DORIA, Giovan Francesco
Duca di Massanova, nacque a Genova il 16 genn. 1703, unico maschio di Giuseppe Maria di Ignazio e di Giovannetta Pinelli, e venne ascritto alla nobiltà genovese il 25 genn. 1724.
Esigua la presenza nelle cariche di governo (fu tra gli otto procuratori biennali - cioè tra i componenti la Camera - nel 1746-47: gli anni dell'insurrezione antiaustriaca di cui fu lo storico ufficiale) e privilegiati invece gli interessi storico-culturali, coltivati anch'essi con quel misto di conservatorismo e filantropia così tipico della classe dirigente della vecchia Repubblica.
Si ignora dove il D. abbia compiuto i suoi ottimi studi, se in qualche collegio genovese o a Pisa (vicina al feudo familiare, di cui fu erede e presso il quale trascorse lunghi periodi durante tutto l'arco della vita) o, ancora, a Modena, presso quel collegio dei nobili dove avrebbe poi mandato i due figli tra il 1745 e il 1749. Del resto proprio a Modena, all'Archivio Muratoriano, sono conservate le lettere inviate dal D. a Ludovico Antonio Muratori, anche se il rapporto di assoluta fiducia nei confronti del Muratori sembra nato piuttosto dai comuni interessi in età matura che da antichi legami didattico-affettivi.
Al Muratori infatti il D. si rivolse per affidargli la revisione e la stampa della sua opera storica. La composizione, intitolata poi Della storia di Genova dal trattato di Worms alla pace di Aquisgrana, venne affidata al D. dal governo della Repubblica con due deliberazioni: la prima, del 16 ott. 1747, in cui si specifica la richiesta di scriverla avanzata dal D., allora procuratore della Repubblica e recente estensore di una Relazione sullo stato della nobiltà, e la seconda, del 24 successivo, sempre dietro richiesta del D., che gli consentiva l'accesso a tutti i documenti riservati. La tempestiva delibera dei Collegi sembra sia stata favorita da una lettera allegata, che, inviata da Firenze in data 11 ott. 1747, segnalava la diffusione in terra tedesca di opuscoli alteranti, in senso pregiudizievole per Genova, le vicende del 1746-47, e l'opportunità di opporvi al più presto una "veridica istoria", prima della conclusione della pace. Le vicende, culminate nell'insurrezione popolare del 5 dic. 1746, erano certo scottanti, e per le clamorose conseguenze in politica estera e per le non meno temute implicazioni in politica interna: nell'affidare al D. il sollecitato incarico di storico ufficiale di quegli eventi ancora aperti, i Collegi dovevano essere ben certi della sua moderazione e forse anche di una sua docilità: docilità che fu forse inferiore alle previsioni dei committenti, o di parte di essi. E una reazione intimidatoria spiegherebbe in effetti il giorno di carcere, fatto scontare al D. nelle prigioni della Torre, il 10 genn. 1748, a causa di un episodio altrimenti insignificante per un nobile (un violento diverbio tra il suo maggiordomo e alcuni gabellieri di S. Giorgio). Umiliato e offeso, nonostante la prontissima scarcerazione, il D. chiedeva, il 19 genn. 1748, il permesso di lasciare il territorio della Repubblica: accordato dai Collegi, il permesso era revocato istantaneamente dai conservatori delle Leggi, che segnalavano l'appena avvenuta elezione del D. tra i sindicatori della Riviera di Levante. Nella stupefacente rapidità di così contraddittorie deliberazioni, il D. rinunziava per il momento all'espatrio e al sindicato, e tornava all'opera storica (ancora nel luglio una sua richiesta di consultazione di documenti dell'Archivio segreto), che venne compiuta entro la fine del 1748.
All'inizio dell'anno successivo il D. otteneva di potersi trasferire a Pisa, adducendo motivi di salute della moglie; non risulta che i Collegi avessero visionato l'opera, almeno ufficialmente. Di certo, il 31 marzo 1749 il D. scriveva al Muratori perché visionasse l'opera (il cui manoscritto gli fece recapitare da Pisa, attraverso corriere di fiducia) e la facesse stampare, anonima e senza specificazione di luogo, dal tipografo Bartolomeo Soliani. In seguito a difficoltà nel reperimento del tipo di carta desiderato dal D., fu il Muratori a consigliare due edizioni, una prima di 500 esemplari con la carta avanzata dalla seconda edizione delle sue Antichità estensi e una seconda di 1.000. Tra l'agosto e il novembre 1749 la prima edizione era compiuta, con il titolo Della storia di Genova negli anni 1745-1746-1747 libri tre e la data 1748, senza indicazione del luogo di edizione. Per la seconda edizione, inizialmente prevista uniforme alla prima, il D. pensò poi al prolungamento fino al 1749, che probabilmente compose all'inizio del 1750, quando anche la seconda edizione era già in corso di stampa e gli veniva meno la consulenza del Muratori, morto il 23 gennaio. La seconda edizione reca il nuovo titolo, quello definitivo, Della storia di Genova dal trattato di Worms fino alla pace di Aquisgrana libri 4, la data 1750 e la fittizia indicazione di Leida. Proprio l'anonimato favorì poi la errata attribuzione a un altro Doria, il Francesco Maria inviato a Parigi nel 1743, all'epoca del trattato di Worms, e poi plenipotenziario ad Aquisgrana nel 1749. Fu merito di Marcello Staglieno aver corretto l'errore nel 1862: errore nel quale erano incorsi, tra gli altri, sia F. M. Accinelli (in Compendio della storia di Genova, Lipsia 1750, I, p. XXII) sia G. B. Spotorno (in Storia letteraria della Liguria, V, Genova 1858, p. 44).
