roma, a cura di K. Noehles (Roma l'anno 1663 di G.B. M., Berlin 1966) ha riprodotto integralmente la redazione viterbese con le sole sezioni della vaticana valutabili, al confronto, come integrazioni, ma le ben più numerose varianti, solo in parte individuate in più aggiornati contributi (Curcio, 1999, p. 307; Fratarcangeli, 1999, pp. 312 s.), informano di una rivisitazione del testo sia in previsione della disattesa edizione, sia in conseguenza della composizione della causa con i Pamphili intercorsa proprio negli anni tra le due stesure. Sotto il primo rispetto, nella seconda versione il M. strutturò più coerentemente la distribuzione degli argomenti, accorpando i monumenti sacri della città separatamente da quelli profani; colmò, sia pure non sempre correttamente, molte lacune attributive; aumentò sensibilmente il numero di monumenti esaminati; integrò il repertorio di informazioni relative alle vicende antiche delle fabbriche; si diffuse, con dovizia di dettagli, sulle notizie relative agli obelischi vaticano e lateranense complice un'evidente utilizzazione del trattato Della trasportatione dell’obelisco vaticano di D. Fontana, emblematica di un’orgogliosa rivendicazione di appartenenza a quelle medesime maestranze settentrionali radicate nella città papale che trovò espressione anche nella preferenza accordata, come già nella prima versione, alla sottolineatura degli interventi di F. Ponzio e O. Longhi. Secondariamente, il M. si preoccupò di stemperare quelle notazioni polemiche già associate alla descrizione delle committenze pamphiliane dalle quali era stato escluso e di espungere l’elenco di «Fabbriche fatte da Sisto V° in Roma e suo valore» e la nota sull’«Abbellimento di strade d’ordine d’Alessandro 7°. Esseguito da Domenico jacovacci e Giacinto del Bufalo maestri di strade», ovvero di riequilibrare a vantaggio di un’indiretta celebrazione dell’età pamphiliana un testo altrimenti sbilanciato a favore della trascorsa stagione sistina e di quella contemporanea chigiana. In questa prospettiva, si spiegano anche, nella seconda versione, i tagli informativi su alcuni interventi berniniani operati sotto Alessandro VII, e la mitigazione, per alcuni di quelli che vennero mantenuti, dei commenti entusiastici che già li avevano accompagnati (Falabella, pp. 192-202, e note relative alle pp. 210-214). Rimasero comuni a entrambe le redazioni, oltre ai segnali di una mancata finale revisione, l’assenza di un itinerario descrittivo che potesse tradursi in uno concreto di visita della città, e la sostanziale incompletezza, predeterminata dal criterio scientemente soggettivo che presiedette alla selezione delle realtà descritte. La percepibile consapevolezza del M. di esser stato protagonista e spettatore di un cruciale percorso di rinascita delle arti e dell’architettura, teso a restituire l’antica grandezza dell’Urbe, gli consentì non soltanto di elencare «in uno spazio relativamente breve un vastissimo materiale di dati precisi» (Noehles, L’architetto…, 1966, p. 193), ma anche di selezionare, insieme con le testimonianze di una cultura a lui, «esponente attardato del manierismo» (Grassi; Curcio, 1989, p. 33), più vicina per educazione e inclinazione di gusto, alcuni interventi messi in atto nella piena temperie barocca da Pietro Berrettini da Cortona, Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, verso il quale vennero pronunciati sia «giudizi scevri di ogni nota polemica» (Fratarcangeli, 1999, p. 313) sia di più esplicito apprezzamento (Falabella, pp. 196 s.).
La stesura della seconda versione della guida dovette porsi a conclusione della vicenda umana e professionale del M., del quale null’altro è noto.
Sembra ormai potersi confutare, infatti, la tesi della sua appartenenza all’Accademia di S. Luca, variamente ripetuta nella bibliografia (Noehles, L’architetto …, 1966, p. 196; Curcio, 1989, p. 33; Pinna, p. 566; Salvagni) e fondata sull’esistenza, nella raccolta accademica, di un suo ritratto, di paternità ignota, corredato dall’iscrizione GIO. BATTISTA MOLA AR. 1661 (Incisa della Rocchetta; Fratarcangeli, 1999). Una nota d’archivio, datata 2 nov. 1667, redatta dal segretario dell’Accademia Ippolito Leoni, comunica infatti come, in occasione della correzione dell’elenco degli accademici steso a partire dal 1655, fosse stato espunto il nome del M. architetto perché «scrittovi dispoticamente dal figlio Pier Francesco quando era Prencipe contro il decreto» e suggerisce, pertanto, di ritenere che anche l’esecuzione del ritratto fosse avvenuta in prossimità del breve principato di Pier Francesco del 1662-63 (Falabella, p. 189). Anche la tesi che egli avesse svolto un’attività pittorica, sia pure occasionalmente e «per suo diletto», riferita concordemente dalle fonti per giustificare le sollecitazioni ricevute in giovane età dal figlio Pier Francesco (Pio, p. 86; Passeri; Pascoli), e ribadita da parte della bibliografia (Curcio, 1989, p. 36 n. 59; Id., 1999, p. 306), presenta delle criticità a causa della mancata sopravvivenza di documenti pittorici di incontrovertibile autografia e della confusione ingenerata dalle attribuzioni a un omonimo pittore della successiva generazione (Cocke, p. 70, fig. 145; Boyer - Rosenberg; Falabella, pp. 185, 205 nn. 7 s.). Della fervida attività letteraria e trattatistica, riferita ancora dal suo biografo (Pio, p. 86), rimane traccia, invece, solo in una serie di scritti contenuti nel codice viterbese, legati insieme dal concetto «vasariano delle tre età del mondo», tra i quali un trattato Della medicina e un Discorso sopra l’inondazione del Tevere (Noehles, Roma ..., 1966, pp. 16-19; Curcio, 1989, p. 33).
Il M. morì a Roma il 23 genn. 1665 (Curcio, 1999, p. 308 n. 31).
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