GAMBARA, Giovan Francesco (Francesco)
, Giovan Francesco (Francesco). - Nacque a Monticelli d’Ongina, nel Piacentino, il 21 dic. 1771 dal conte Alemanno, bresciano, e da Marianna Carbonara di Genova, quartogenito dopo due fratelli e una sorella a lui premorti. Il padre, fervido sostenitore dell’autonomismo bresciano da Venezia, viveva in esilio nel Ducato. Il G. fu educato a Parma presso il collegio dei nobili, ove rimase fino al 1789.
Avverso anch’egli al dominio della Repubblica di Venezia su Brescia, condivise fin dall’inizio con altri coetanei aristocratici i principi della Rivoluzione francese, validi, oltre che per le istanze democratiche, anche come formula antiveneziana. Nel 1792, a Brescia, fu eletto presidente del Casino dei buoni amici, associazione sospettata dagli inquisitori di Stato di giacobinismo. Nel 1794 fu coinvolto in un processo istruito contro un gruppo di nobili filofrancesi e venne punito dal tribunale veneto con un confino di otto mesi nel suo feudo bresciano di Pralboino.
Quando le armate francesi di Napoleone Bonaparte nel maggio del 1796 giunsero a Brescia, il G., nonostante i recenti ammonimenti, fu tra i primi a entrare in relazione con i capi dell’armata. In quel periodo il G. venne organizzando la rivolta bresciana contro Venezia che, ben vista dai Francesi, sarebbe scoppiata l’anno seguente: per le attività cospirative fu denunciato al governo veneziano con altri capi della congiura, fra cui G. Lechi, ritenuto insieme con il G. il capo più sospetto del movimento sovversivo.
Il 18 marzo 1797, esplosi i moti rivoluzionari bresciani, il G. fu tra i rivoltosi. Il 19 marzo fu nominato generale di fanteria, ma fu sostituito l’11 maggio dal Lechi, rimanendo capo di stato maggiore e aiutante generale della legione bresciana. La sommossa si estese al Benaco e alle valli: il G., ricevuto l’ordine di assaltare Salò, vi irruppe capeggiando un corpo volontario e fece prigioniero il governatore veneziano A. Condulmer che il 26 marzo condusse con sé a Brescia. Il 29 marzo, con il riarmo degli abitanti di Salò, fedeli al governo veneziano, il G. fu colà inviato in aiuto del generale G. Fantuzzi: i Salodiani sarebbero stati facilmente domati, ma per l’improvviso intervento degli uomini della Valsabbia, i Bresciani, presi alle spalle, furono sconfitti il 30 marzo. Il G. venne fatto prigioniero e tradotto prima a Verona e poi, l’8 aprile, nelle carceri veneziane del castello di S. Andrea al lido, ove fu condannato a morte. Tornate la Valsabbia e la Riviera di Salò sotto la giurisdizione bresciana, il Direttorio, tramite Bonaparte, chiese e ottenne che il G. fosse liberato il 24 apr. 1797. Egli dette testimonianza di questi avvenimenti nella sua Relazione del fatto di Benaco (Brescia 1797). Sul periodico bresciano Giornale democratico (1797, n. 9), apparve, quasi certamente per mano del G., la Risposta di un anonimo bresciano, in cui veniva ribadito il desiderio di unione con tutti gli Italiani, fatta eccezione per i Veneziani.
Successivamente collaborò alla formazione della milizia cittadina bresciana, nerbo dell’esercito della Repubblica Cisalpina, affiancando il Lechi che ne fu comandante e fondatore.
Dopo il trattato di Campoformio, riunita Brescia alla Repubblica Cisalpina, il G. fu eletto commissario politico e militare della Valsabbia (1798) e collaborò con le truppe cisalpine a reprimere il brigantaggio nelle valli: in quest’occasione fu rivalutato dai Valsabbini, tanto da poter smentire, nella sua autobiografia, le affermazioni di C. Botta che, nella Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (X, Parigi 1824, p. 242), lo ritenne coinvolto nei saccheggi del Bresciano.
