PICO, Giovan Francesco
PICO, Giovan Francesco. – Primogenito di Galeotto I (fratello di Giovanni) e di Bianca Maria, figlia illegittima di Niccolò III d’Este, nacque, probabilmente a Mirandola, presso Modena, nel 1469, sei anni dopo il celebre zio Giovanni.
Della sua infanzia e adolescenza – forse trascorse in parte alla corte di Ferrara –, così come della sua formazione, si conosce pochissimo. Il 26 gennaio 1491, ormai ventunenne, prese parte, presso la corte milanese degli Sforza, ai festeggiamenti per il matrimonio fra Ludovico il Moro e Beatrice d’Este. Due mesi più tardi fu la volta del suo matrimonio con Giovanna Carafa, dalla quale ebbe dieci figli. La dote della moglie gli consentì di acquistare dallo zio Giovanni parte del feudo e i diritti ereditari sul principato della Mirandola: una mossa destinata a suscitare il risentimento, tenace e violento, dei fratelli minori, Federico e Ludovico, sostenuti dalla madre.
Negli anni successivi, avviato ormai alla carriera intellettuale, entrò in rapporti, anche epistolari, con personaggi di rilievo culturale e politico. Ma a influenzarlo fu in primo luogo il legame con lo zio – fortemente impegnato, negli ultimi anni della sua breve vita, in un’intensa riflessione di carattere etico-religioso. Ne sono testimonianza le bellissime lettere spirituali di Giovanni al nipote della primavera-estate 1492, fra le quali spicca quella del 15 maggio. Dopo la morte di Giovanni, nel 1494, Pico si fece custode, editore e primo interprete dei suoi scritti: del maggio 1496 è l’edizione bolognese del primo volume degli Opera, preceduta da una Vita celebrativa e densa di forzature devozionali; seguì, nel luglio, un secondo volume con le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, frutto di un arduo, e talora audace, lavoro sui tormentati manoscritti di Giovanni, svolto con l’ausilio del medico ferrarese Giovanni Mainardi.
A questi anni risalgono anche le sue prime opere teologiche e filosofiche, come il De studio divinae et humanae philosophiae, pubblicato nel 1497, in cui il problema del rapporto fra cristianesimo e cultura pagana è affrontato in forme apologetiche, illuminando la prospettiva del conflitto piuttosto che quella della concordia, e celebrando la Scrittura sacra come modello compiuto ed esaustivo del sapere, unica possibile fonte di certezza in confronto alla vanità del sapere mondano. Una componente fondamentale della riflessione filosofica di Pico, così come della genesi della sua severa e perentoria religiosità, rimanda al legame con Girolamo Savonarola, che risale al 1492, e alla sua personale interpretazione del savonarolismo.
A lui Pico dedicò, nell’ottobre 1496, il De morte Christi et propria cogitanda, composto per i giovani frati del convento di S. Marco e stampato l’anno successivo. Assunse in seguito senza incertezze la difesa del frate, intervenendo a più riprese nell’acceso dibattito intorno alla sua predicazione e alle sue profezie. La serie di opuscoli si inaugurò nella primavera del 1497 con la Defensio Hyeronimi Savonarolae adversus Samuelem Cassinensem (Firenze, B. de’ Libri); dopo la scomunica del frate, emanata nel maggio dello stesso anno, seguì l’Opusculum de sententia excommunicationis iniusta pro Hieronymi Savonarolae innocentia (Firenze, Compagnia del Drago, 1498), dedicato a Ercole d’Este e volto a sostenere l’arbitrarietà e l’inefficacia della condanna papale. Nella Pasqua del 1498, otto giorni dopo l’arresto di Savonarola, inviò dalla Mirandola «a li electi di dio habitanti ne la città di Firenze et in qualunche altro loco» la sua Epistola in favore de fra Hieronymo da Ferrara dappoi la sua captura (Modena, D. Rococciola).
Il tragico rogo del 23 maggio non mutò la sua fede: lungo l’intero arco della vita egli continuò a interrogarsi sui carismi profetici del frate; a intrattenere rapporti con savonaroliani di spicco; e perfino a schierarsi in difesa degli epigoni più radicali del movimento piagnone.
