NENNA, Giovan Battista
NENNA, Giovan Battista. – Nacque a Bari da Vincenzo e da Luisa Pascalino, fra il 1509 e il 1513, come si deduce dalle notizie offerte da lui stesso nel dialogo in prosa IlNennio, il quale ragiona di nobiltà.
Nella postfazione afferma: «A quegli che dicono che dovea io non darmi allo scrivere queste contese ma alle appropriate al legale studio, certamente se l’età in cui io scrivendo le raccontate contese mi trovava (che non so se quattro lustri d’anni ascendevano) fusse stata bastevole, forse accadendo l’arei volentieri fatto» (Il Nennio..., ed. critica a cura di R. Girardi, Bari 2003, p. 189). Aveva circa vent’anni, dunque, quando cominciò a scrivere il dialogo, la cui prima stesura è posteriore al 1528. Nella cornice del Nennio infatti si rievocano il luogo, il tempo e l’occasione della contesa: «dimorando io con mio fratello nella dotta città d’Antenore […], assaliti fummo da pestifera mortalità, essendo già degli anni della umana redenzione passati tre lustri di secoli con ventotto anni di più […], indi ne partimmo e nell’antica città di Iapige […] pervenimmo» (ibid., p. 7).
I Nenna furono una famiglia ‘parlamentare’. Vincenzo ebbe almeno altri tre figli, Pietr’Antonio, Domenico e Cassandra (sulla scena del Nennio essi compongono la brigata dialogante) e fu ‘decurione’ nel Sedile del ‘popolo primario’ (una delle due ‘piazze’ parlamentari di Bari) in rappresentanza delle famiglie non nobili della città.
Nenna trascorse la sua infanzia nella Bari retta per diritto feudale dalla duchessa Isabella d’Aragona.
Nel 1517, dopo frequenti soggiorni a Napoli, che l’avevano vista protagonista nella vita mondana della corte vicereale, Isabella lasciò il castello barese e con la figlia Bona Sforza andò a risiedere stabilmente a Napoli, dove il 6 dicembre si celebrarono per procura le nozze di Bona con Sigismondo I Jagellone, re di Polonia, in seguito alle quali, nel 1518, ella raggiunse il consorte a Cracovia e fu incoronata regina. Nel 1525, grazie a un decreto della Regia Camera, la duchessa-regina acquisì i diritti di proprietà sul castello di Bari, ma in regime di controversia non risolta in via definitiva per ‘difetto’ del regio assenso, dovendo per altro fronteggiare le pretese sul ducato di Charles de Lannoy, viceré di Napoli. Il castello di Bari fu così affidato da Bona a suoi delegati-amministratori e in questo ambiente Nenna avrebbe trovato le occasioni più significative del suo impegno di giurista e di letterato.
Nel 1528 soggiornava a Padova, frequentandovi lo Studio insieme col fratello Domenico per addottorarsi in Leggi, mentre gli eserciti della coalizione antimperiale entravano in Puglia. Nel 1530 probabilmente aveva già una presenza attiva negli ranghi della diplomazia sforzesca, visto che in quell’anno a Bologna fece parte della delegazione barese inviata da Bona alla cerimonia per l’incoronazione di Carlo V imperatore. Nel 1531 era ancora «legum scholaris» dello Studio padovano. Nel 1532 si addottorò in Leggi e nello stesso anno tenne una lectura delle Decretali per la schola prima di Diritto canonico.