Sempre come commissario politico e militare, nel marzo 1799 difese le valli dalle minacce tirolesi ai passi di Lodrone e Riccomassimo. Rimase al suo posto anche durante l’invasione austro-russa del ’99 e, dopo aver combattuto agli ordini del generale B.L.J. Scherer, che fu battuto a Magnano, si rifugiò a Peschiera dove venne fatto prigioniero. Rimesso in libertà, si recò in Francia da esule e si arruolò nella legione italica dei «rifuggiti» lombardi formata da Napoleone: ottenne l’incarico di ufficiale di stato maggiore del generale P. Grenier, con il quale combatté nell’infausta campagna piemontese. Quando Grenier passò all’armata del Reno, il G. preferì rimanere nell’esercito d’Italia. Nel 1801 il generale G.M. Brune - ai cui ordini aveva combattuto come capo di brigata allo stato maggiore - voleva condurlo con sé nella sua ambasciata a Costantinopoli, ma una malattia costrinse il G. a rimanere in patria.
Nel 1801, ricoprendo ancora la sua carica militare, ebbe il compito di formare il corpo dei bersaglieri bresciani. Nello stesso anno, alla fine di dicembre, venne inviato a rione, tra i dodici ex notabili dell’antico patriziato, per i Comizi riuniti da Bonaparte (Consulta legislativa cisalpina): in quella circostanza, nel gennaio 1802, fece parte della Commissione dei trenta, incaricata di proporre i nomi per il governo e il Corpo legislativo della Cisalpina e della Commissione dei cinque che presentò a Napoleone la nomina di presidente della Repubblica rinominata Italiana: infine venne nominato tra i membri del Corpo legislativo nel Collegio dei possidenti.
Intorno al 1803, avendo rifiutato la proposta di F. Melzi, vicepresidente della Repubblica Italiana, di entrare nella compagnia di guardie italiane a cavallo voluta a Parigi da Napoleone, il G. cadde in disgrazia presso quest’ultimo e si ritirò nelle sue terre, ove dimorò fino all’ottobre 1805. In quell’anno, riaccesasi la guerra contro Inghilterra, Russia e Austria, il G., richiamato alle armi dal decreto del viceré Eugenio de Beauhamais con il grado di colonnello, ebbe l’incarico di organizzare il battaglione dei cacciatori reali di Brescia, con cui partecipò alle battaglie del 1805 di Ulma e Austerlitz; ricevette poi la nomina di colonnello del 370 reggimento di fanteria leggera. Nel maggio 1806 fu tra i primi a ottenere le insegne dell’Ordine della Corona di ferro.
Nel maggio 1807 chiese di essere posto a disposizione del ministero della Guerra per meglio occuparsi del suo patrimonio gravemente dissestato, oltre che dalla sua inclinazione al gioco, dal pagamento di 300.000 lire di fideiussioni e dal «tradimento» di N. Fé al quale aveva conferito procura illimitata dovendo trattenersi fuori Brescia per gli impegni militari.
A Venezia, nel 1809, dopo i contrasti con il ministro della Guerra M.A. Caffarelli, il G. fu in urto con il viceré d’Italia e abbandonò il reggimento, venendo riformato nel gennaio 1811. Si ritirò nel suo podere sulle colline bresciane detto «i Ronchi». Tuttavia il governo italiano aveva continuato a riservargli il trattamento e il grado di colonnello: nel 1814, per interessamento del generale Grenier, avrebbe dovuto riprendere servizio attivo, ma la cosa non ebbe seguito per l’avvento della dominazione austriaca. L’appartenenza del G. alla massoneria (proibita dall’ Austria nell’agosto e nel dicembre 1814) e la sua fedeltà ai principi napoleonici lo fecero menzionare nei rapporti periodici dei commissari distrettuali sulla vigilanza degli ex massoni più sospetti. Fu sollecitato dal generale austriaco J. Klenau a sostenere la nuova egemonia, ma, non aderendo, perse il grado e la retribuzione.
Da allora in poi cessò di manifestare idee democratiche e repubblicane, così riabilitandosi agli occhi degli Austriaci, e si dedicò esclusivamente al lavoro letterario, anche grazie agli aiuti economici che gli giunsero dalla contessa Eleonora Gambara Sant’ Angelo e dal conte A. Griffoni Sant’Angelo.