Narrazione agiografica, organizzazione della memoria e promozione del culto savonaroliano si intrecciarono poi nella Vita Savonarolae, la cui lenta e stratificata redazione si protrasse fino al 1530; se l’editio princeps fu pubblicata solo nel 1674 (Parigi, L. Billaine) per le cure di Jacques Quétif, il testo conobbe una significativa diffusione manoscritta, sia nell’originale stesura latina sia nella versione volgare.
Fu la morte del padre, nell’aprile 1499, a richiamare il giovane Pico ai compiti di governo del suo piccolo Stato padano, che si rivelarono subito assai difficili e rischiosi. Dopo una serie di assalti falliti fra il 1499 e il 1501, nell’agosto 1502 Ludovico e Federico, appoggiati dallo zio Antonfrancesco e dal suocero di Ludovico, il condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio, riuscirono a espugnare la Mirandola, cacciandone Giovan Francesco.
Di questi anni è il De imaginatione, dedicato all’imperatore Massimiliano I d’Asburgo e pubblicato a Venezia, presso Aldo Manuzio, nel 1501: costruito sul filo del De anima di Aristotele, insiste sulla centralità gnoseologica, le suggestioni ingannevoli e le speculari opportunità di elevazione al divino proprie della facoltà fantastica.
Nel corso dei successivi otto anni e mezzo di esilio egli fu spesso a Novi, sotto la protezione dei cugini Leonello e Alberto III Pio da Carpi: particolarmente intenso e saldo, anche per la comune battaglia culturale contro l’aristotelismo eterodosso e i suoi esiti di sicura empietà, fu il rapporto con quest’ultimo, dedicatario di diverse sue opere, dal De studio al De rerum praenotione. Per rientrare in possesso del feudo, oltre a cercare l’aiuto dei Gonzaga, Pico si recò due volte in Germania (1502 e 1505), sollecitando da Massimiliano I la conferma della propria investitura imperiale sulla Mirandola; e spesso a Roma, in particolare fra il 1508 e il 1509, alla corte papale di Giulio II, al quale finì per affidare ogni speranza di riconquista. Con la morte della madre (1506) e dei fratelli (Federico nel 1504 e Ludovico nel 1509, combattendo alla Polesella per gli Estensi contro Venezia), erede della contesa divenne la moglie di quest’ultimo, Francesca Trivulzio, reggente in nome del figlio Galeotto. Nel luglio 1510 Giovan Francesco ottenne il sostegno dell’imperatore, ma riuscì a riprendere il potere solo all’inizio dell’anno successivo, quando Giulio II, per colpire i francesi, assediò Mirandola, loro alleata tramite i Trivulzio. La città cadde nel gennaio del 1511 e Pico ne tornò signore.
Negli anni di esilio, oltre a intensificare i rapporti con i ferraresi Celio Calcagnini e Lilio Gregorio Giraldi, fu in contatto con vari umanisti tedeschi, da Willibald Pirckheimer a Johannes Reuchlin, a Thomas Wolf: legami, questi ultimi, all’origine di una fortuna, editoriale e culturale, particolarmente notevole in Germania. Compose e pubblicò alcune opere di rilievo, fra le quali vanno segnalate i Theoremata de fide et ordine credendi (dedicati a Giulio II e tributari dell’apologetica savonaroliana del Triumphus crucis), il Liber de providentia Dei contra philosophastros (Novi di Modena, Benedetto Dolcibelli, 1508) e soprattutto il De rerum praenotione, la lunga indagine sulla possibilità e liceità di previsione del futuro inclusa, come i Theoremata, negli Opera stampati a Strasburgo, presso Johann Knobloch, fra il 1506 e il 1507.
Qui il desiderio di salvaguardare con una precisa teoria la verità dell’annuncio savonaroliano si accompagna al proposito di distinguere rigorosamente la vera profezia biblico-cristiana (o praenotio divina) dalle altre forme di previsione del futuro: la praenotio naturalis, propria di agricoltori, marinai, medici, è mero frutto di congetture basate sull’osservazione di eventi ordinari e replicabili; e la praenotio curiosa è caratterizzata da un desiderio di conoscenza disordinato e illecito; la praenotio superstitiosa va rifiutata e combattuta con forza, perché, in quanto forma di eccessiva fiducia nelle possibilità della ragione umana, è il terreno di azione del demonio, all’origine di tutte le eresie superstiziose, come l’astrologia, la magia e le arti occulte in genere. Durissima anche la condanna della prisca theologia ficiniana, con il suo recupero del neoplatonismo, saturo di implicazioni e suggestioni magico-teurgiche.