Il soggiorno padovano fu di certo assai importante per sua la formazione: ebbe modo infatti di assimilare la filosofia della scuola pomponazziana, dalla quale, in linea con gli orientamenti di Pietro Bembo e di Sperone Speroni (docente di filosofia presso lo Studio dal 1523 al 1528), mutuò la convinzione della piena funzionalità del volgare nella comunicazione scientifica e una decisa avversione ai formalismi dell’insegnamento in latino. A formare il gusto della disputa sui grandi temi civili, che Nenna mise pienamente in valore nel Nennio, contribuì di certo il magistero filosofico e letterario di Speroni e in particolare il paradigma di una cultura incline ad abbandonare il linguaggio dogmatico delle verità dimostrative per scegliere la via di un discorso ‘civile’ basato sulla logica del probabile e del persuasivo, facendo appello alla forza comunicativa della parola dialogica e dei ‘ragionamenti’. La lezione che Nenna intese seguire nel dar forma al suo moderno gentiluomo e alla struttura ragionativa dell’intero dialogo fu quella del Cortegiano di Baldesar Castiglione, volendo in realtà interpretarne le istanze di socialità cortigiana e di protagonismo intellettuale commisurandole a un tempo già diverso da quello in cui erano maturati gli ideali della corte urbinate: all’eclissi dell’umanesimo cortigiano corrispondeva il rilancio di un’austera cultura dell’onore, che in realtà non aveva mai cessato di circolare nelle vene più profonde della società di corte. A un tale ordine di valori e comportamenti, destinato a puntellare ancora a lungo il primato della ricchezza e delle nobili origini come ideale di supremazia sociale del gentiluomo italiano, Nenna dedicò grande attenzione nelle pagine del Nennio: erano del resto valori, bisogni e conflitti che toccavano direttamente, oltre agli ideali, gli interessi e le aspettative di ceto dell’autore.
Nel 1533 un diploma imperiale lo dichiarò «cavaliere di Cesare», offrendo prova (come frutto della sua presenza negli ambienti della diplomazia di Bona) di un buon legame d’interessi con la duchessa-regina lontana. Nell’ambito della storia del diritto, la prima vera occasione di notorietà europea gli fu offerta dalla cura critica che dedicò a una nuova edizione del canone legislativo longobardico (Leges Longobardorum ..., Venezia, M. Sessa, 1537; con un’Introduzione di Nenna a pp. II-V, datata 19 ottobre 1536).
Le Leges erano uno strumento ancora in uso nell’ambiente forense del Regno di Napoli per alcuni campi del diritto civile, avendo avuto una notevole diffusione fra XIII e XV secolo. L’edizione conteneva anche l’antico commento del giurista beneventano Carlo di Tocco – commento divenuto ormai, fra ’200 e ’300, «glossa ordinaria» del corpus legislativo longobardico e «prima grande opera della giurisprudenza meridionale» (G. D’Amelio, Carlo di Tocco, in Dizionario biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 304-310) – oltre ai Capitulari di Carlo Magno, i Commentarii di Andrea Bonello da Barletta e le Annotationes di Nicolas Bohier, risalenti al 1512. Nenna giudicò l’edizione delle Leges bisognosa di limature e di un generale riordino per le sue numerose ripetizioni e, mantenendo la suddivisione in tre libri, già presente nella vulgata, provvide a eliminare le glosse superflue, ad abbreviarne alcune e a introdurne altre, creando un Repertorium alphabeticum dell’insieme.
Ma l’opera più importante di Nenna, aperta da una dedica e da un sonetto in lode di Bona Sforza, è Il Nennio (Venezia, A. Vavassore e fratello, 1542), edito nello stesso anno in cui, sempre a Venezia, si stamparono per la prima volta i Dialoghi di Speroni, la prima traduzione italiana dell’Enchiridion di Erasmo, il Gentil’huomo di Fausto da Longiano, l’Institutione di A. Piccolomini e il De nobilitate civili di Jéronimo Osorio: un anno cruciale, quindi, per il dibattito sui fondamenti etici delle nuove classi dirigenti ossia sulla ‘vera’ nobiltà.
