POSSEVINO, Giovan Battista
POSSEVINO, Giovan Battista. – Fratello maggiore del più celebre Antonio e da non confondere con il nipote omonimo, Possevino nacque a Mantova nel 1520 da una famiglia di orefici.
Scarsamente documentata risulta la sua formazione culturale, benché, per via indiretta, è noto che sin da giovanissimo si distinse per acume e dottrina, tanto che Paolo Giovio parlò di lui in termini assai lusinghieri in una lettera a Bernardino Maffei del 14 settembre 1545: «Non so se conoscete literaliter M. Io. Batista Possevino, alias alunno del Card. Di Mantua da paggio, adesso in casa del Cardinale Cortese. Questo è un giovine di 25 anni, figliuolo della melancolia, e tanto dotto secondo il titolo di Cristo in Croce, che mi fa meravigliare; ed è un bravo poeta. Porta le maniche alla teatina» (in Lettere, a cura di G.G. Ferrero, II, 1958, p. 21). Dalla stessa lettera emerge l’interesse antiquario di Possevino, che compose uno scritto sul Toro Farnese, il complesso marmoreo di età ellenistica allora rinvenuto nelle Terme di Caracalla (ibid., pp. 20 s.). A testimonianza di questo rapporto di amicizia emergono anche un paio di componimenti latini di Possevino negli Elogia gioviani, destinati rispettivamente a Heinrich Cornelius Agrippa e Benedetto Giovio. È noto, inoltre, che avesse ottima conoscenza della lingua e della cultura ebraiche. A Roma Possevino si legò inizialmente al cardinale Gregorio Cortese; dopo la morte di questi nel 1548 divenne segretario del cardinale Ippolito d’Este il Giovane.
Nel 1547 fu sollecitato a comporre un’opera sul tema dell’onore e del duello da alcuni nobiluomini romani, opera condotta a termine «molti mesi innanzi che morisse», come risulta dalla dedicatoria al cardinale Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, e pubblicata postuma nel 1553 con il titolo di Dialogo dell’honore in un’edizione curata dal fratello Antonio Possevino, fregiata dei privilegi di stampa concessi all’editore Giolito da figure del calibro di papa Giulio III e Cosimo de’ Medici. Per il beneficio di quest’ultimo, accordato in data 29 marzo 1553, Lodovico Dolce interpellò, nelle vesti di intermediario del duca, Benedetto Varchi, al quale scrisse una lettera il 3 dicembre 1552 che, tra l’altro, evidenzia l’attesa circolante intorno all’uscita dell’opera posseviniana: «Ho dapoi inteso che ’l signor Giolito commise già alquanti giorni questo carico del privilegio al Torrentino, il quale ha la supplica. Se egli non ha spedita la cosa, vostra signoria si potrà far detta supplica e di più aggiungervi il Dialogo dell’Honore di messer Giovan Battista Possevini. Questa è stimata una delle dotte e leggiadre opere che siano uscite a questi dì e di presente si stampa» (Lettere a Benedetto Varchi, 2012, pp. 287 s.). Come si evince da un’altra missiva di Dolce del 13 maggio 1553 (ibid., pp. 289 s.), Varchi ricevette in dono dal Giolito una copia del Dialogo: «Stimo che con questa il signor Gabriello Giolito manderà a vostra signoria il Dialogo dell’Honore del Possevini e le mie Trasformationi».
Insieme al Duello di Girolamo Muzio o al Forno di Torquato Tasso, il Dialogo dell’honore è un testo capitale per la definizione e per la promozione della cultura nobiliare nella seconda metà del Cinquecento, soprattutto per quanto concerne le novità introdotte in materia cavalleresca. L’opera inscena una conversazione tra lo stesso Possevino e Giberto da Correggio incentrata sul tema dell’onore, ove il duello si presenta come lo strumento più rapido e opportuno per difenderlo e riacquistarlo. Estromettendolo dagli ambiti del diritto, da una dimensione giuridica, Possevino inseriva la singolar tenzone nella sfera del costume e della filosofia morale, giustificandone la legittimità sotto vari punti di vista; il duello è lecito come lo sono le guerre, serve a far rispettare la parola data e rappresenta un deterrente contro le facili ingiurie, evitando scontri più violenti, catene di vendette familiari o contese nobiliari più ampie (Dialogo dell’honore, cit., pp. 256 s.). L’onore dovrà pertanto essere recuperato attraverso il duello, poiché con esso il nobile può dimostrare il proprio valore, senza dover fare ricorso alle vie della giustizia civile. Significativo risulta l’innesto del concetto di nobiltà entro gli ambiti della morale, aspetto, questo, che verrà severamente osteggiato da Tasso – convinto, al contrario, che esso andasse incluso entro la sfera della virtù naturale – nel Forno overo della nobiltà.