Dall'opera del D., che ha il merito di uno stile poco elegante ma chiaro e senza eccessive indulgenze retoriche, emerge l'atteggiamento del nobile che, pur rivendicandosi verità e obiettività di testimone diretto, ritiene doverosi "i dovuti riguardi" (sono parole sue, in una lettera al Muratori) nei confronti e dei potenti alleati e dei colleghi di governo. Perciò la storia del D., cronaca minuziosissima, e apparentemente oggettiva, delle premesse diplomatiche, militari, internazionali e degli eventi succedutisi in città, nelle Riviere e in tutto il territorio della Repubblica e in Corsica tra il 1745 e il 1748, finisce col passare sotto silenzio e gli errori degli alleati franco-ispani in Lombardia, e il loro ingiustificato abbandono di Genova alla vendetta delle truppe imperiali di A. Botta Adorno, e il contegno dei Francesi in Corsica; così come elude qualsiasi giudizio politico sull'ambiguo comportamento del patriziato nei confronti della rivolta popolare. E se il silenzio del D. sul famoso episodio del Balilla che, il 5 dic. 1746, avrebbe dato inizio alla sollevazione popolare (Balilla tanto caro all'agiografia locale, specie in anni politicamente sospetti), può essere attribuito a serietà di indagine, certo non trova uno spazio esplicito neppure il ben più importante problema della partecipazione nobiliare all'insurrezione. Nelle cautele del D., preoccupato di voler dimostrare che il governo aristocratico, fino all'ultimo fedele alla tregua sottoscritta con il Botta Adorno il 6 sett. 1746, si era trovato come costretto ad assumere la direzione dell'azione popolare per evitare una guerra civile, è fin troppo evidente la prospettiva di utilizzo dell'opera in sede politico-diplomatica. Ma della primitiva intenzione, certo comune ai Collegi e al D. (che forse sperava anche in un incarico in sede di definizione di pace, come poi l'attribuzione dell'opera all'altro Doria plenipotenziario ad Aquisgrana potrebbe suggerire), probabilmente si perse l'attuazione, e il D. continuò per suo conto. Ripromettendosi, tuttavia, come risulta dalla interessantissima lettera a Muratori del 31 marzo 1749, di conservare memoria dei retroscena internazionali, che non aveva potuto manifestare nell'opera ufficiale, in un manoscritto che aveva parallelamente composto per i figli e per i posteri più lontani. Ma anche il manoscritto, che fu poi identificato nel 1950 da V. Vitale, intitolato "Del modo di rimediare ad alcuni principali disordini nel governo della repubblica di Genova e di rendere felice e perpetuo internamente ed esternamente il dominio di essa, trattato di Nifrano Cegasdarico" (anagramma del D.), datato 1750, non apporta le annunciate rivelazioni, a parte un giudizio più esplicitamente severo nei confronti della Spagna, accusata di aver attratto Genova nella propria alleanza per poi abbandonarla cinicamente nel momento del pericolo.
Anche quegli accenni che paiono al Vitale ispirati a una non più dissimulata simpatia per il moto insurrezionale e per la sua brillante evoluzione sono in fondo espressioni abbastanza stereotipate ("incredibile coraggio dei nostri popoli"; "ci riuscì di liberarcì dalla oppressione e di recuperare la nostra libertà") in cui, se mai, si attutisce, nell'ambigua comune assunzione di merito di nobiltà e di forze popolari, proprio il riconoscimento del ruolo determinante di quelle forze popolari e dei loro capi, giustamente sospettosi del doppiogiochismo del gruppo dirigente finanziario-nobiliare.