Nell’ambiente meridionale il dialogo nenniano si presentò come il primo libro organico sulla nobiltà scritto in volgare: strumento idoneo dunque per una discussione più larga rispetto alle tradizionali forme della riflessione umanistica del Quattrocento e dei primi del Cinquecento. Nelle scelte ideologiche del Nennio rifluirono indubbiamente le imperiose necessità di una stagione dura e convulsa (le cosiddette ‘guerre d’Italia’, con l’appendice pugliese del conflitto franco-spagnolo, e l’epidemia di peste del 1528: eventi che fanno da sfondo al dialogo) e i conseguenti obblighi di una scelta di campo, imposta dalla perentoria internazionalizzazione dei conflitti fra le grandi potenze europee. L’opzione nettamente filospagnola espressa nel Nennio, oltre alla conferma di una formale adesione agli interessi sforzeschi, attestò una decisa presa di distanze dagli orientamenti della feudalità meridionale più retriva e anarchica, ma anche la sostanziale estraneità dell’autore a certo radicalismo di matrice borghese come quello di Antonio Galateo e del suo De nobilitate. Le idee di Nenna erano semmai più vicine a quelle di Ambrogio Leone (De nobilitate rerum dialogus, Venezia, M. Sessa e P. de Ravani, 1525) e di Francesco Elio Marchese (Liber de neapolitanis familiis, in C. Borrello, Vindex Neapolitanae Nobilitatis, Napoli 1653, ma composto probabilmente nei primi anni del Cinquecento), al di fuori però dei rigidi schemi a queste imposti dal costituzionalismo aristocratico: una direzione ideale e culturale di certo innovativa, lungo la quale Nenna si trovò in larga sintonia con un altro importante protagonista della vita culturale barese come Vincenzo Massilla, assertore nei suoi Commentarii (Padova, I. Fabriano, 1550) di una libertas di moderno conio, anima dinamica della civiltà urbana e leva dell’alleanza fra il patriziato degli affari (di origine non necessariamente nobile) e i doctores.
La complessa trama etico-filosofica del Nennio riceve nutrimento, oltre che da una corposa frequentazione dei classici latini e greci, da una lunga tradizione tre-quattrocentesca di scritti sul tema della vera nobiltà. Al tipo di cornice storica di questo vivace dialogo narrativo non sono estranei i modi retorici e le scelte strutturali degli Asolani di Bembo e del Cortegiano di Castiglione. Da quest’ultimo Nenna mutua le qualità di fondo del suo gentiluomo (la grazia, la parola faceta ecc.). Dal modello illustre della brigata del Decameron trae invece i caratteri scenografici e le funzioni attoriali della cornice: le tre giornate di dialogo trascorse da una brigata di giovani nella campagna barese sono anch’esse una brillante risposta in termini di recupero del senso creativo della vita alle funebri angustie della peste (una peste anch’essa storica). Su queste basi Nenna gioca a rifondere una materia altamente impegnativa come la questione etica e politico-legale della nobiltà (da interpretare in filigrana come un fitto confronto con la realtà sociale del ducato barese) nella retorica vivace e nella suggestiva ambientazione di una contesa appassionata. In essa la grande alternativa (uno schema che risale nelle sue linee essenziali al De nobilitate di Buonaccorso da Montemagno) è fra il carisma ‘naturale’ di un rampollo dell’aristocrazia barese (Possidonio), dotato di antichi natali e di grandi ricchezze (protagonista della prima giornata), e il valore individuale (eminentemente morale e antioligarchico) di un giovane letterato di origini non nobili (Fabrizio, protagonista della seconda giornata). Il vivo confronto traduce così la dialettica fra un’antica e ancora vigente egemonia dell’aristocrazia cittadina e una virtù borghese ancora povera di carisma, a Bari e nel Mezzogiorno, virtù di un ceto in timida ascesa, che punta su una ridefinita preminenza individuale, capace di dare qualità in termini di competenza culturale e professionale a una moderna classe dirigente. Nelle dense pagine della terza giornata Nenna provvede a chiarire, attraverso il suo alter ego, il giovane Nennio, giudice della contesa, il disegno d’integrazione e di sintesi che sottende la sua visione. Nel valore nuovo e centrale della «composta nobiltà» l’autore ingloba la sua complessa prospettiva di rigenerazione delle classi dirigenti, connessa all’emergenza del nuovo «gentiluomo», umanisticamente caratterizzato come un modello di nobiltà non più legato al vecchio primato ‘naturale’ delle origini e della ricchezza e indica invece nelle virtù intellettuali e morali la leva essenziale per il rilancio della stessa aristocrazia a condizione di una nuova e paritaria preminenza della «nobiltà civile», costituita dalle professioni intellettuali.