All’indomani dell’uscita del Dialogo dell’honore, Possevino fu accusato di plagio ai danni di Antonio Bernardi della Mirandola, che a nove anni di distanza dalla princeps dell’opera, in una lettera ad Alessandro Farnese premessa alle sue Disputationes sulla Monomachia, quam singulare certamen Latini, recentiores Duellum vocant, lo incolpò di aver tradotto, conformandolo al genere dialogico, un proprio trattato in cinque libri dal titolo De honore. In verità, la calunnia iniziò a circolare ben prima, come si ricava da due passi che è possibile leggere rispettivamente nel Duello di Giovan Battista Pigna (Venezia 1554, p. 3) e nei Tre libri […], della ingiustitia del duello et di coloro che lo permettono di Giovan Battista Susio (Venezia 1555, p. 75). Sia Pigna sia Susio dovettero quindi prestare fede alle voci tempestivamente messe in circolazione dal filosofo emiliano all’indomani dell’uscita del Dialogo. Una dettagliata difesa della paternità posseviniana dell’opera giunse proprio dal suo curatore, Antonio Possevino, che nel 1556 pubblicò un opuscolo, oggi rarissimo (un esemplare è conservato alla Biblioteca nazionale di Roma, Duel.C.2.I.10.1), dal titolo Due discorsi di M. Antonio Possevini mantovano l’uno in difesa di M. Gio. Battista suo fratello dove si discorre intorno all’Honore et al Duello. L’altro in difesa del S. Gio. Battista Giraldi dove si trattano alcune cose per iscriver Tragedie. Il primo dei due discorsi fornisce un resoconto dettagliato della polemica sul plagio, puntando un fascio di luce verticale sul movente delle accuse di Bernardi, che, prima di indicare il fantomatico trattato in latino De honore quale testo plagiato, accusò Giovan Battista Possevino di aver rielaborato «alcune lettioni sopra l’Ethica di Aristotele» da lui pronunciate a Roma nel 1547 (c. 3v). Dalla versione dei fatti offerta da Antonio Possevino emerge invece un quadro alternativo a quello corrente, delineato con nitore e cura dei dettagli, da ritenere per buona parte attendibile grazie alla citazione esplicita dei personaggi via via coinvolti personalmente nella polemica, entro cui risalta il nome del cardinale Alessandro Farnese, il quale, per dirimere la lite, elesse giudice Bernardino Maffei, autore di una fede edita in coda al Discorso che, attribuendo integralmente l’opera al Possevino, ne autorizzava la pubblicazione a dispetto delle campagne denigratorie del mirandolano: «non si può né si dee a niun modo impedir la stampa, per essere come ho detto questa cosa nuova e del Possevino (c. 39v).
Dell’esile esperienza poetica in volgare di Possevino resta traccia nella celebre silloge allestita da Dionigi Atanagi dal titolo De le rime di diversi nobili poeti toscani (Venezia 1565), che alle cc. 194v-195v del libro secondo accoglie la canzone posseviniana Donna del terzo ciel, figlia di Giove; si tratta di versi che, quantunque marcati dall’eco dantesca dell’incipit, propongono in modo pedestre il canonico repertorio petrarchistico, qui adattato alla descrizione del dolore amoroso, per cui si rende necessaria l’invocazione di Venere, la «santa dea», affinché sciolga l’amante dal «crudo duol», rappresentato attraverso immagini e ossimori usuali: «Che ’n fiamme avvolgi il cor di ghiaccio armato / del mio infelice stato» (c. 194v).
Sul fronte dei rapporti intellettuali, mentre dal Discorso di Antonio Possevino veniamo a sapere che ebbe contatti frequenti e costanti con Rinaldo Corso (c. 6r), suo consulente durante le fasi di stesura del Dialogo, dalla silloge di Lettere di diversi autori raccolte da Venturino Ruffinelli (Mantova 1547) affiora una lettera del mantovano Giovan Francesco Arrivabene a Possevino dalla quale è possibile ricavare la notizia di una sodalitas tra i due concittadini maturata sin dall’adolescenza, in anni di studio e formazione culturale condotti a stretto contatto: «ricordatevi tutta via ch’io son anchora quel vostro amico ch’io vi fui et divenni da che la nostra fanciullezza, allevata insieme et ne’ primi studi entrodutta, andò sempre incarnando in quell’amore nel qual infin ad hora fiorisce» (c. XLIVr).
Morì nel 1549 a soli ventinove anni.
Fonti e Bibl.: Delle lettere di diversi autori, Mantova 1547, ad ind.; P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, Roma 1958, ad ind.; F. Erspamer, La biblioteca di don Ferrante. Duello e onore nella cultura del Cinquecento, Roma 1982, pp. 105-110; S. Prandi, Il «cortegiano» ferrarese. I Discorsi di Annibale Romei e la cultura nobiliare nel Cinquecento, Firenze 1990, ad ind.; T. Tasso, Il Forno overo della nobiltà. Il Forno secondo overo della nobiltà, edizione secondo l’antica tradizione a stampa, a cura di S. Prandi, Firenze 1999, ad ind.; P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, traduzione di A. Guasparri - F. Minonzio, prefazione di M. Mari, nota alle illustrazioni di L. Bianco, Torino 2006, pp. 295 e 310; Antonio Bernardi della Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese, Atti del Convegno Antonio Bernardi nel V centenario della nascita (Mirandola... 2002), a cura di M. Forlivesi, Firenze 2009, ad ind. (per quanto riguarda la questione dell’attribuzione del Dialogo dell’honore in particolare U. Casari, Antonio Bernardi nel giudizio storiografico di Girolamo Tiraboschi, pp. 169-181); Lettere a Benedetto Varchi (1530-1563), a cura di V. Bramanti, Manziana 2012, ad indicem.