RAVASCHIERI, Giovan Battista
RAVASCHIERI, Giovan Battista. – Di nobile famiglia del Levante ligure, nacque in luogo e data ignoti. Era figlio di una donna «nata in Napoli» (Silvestri, 1951b; Musi, 1991) e di Germano, banchiere operante a Napoli almeno dal 1509 e fondatore, nel 1523, di un potente cartello finanziario con il genovese Cosimo Pinelli. Assicurando alla famiglia un forte radicamento nel tessuto socioeconomico del Viceregno, Germano aveva ottenuto nel 1520 la cittadinanza napoletana e, in quello stesso torno di anni, la baronia calabrese di Girifalco, che avrebbe trasmesso all’altro figlio, Giovanni Geronimo.
Alla morte del padre, nel 1529, Giovan Battista prese in mano la società con Pinelli, coadiuvato da numerosi fratelli. Gli alberi genealogici della famiglia ne indicano soltanto tre: il citato Giovanni Geronimo, Giovanni Francesco e Giovanni Antonio. Tra le carte del banco, figurano anche i nomi di Bernardo, Catanio, Costanzo e Leonardo.
La società seguiva un modello collaudato e piuttosto comune, accompagnando l’attività finanziaria con il commercio, specie della seta e del grano; e in questo campo gli eredi di Germano seppero stringere accordi con altri uomini d’affari operanti nel Viceregno. Quanto agli affari del banco, la società effettuava negoziazioni di cambio, depositi monetari, giroconti e naturalmente prestiti sia a istituzioni pubbliche, sia a privati: un intreccio di interessi altrettanto comune nelle iniziative di quegli uomini d’affari. Caso esemplare di queste connessioni fu il prestito di 12.000 ducati al 10% d’interesse concesso a Marcantonio Del Carretto nel gennaio del 1541: operazione disposta dal viceré don Pedro di Toledo, dietro ordine di Carlo V.
In quello stesso 1541 Ravaschieri sposò Giulia Doria, nipote ex fratre di Antonio Doria. Sulla sua prole non vi sono dati affidabili; ma un figlio maschio, destinato a seguire le orme paterne, prese il nome del nonno Germano. Lo sposalizio, avvenuto per procura a Genova, portava in dote ottime garanzie di accesso al sistema di poteri gravitante attorno a Carlo V.
Sebbene in rapporti turbolenti con il lontano e più celebre cugino, l’ammiraglio Andrea, Antonio Doria ne aveva seguito le orme, passando dal campo francese a quello di Carlo V. E, divenuto tra i più importanti ‘assentisti’ genovesi al servizio dell’imperatore, egli era tenuto in gran conto presso le autorità spagnole che, proprio negli anni dello sposalizio della nipote Giulia, lo introdussero nel Consiglio collaterale di Napoli.
Ravaschieri colse un primo importante risultato di queste sinergie parentali assumendo la gestione della Dogana delle pecore di Puglia: ufficio sul quale Antonio Doria aveva ottenuto nel 1540 una concessione di 2000 ducati. Doria era anche una preziosa pedina per le attività commerciali, perché disponeva di una flotta da tempo impegnata nella navigazione di condotta nel Mediterraneo. E, per contro, Ravaschieri si sarebbe segnalato come procuratore di Doria e di altri suoi congiunti nella gestione di diversi affari nel Viceregno.
La sua ascesa culminò tra il 1548 e il 1549 con le nomine di maestro delle Zecche di Napoli e dell’Aquila, quest’ultima soppressa in seguito. L’importante incarico, mantenuto sino alla morte, ebbe il sostegno delle finanze della famiglia, perché Ravaschieri lo ottenne versando 10.000 scudi a monsignor di Granvelle, che aveva la proprietà di quegli uffici per concessione di Carlo V. L’operazione provocò un’inchiesta per corruzione, forse legata alle vicende giudiziarie del precedente maestro, Luigi Ram. Rimosso e incarcerato nel 1542 con l’accusa di appropriazione indebita, Ram era stato sottoposto a un processo durato quattro anni, nel quale era emerso che la sua malversazione era servita a saldare certi suoi debiti con il banco Pinelli-Ravaschieri. Subodorando, forse, dietro quelle vicende una spregiudicata manovra dei Ravaschieri, l’allora ‘visitatore’ spagnolo avviò l’inchiesta su Giovan Battista che, però, si difese abilmente affermando che la compravendita aveva avuto il placet di Carlo V. Secondo un’affermata consuetudine, Ravaschieri iniziò a imprimere sulle monete che andava coniando le sue iniziali, IBR, cioè «Iohannes Baptista Ravaschiero». La sua produzione coprì gran parte della monetazione coniata sotto Carlo V e Filippo II, e fu contrassegnata da un’elevata precisione tecnica, superiore alle precedenti e anche alla media dell’epoca. Inoltre, fu proprio durante la sua gestione che la Zecca napoletana iniziò a coniare il primo ducato d’argento, del valore di 10 carlini.
Nel contempo il banco di famiglia andò invece incontro al dissesto. La pluridecennale società con Pinelli si sciolse nel 1550, poco dopo che Ravaschieri era divenuto maestro di Zecca. Due anni più tardi, i Ravaschieri dichiararono fallimento: una bancarotta che sembra ascrivibile proprio alla visibilità raggiunta da Giovan Battista e ai suoi rapporti con il potere politico.