Anche nella scrittura privata, perciò, il D. esprime con onesto candore la sua mentalità patriottico-conservatrice, i limiti di un moralismo vecchia maniera che, per quanto deprecasse la decadenza della Repubblica, non sapeva aprirsi a nuove logiche di governo. E infatti questa scrittura privata riecheggia quanto emerge in modo ancora più netto dalla Relazione sulle cause della decadenza della nobiltà a Genova, che il D. aveva composto nel 1747 per incarico del Minor Consiglio. E se può sembrare indizio di sensibilità politica che, proprio in piena guerra e con tutte le tensioni sociali aperte dall'insurrezione popolare, il Minor Consiglio deliberasse un'indagine per capire i difetti del sistema, la diagnosi del D. è davvero deludente. La contrazione demografica dell'aristocrazia, il disinteresse nei confronti delle cariche politiche, l'impoverimento di casati illustri sono fatti derivare da cause banali: estensione del celibato tra i nobili e matrimoni tardivi; violazione di vincoli sanciti dalle leggi suntuarie, specie in occasione di matrimoni e monacazioni; lusso disdicevole nei conventi, doti eccessive, sperperi nei banchetti, insana diffusione del biribis e dei giochi d'azzardo in genere. Ancora più risibili i rimedi proposti dal D. con minuzia a tratti persino involontariamente grottesca (dal far vestire le spose di nero dal giorno successivo alle nozze al limitare gli inviti al banchetto ai soli cugini carnali). E se pure accenna, tra le cause di decadenza, ai fedecommessi e ai maggiorascati, il D. non solo non avverte minimamente il problema di una sproporzionata distribuzione della ricchezza, ma neppure la possibilità di un inserimento illuminato della piccola nobiltà e del medio ceto nelle cariche di governo e nelle magistrature più redditizie. Addirittura dalla Relazione si ricava l'impressione, come sottolinea anche il Giacchero (p. 140), che per il D. non solo "il governo della Repubblica appartenesse per diritto naturale ai nobili, come del resto era consuetudine, ma che per nobili dovessero intendersi, in senso restrittivo, solo quelli compresi nella breve cerchia delle famiglie magnatizie". E quanto questa relazione del D., modellata senza alcuna originalità su almeno un secolo di leggi suntuarie, rispecchiasse il punto di vista dominante, è dimostrato non solo dai continui richiami che ad essa fanno, ancora per altro mezzo secolo, i vari Durazzo, Pallavicini, Imperiale, Spinola, Brignole, e via dicendo, nelle sedute di governo, ma sopra tutto dalle prammatiche, approvate nel 1771 e nel 1781 dopo anni di dibattiti, riproducenti punto per punto i "rimedi" a suo tempo indicati dal D., ed egualmente chiuse a qualsiasi accenno di autentico riformismo.
Incerta resta anche l'autentica motivazione politica di un'altra importante iniziativa del D.: la fondazione, nel 1751, della Accademia ligustica di belle arti. Benché destinata a restare nella storia cittadina come il segno inequivocabile delle nuove aperture riformiste cui l'aristocrazia genovese non sarebbe rimasta estranea nel secolo dei lumi, sembra, almeno all'inizio, ricalcare piuttosto il tradizionale paternalismo, intelligente e politicamente efficace in funzione autoconservativa e autocelebrativa, della vecchia classe dirigente (quello, per citare i due esempi più qualificanti, che aveva presieduto nei secoli precedenti alla fondazione dell'ospedale di Pammatone e dell'Albergo dei poveri).
La prima sede dell'Accademia, nata come studio di pittura e di scultura del nudo, fu offerta dal D. e da altri membri della famiglia Doria nella loggia della loro chiesa gentilizia, S. Matteo; ma si ignora se al D. vada il merito dell'ampliarsi dell'iniziativa, sia in termini d! bilancio e di sede sia di didattica (con scuola di architettura civile, militare e nautica: in cui sembra finalmente alitare qualche esigenza riformista).
Il D. morì il 12 maggio 1752, presumibilmente a Genova. Nell'attuale sede dell'Accademia si conserva di lui una mezza figura in marmo, opera di Bernardo Mantero, con iscrizione che lo definisce "primus bonarum artium studiosis de Lyceo condendo legibusque servandis auctor".
Dal matrimonio con Eleonora Tanari di Bologna ebbe due figli che gli sopravvissero (un terzo era morto nel 1749), Giuseppe Maria, l'ultimo doge biennale di Genova, nel 1795-96, e Giovanni Nicolo, nato il 28 giugno 1732. Questi, capitano di due navi da guerra spedite nel 1760 in Corsica per impedire l'accesso al visitatore apostolico, morì in naufragio con l'equipaggio di 70 uomini il 19 marzo. E con i figli del D., entrambi senza prole, si chiude questo ramo dei Doria, duchi di Massanova.
Fonti e Bibl.: G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, pp. 30, 472; M. Staglieno, Memorie e documenti sull'Accademia ligustica di belle arti, Genova 1862, p.22; Id., Lo storico G. F. D. e le sue relazioni con Muratori, in Giorn. ligustico, XI (1884), pp. 401-415; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, II, Genova 1913, p. 377; V. Vitale, Lo storico G. F. D. e l'odiosa capitolazione del 1746, in Boll. ligustico, II (1950), 2, pp. 33-41; G. Giacchero, Storia economica del Settecento genovese, Genova 1951, pp. 138-143; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, I, Genova 1955, pp. 396, 430 ss., 435, 438; II, pp. 153, 178; Il "Liber nobilitatis Genuensis", a cura di G. Guelfi. Camajani, Firenze 1965, p. 169; L. Bulferetti-C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell'età del Risorgimento (1700-1861), Genova 1966, p. 16; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1969, ad Indicem.