La prima edizione a stampa del Nennio fu giudicata assai insoddisfacente dall’autore, che ne curò una seconda (Venezia, A. Vavassore e Florio fratello, 1543), destinata a restare assai meno nota anche agli studiosi moderni più attenti, pur essendo di certo la più vicina alla volontà dell’autore. Nenna, infatti, introdusse, oltre a una serie imponente di varianti formali, non pochi emendamenti di sostanza. Ma le prove di un certo suo travaglio erano già nella postfazione inserita nella prima edizione, dove risuonava l’eco polemica di certi giudizi malevoli che avevano accompagnato la circolazione manoscritta del dialogo. Nel frattempo, a saturare il mercato italiano ed europeo aveva comunque provveduto la prima e scorretta edizione, rimasta così, contro la volontà dell’autore, quella universalmente più nota, come si evince dal censimento degli esemplari ancora oggi in circolazione (cfr. la Nota critica nell’ed. 2003, cit., pp. 193 s.), per non dire di quanti l’hanno considerata, fino a non molto tempo fa, l’unica esistente (per es., Donati, 1988, p. 66).
Il decennio 1543-53 è del tutto vuoto di notizie riguardanti Nenna. Nel giugno 1556 ebbe il figlio Pomponio, nato da Laura Violante, che aveva sposato in un anno non precisato. Da chi avesse avuto l’altro figlio, Orazio, del quale parlano le cronache, non si sa.
Morì entro il 1565: in quell’anno, infatti, la seconda moglie, Isabella Santacroce, si dichiarava già vedova.
Quel poco di notorietà che aveva segnato il suo percorso intellettuale e professionale nel terzo e quarto decennio del secolo, dopo la breve stagione compresa fra l’edizione delle Leges longobardorum e le due stampe del Nennio, in Italia sembrò perdersi del tutto. Una traccia postuma di quella notorietà porta semmai in Francia e in Inghilterra, ed è, in vero, di non poco conto. Una certa fortuna, per esempio, toccò alle Legeslongobardorum, che furono riedite a Lione nel 1562, per essere poi citate con una certa considerazione dagli eruditi e dagli storici del diritto di tutta Europa. Meritò una buona diffusione europea anche il Nennio, tradotto prima in Francia da Antoine Le Fèvre de la Boderie (Traicte de la noblesse, auquel il est amplement discovrv de la plus vraye & parfaite noblesse, & des qualitez requises au vray gentil-homme, Paris, Abel l’Angelier, 1583) sulla base della prima edizione italiana; poi in Inghilterra con ben due edizioni (Nennio, Or A Treatise of Nobility: Wherein is discoursed what trueNobilitie is, with such qualities as are required in a perfect Gentleman, London, P. Short, 1595; e A discourse whether a noble man by birth, or a gentleman by desert is greater in nobilitie, London, P. Short, 1600), entrambe nella traduzione in inglese di William Jones, eseguita sulla base della versione francese e arricchita, già nell’edizione 1595, da una collana di quattro sonetti scritti in lode di Nenna da Edmund Spencer, Samuel Daniel, George Chapman e Angel Day: segni, questi, di una notevole attenzione che il modello nenniano di gentiluomo riuscì a riscuotere in contesti socio-culturali (quello del vrai gentilhomme francese e del perfect gentleman inglese) piuttosto distanti dal clima dell’Italia ‘tridentina’. Dopo un silenzio di più di tre secoli, testimone di un certo risveglio d’interesse editoriale e critico verso Nenna fu l’edizione del Nennio nella traduzione inglese di William Jones, curata con un’introduzione da Alice Shalvi (Jerusalem-London 1967) e una piccola raccolta di passi scelti curata da chi scrive, nel 1994, per il volume antologico Puglia Neo-Latina, che fece da preludio alla citata edizione critica del 2003.
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