Laboriosa quanto instabile, la riconquista della Mirandola: nel giugno 1511 ne venne esiliato ancora una volta da Trivulzio che, a capo dell’esercito francese, ristabilì la signoria della figlia Francesca. Nei due anni successivi risiedette verosimilmente fra Modena e Roma, combattendo contro i francesi nelle file della Lega santa (battaglia di Ravenna, 1512), finché nell’agosto 1514 riuscì a perfezionare con Francesca Trivulzio un (fragile) accordo per la divisione dei possedimenti: a lui andò Mirandola; alla cognata Concordia, con i rispettivi territori. Nel 1515 l’imperatore gli riconobbe il diritto di battere moneta: venne allora istituita la Zecca di Mirandola, presto coinvolta in una vicenda di falsificazione del peso in oro, e successiva svalutazione, delle monete «con inciso il suo ritratto», per la quale il mastro della Zecca fu condannato a morte.
Il ritorno a Mirandola portò con sé la possibilità di dedicarsi con tranquillità agli studi: nel 1516 pubblicò l’Opus de amore divino (Roma, Giacomo Mazzocchi); nel 1518 raccolse in volume (Basilea, J. Froben) i Physici libri duo e il carteggio con Pietro Bembo de imitatione. Nell’aprile 1519 un breve papale di Leone X lo autorizzò ad aprire una stamperia nel castello della Mirandola, da cui uscì nello stesso anno, a lui dedicato, il Liber de veris calamitatum causis nostrorum temporum. Sempre a Mirandola, nel 1520, fu stampata l’opera fondamentale della sua bibliografia, l’Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christianae disciplinae, in sei libri, dedicato ancora al papa.
L’opera, in cui si utilizzano in forme originali e precoci le Ipotiposi pirroniane e parti dell’Adversus mathematicos di Sesto Empirico, pone il recupero delle potenzialità critiche del pirronismo al servizio di una rinnovata riflessione sul rapporto fra cristianesimo e filosofia e di un preciso disegno di apologetica religiosa, e ribadisce la radicale distinzione fra veritas e vanitas, fra la suprema sapienza divina e le incertezze, le contraddizioni, i contrasti delle diverse dottrine e scuole filosofiche, prodotto di una razionalità umana strutturalmente fragile, se non illuminata dalla luce della rivelazione. Negli ultimi tre libri l’Examen si configura come una critica serrata della filosofia di Aristotele.
Del 1520, a Haguenau presso Thomas Anshelm, è pure la pubblicazione dell’Oratio de reformandis moribus, un dolente e severo invito alla riforma della Chiesa, sostanziato di proposte concrete, composto per il papa e i Padri riuniti nel Concilio Lateranense del 1512-17. La polemica contro le nuove forme di paganesimo e l’idea della superstitio quale chiave di lettura complessiva del sapere degli antichi si protrassero ben oltre il De rerum praenotione. Lo confermano i fatti del 1522-23, quando il suo impegno contro le pratiche anticristiane e idolatriche si spostò dal terreno della divinazione cólta a quello della tradizione popolare, intrecciando confutazione teorica e azione pratica. All’indomani dei processi per stregoneria e dei roghi accesi fra i sudditi di Mirandola – per iniziativa dell’inquisitore di Parma e Reggio Girolamo Armellini e del suo vicario, l’ex savonaroliano fiorentino Luca Bettini, ma con il patrocinio e l’attivo coinvolgimento dello stesso Pico, titolare del potere civile su quelle terre –, egli pubblicò la Strix, sive de ludificatione daemonum, composta «in tempo di circa deci giorni» in risposta alle vivaci reazioni suscitate dall’inchiesta (Bologna, G.G. Benedetti, 1523).