Socio dal 1812 dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti, fu in rapporto non solo con comici di grido, come F. Righetti e A. Bon, ma anche con letterati famosi: V. Monti, in una lettera del 23 sett. 1812, affermava di ritenersi onorato dell’intenzione del G. di intitolargli la tragedia Rosmunda; G.B. Niccolini, in quattro lettere a M. Pelzet dal 1827 al’29, evidenziò l’atteggiamento polemico del G. nei riguardi delle sue tragedie.
In materia storico-politica produsse vari lavori, tra i quali l’Ode per la nascita del re di Roma (Brescia 1811); Gesta de’ Bresciani durante la Lega di Cambrai (ibid. 1820), poema epico in tre canti sulla congiura bresciana del 1512, le cui note testimoniano grande precisione nelle indagini storiche; nonché i Ragionamenti di cose patrie ad uso della gioventù (IVI, ibid. 1834-40), in cui, più che l’esattezza storica, è riscontrabile l’annotazione del cronista che si avvale anche dei propri ricordi, come in particolare avviene nei volumi V e VI (il primo menziona infatti scienziati, letterati e pubblici funzionari contemporanei bresciani mentre il secondo annovera musicisti concittadini del presente e del passato).
La produzione teatrale del G. - a volte giudicata mediocre, ma frutto di conoscenza del teatro italiano e straniero - fu cospicua e conforme ai canoni del teatro romantico: influenzate dal modello alfieriano, le sue tragedie, conosciute sulle scene italiane di allora, furono del tipo classico più comune: Gli Stati di Blois (Brescia 1813), Conolano (ibid. 1818), Medea (ibid. 1822), Rosmunda in Ravenna (ibid. 1822), Germanico (ibid. 1824), Rosmunda in Verona (ibid. 1823), Zenobia (ibid. 1826), Didone (ibid. 1827), Focione (ibid. 1827), Ataliba (Milano 1846). Luigi Avogadro (Brescia 1829) e Andreola da Poncarale (ibid. 1819), meno convenzionali per il lieto fine e gli umili protagonisti, sono tragedie cosiddette «urbane» perché ispirate alla storia relativamente recente di alcune città italiane: il G.,nel proemio all’edizione del 1821 dell’Andreola, afferma di essersi cimentato in questo genere pur ritenendolo molto arduo, in quanto privo dell’ effetto tragico determinato, a suo avviso, solo dalla presenza dell’antico eroe greco. Il G. compose inoltre drammi «di sentimento», opere tra commedia e tragedia, così definite per la centralità dell’intrigo amoroso, quali Angelica Montanini (ibid. 1822), Imelda de’ Lambertazzi (ibid. 1822), Buondelmonte (ibid. 1823), il compenso di bella azione (Roma 1827); commedie, tra cui L’errore di un buon padre (Brescia 1821), Marzia degli Ubaldini (ibid. 1822), La buona moglie (ibid. 1826), il buon marito (ibid. 1826), il natalizio festeggiato (ibid. 1828), Elisa Riccardi (ibid. 1828), I promessi sposi (Venezia 1832); commedie in un solo atto, come il vecchio deluso (Milano 1842); commedie, pubblicate a Brescia e poi riunite in due volumi, per case di educazione maschili e femminili, quali L’illustre incognito (1826), Il ravvedimento (1826), Il trionfo dell’innocenza (1827). Gran parte dei drammi suddetti, alcuni dei quali accompagnati dalla recensione del drammaturgo T. Malipiero, confluirono nel Saggio di opere teatrali (I-IV, Brescia 1826-28), curato dal G., che vi appose un suo proemio sul valore istruttivo del teatro e sulla sua scarsa rilevanza in Italia.
Nel 1823 A. Buccelleni segnalò il G. alla polizia come probabile aggregato alla setta dei federati lombardi.
Nonostante manifestasse maggior moderazione, egli continuò a nutrire idee liberali che condivise con amici bresciani fra i quali C. Ugoni, patriota e letterato in esilio a Parigi dal 1826: tra i due un fervido scambio epistolare relativo anche a temi culturali (cfr. la lettera sulla tragedia del 22 ag. 1817) documenta il fattivo contributo del G. all’amnistia e al rimpatrio del concittadino (su cui le lettere scritte tra il 1826 e il ’33).
Benvoluto dagli amici e annoverato tra i notabili bresciani, il G. mori a Brescia il 20 nov. 1848.
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