Niccolini, Giovan Battista
Scrittore (Bagni di San Giuliano, Pisa, 1782 - Firenze 1861). I suoi scritti danteschi, occasionali e accademici, si collegano da una parte alle discussioni intorno al problema della lingua sentito con nuova urgenza polemica nell'età del Risorgimento, dall'altra alle suggestioni esercitate dallo Schelling e dal Foscolo, che di D. avevano presentato un'immagine in cui si fondevano motivi umani e motivi artistici, la fantasia sovrana e la straordinaria ricchezza di pensiero. In polemica con il Perticari e con il Monti sono le Considerazioni intorno agli asserti di D. nel libro della Volgare Eloquenza (cfr. Opere, III, Firenze 1852, 137-167), che hanno il merito di avere mostrato come il Perticari forzasse spesso il significato di singoli passi, estraendoli dal contesto generale del libro dantesco. La tesi centrale del N. è che D. non possedesse i principi razionali a cui devono ispirarsi le regole della grammatica, perché questi principi sono affatto moderni, dovendosi la loro scoperta al Locke.
Il De vulg. Eloq. è un libro " indegno per certo della gravità e del giudizio del nostro massimo poeta " (Qual parte possa avere il popolo nella formazione d'una lingua, in Opere, cit., p. 113), un'opera " dettatagli dall'ira dell'esilio ", in cui per odio verso i concittadini si era sostenuto che il volgare illustre somigliasse più alla lingua di Bologna che a quella di Firenze. Questa tesi era già stata sostenuta dal Rosini in polemica con il Galeani Napione. Per il N. il volgare illustre è un'astrazione, una " proles sine matre creata "; e poiché le lingue degli scrittori non sono frutto d'invenzione, lo stesso D. non avrebbe potuto " immaginare con tanta evidenza, esprimersi con tanta proprietà, se in altra lingua egli avesse scritto che in quella ch'egli ebbe dai genitori e dall'uso " (ibid., p. 148). Traspare da queste proposizioni, e in genere da tutto il saggio, che il N. sovrapponeva un suo ideale militante di lingua nazionale, identificata con il fiorentino parlato, alle teorie dantesche non interpretate da lui storicamente. Nel complesso abbiamo piuttosto un documento delle polemiche linguistiche del secolo passato che un contributo all'intelligenza del trattato dantesco, letto, oltre tutto, nella traduzione cinquecentesca del Trissino.
La lezione tenuta nell'Accademia della Crusca il 14 settembre 1830 (Dell'Universalità e Nazionalità della D.C.; cfr. Opere, cit., pp. 237-260) tratteggia in primo luogo la fisionomia spirituale di D., animo capace di sentire e di esprimere poeticamente una ricca gamma di sentimenti, poeta d'amore e della rettitudine, non meno cittadino che poeta. Il discorso passa poi a caratterizzare l'arte e lo stile, le cui doti precipue sono la capacità di scoprire relazioni inaspettate fra le cose, di ornare e rendere affascinanti anche ardue verità scientifiche, di scegliere l'espressione propria, di dare alle parole l'ordine proprio dei classici. D. è paragonabile a Tacito e a Platone per la capacità di sintetizzare molti concetti in uno, di far dipendere molte e importanti questioni da un solo principio. Per quanto riguarda la Commedia come opera del tutto nuova rispetto alla poesia latina, la sua originalità come genere, il suo valore di messaggio storico-religioso, il N. ripete o idee foscoliane o schellinghiane. Dello Schelling procurò la traduzione del famoso scritto del 1790 Considerazioni' filosofiche sopra Dante.
Bibl. - A. Vannucci, Ricordi della vita e delle opere di G.B.N., Firenze 1886 (con ampia bibliogr.); R. Guastalla, La vita e le opere di G.B.N., Livorno 1917; A. Piromalli, G.B.N., in Letteratura Italiana. I minori, III, Milano 1961, 2327-2343.