A quanto pare, la causò infatti un prestito forzoso di 200.000 ducati ordinato dal viceré don Pedro di Toledo nella primavera del 1552, per prezzolare il rais turco Dragut. Il crack provocò un giro di vite legislativo, una prammatica III «de Nummulariis» del 17 luglio 1553 che vincolò l’apertura di nuovi banchi a una ‘pleggeria’ – una malleveria – di 100.000 ducati e finì per acuire la dipendenza dei Ravaschieri dal potere politico. Consapevoli dell’importanza di quel banco, le autorità spagnole si affrettarono a costituire una commissione deputata a rivederne i conti, sanarne i sospesi creditizi e risollevarne le sorti.
Già nel 1554 il banco poté ricostituirsi ma, condizionato dal debito di riconoscenza recentemente contratto, Ravaschieri dovette impegnarlo in massicci investimenti pubblici. Tra il 1557 e il 1563 i titoli di Stato detenuti dal banco passarono da poco più di 6000 a 60.000 ducati. E, sempre nel quadro dei legami con le autorità politiche, Ravaschieri venne chiamato a far fronte alle emergenze annonarie che colpirono Napoli, importandovi granaglie con una sua imbarcazione detta Squarciabocca.
Seppe tuttavia farsi ripagare. Nel 1557, gli fu affidata la gestione dell’«Impositione del Lagno», un’imposta per lavori di bonifica che Ravaschieri aveva già amministrato, almeno nel 1541 e nel 1553. Sempre nel 1557, acquistando 3300 tomoli di grano per l’Annona napoletana, assicurò al figlio Germano il diritto di succedergli nella carica di maestro di Zecca. Due anni più tardi si vide affidare anche la cassa dell’imposta per le regie strade e, ben riassestati, i Ravaschieri ripresero a operare proficuamente e in maniera congiunta, tanto che nel 1565, insieme al fratello Giovanni Francesco, Ravaschieri ottenne una rendita sul feudo pugliese di Salpi. Questa nuova ascesa ebbe tuttavia il contrappeso di nuove inchieste sull’operato di Ravaschieri e della sua società finanziaria. Nel 1566, un’indagine della Camera della Sommaria evidenziò che il banco provvedeva soltanto parzialmente a far pesare le monete che vi transitavano, contravvenendo a recenti disposizioni. Quanto a Ravaschieri, un’accusa di illeciti guadagni gli causò un processo dal quale uscì indenne proprio negli ultimi mesi della sua vita.
Morì a Napoli nel novembre del 1567, lasciando al figlio la conduzione del banco e, come previsto, l’ufficio di maestro della Zecca.
Fonti e Bibl.: Alberi genealogici e informazioni sulla casata in Chiavari, Società Economica, Archivio Rivarola, b. 95; Archivio di Stato di Genova, mss., 495; Napoli, Biblioteca nazionale, Notizie di famiglie, mss., X.A.7, c. 63. L’atto di matrimonio tra Ravaschieri e Giulia Doria e le procure ricevute da diversi esponenti della casata Doria sono in Archivio di Stato di Genova, Notai antichi, 1742, 1841, 1847, 1849. L’attività del banco di Germano Ravaschieri è attestata in Archivio di Stato di Napoli, Banchieri antichi, 1. Vastissima è la documentazione riguardante i movimenti finanziari e commerciali di Giovan Battista e della società Ravaschieri-Pinelli: Archivio di Stato di Napoli, Regia camera della Sommaria, Segreteria, Partium, voll. 102, 112, 213, 215, 310, 311, 316, 318, 323, 325, 327, 346, 347, 351, 356, 367, 368, 470; Dipendenze della Sommaria, Zecca antica, f. 1. Molto importanti sono anche i documenti prodotti dai ‘visitatori’ spagnoli in Archivo general de Simancas, Visitas de Italia, legg. 2, 16, 20/8, 22, 23/3, 345/5.
A. Bulifon, Giornali di Napoli dal 1547 al 1706, Napoli 1932, pp. 19 s.; G. Coniglio, Il regno di Napoli al tempo di Carlo V, Napoli 1951, pp. 106-138; A. Silvestri, Sui banchieri pubblici napoletani dall’avvento di Filippo II al trono alla costituzione del monopolio, Napoli 1951a, pp. 3-12; Id., Sui banchieri pubblici napoletani nella prima metà del Cinquecento. Notizie e documenti, Napoli 1951b, pp. 23-27; R. Colapietra, I genovesi a Napoli nel primo Cinquecento, in Storia e politica, VII (1968), 3, pp. 386-419; R. Mantelli, Burocrazia e finanze pubbliche nel Regno di Napoli a metà del Cinquecento, Napoli 1981, pp. 103-134; R. Colapietra, Genovesi in Puglia nel Cinque e Seicento, in Archivio storico pugliese, XXXV (1982), pp. 21-71; A. Calabria, Finanzieri genovesi nel regno di Napoli nel Cinquecento, in Rivista storica italiana, CI (1989), 3, pp. 578-613; A. Musi, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo stato moderno, Napoli 1991, p. 142 e passim; Id., Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996; G. Brancaccio, Nazione genovese: consoli e colonia nella Napoli moderna, Napoli 2001, pp. 35-71; V. Borghesi, Doria Antonio, in Dizionario biografico dei liguri, VI, Genova 2007, pp. 454-466; I Ravaschieri: storia e dimore di una famiglia signorile tra Chiavari, Genova e Napoli, Genova 2009, pp. 84 s.; V. Naymo, Stati feudali e baronie nella Calabria di età moderna: politiche amministrative, istituzionali e di prestigio, in Collezionismo e politica culturale nella Calabria vicereale borbonica e postunitaria, Reggio Calabria 2012, pp. 47-75.