Alle pagine dell’operetta è consegnata una lettura di «cotesta ria, scelerata e perversa schola del Demonio», ormai cristallizzata nell’immagine inquisitoriale del sabba, proprio come reliquia dell’antica idolatria pagana; coagulazione di rapporti umano-demonici antichissimi ma disaggregati; aspetto più recente di un lungo rapporto di seduzione, di una forma di eresia «antica quanto alla essentia e sostantia», ma «nuova quanto alli accidenti». Nel dialogo fra quattro personaggi (Apistio, un dotto classicista che dubita della radice demoniaca della stregoneria; Fronimo, il saggio; e Dicasto, il giudice-inquisitore, che conduce con sé l’ultimo interlocutore – la strega stessa, costretta in catene) Pico punta a sottrarre la tesi dell’esistenza delle streghe al dominio delle dicerie popolari e rintraccia nei testi dell’antichità classica e cristiana il costante tentativo degli spiriti malvagi di legare gli uomini a sé; ma soprattutto insiste nell’affermare la realtà delle azioni stregonesche e del ‘gioco’ del sabba, negando che essi possano ridursi a mere allucinazioni o illusioni generate dalla facoltà fantastica.
Nell’aprile 1524 – mentre si processavano a Bologna i fuggiaschi dalla persecuzione di Mirandola – apparve, per i tipi dello stesso editore, il volgarizzamento della Strix, dedicato a Giovanna Carafa. Dell’operazione editoriale era artefice uno dei protagonisti della recente offensiva inquisitoriale, il domenicano bolognese Leandro Alberti, assai vicino a Pico negli anni Venti e autore pure della lettera prefatoria all’edizione latina dell’opera. Un secondo volgarizzamento della Strix vide la luce nel 1555, a opera dell’abate Turino Turini (Pescia, L. Torrentino). Del 1524 è anche, accanto ad altri lavori rimasti del pari inediti, la Depulsoria calumniae Romaniensis Oratio: una difesa indignata contro la richiesta della tesoreria papale di saldare un conto di 20.000 scudi d’oro, come risarcimento delle spese sostenute da Giulio II nel 1511 per la riconquista della Mirandola.
Gli interessi preminenti per la costellazione del soprannaturale e i canali di comunicazione fra Dio e i suoi eletti si concentrarono quindi intorno alla figura di Caterina Mattei, la terziaria domenicana originaria di Racconigi che Giovan Francesco, dopo un lungo rapporto epistolare, incontrò nel 1526 nel feudo piemontese della moglie, visitò a più riprese, e ospitò infine, «dappoi sei anni», alla Mirandola, impressionato dai suoi carismi. Una venerazione che portò con sé, già dal 1530, il progetto di un’opera volta a celebrare la spiritualità, la dimensione mistico-profetica e il «nome grande» della vergine piemontese: il Compendio delle cose admirabile di sor Caterina da Raconisio, il cui originale latino (andato perduto) venne ultimato nel 1532. Da una versione italiana deriva, in forme diverse, la tradizione manoscritta cinquecentesca, gestita da una rete di esponenti dell’ordine domenicano talvolta legati a Caterina da vincoli anche personali (la pubblicazione del testo latino rimaneggiato a Bologna, s.d., è ascrivibile all’arco temporale 1681-86).
Pochi mesi dopo aver scritto le ultime righe del Compendio, nella notte fra il 15 e il 16 ottobre 1533 uomini in arme al soldo del nipote Galeotto II irruppero nel castello e pugnalarono Pico, mentre questi, secondo la versione diffusa da Leandro Alberti, pregava «inginocchiato davanti l’imagine del Crucifisso, sempre chiedendo in suo aiuto Giesu».
Insieme a lui cadde il figlio Alberto, accorso in sua difesa. L’indomani fu «saccheggiato il castello dalli soldati e fu ruinata la libreria, e le molte opere di filosofia e teologia e di diverse e varie scienze composte dal signor Gio. Francesco tutte furono da ignoranti soldati stracciate ed abbruciate» (Cronaca della nobilissima famiglia Pico…, 1874, p. 81).
Stampati e tradotti in diversi Paesi europei, gli scritti di Pico conobbero una diffusione significativa anche nel mondo protestante, entrando a far parte del bagaglio spirituale e controversistico degli uomini della Riforma. Le due raccolte basileesi del 1572-73 e del 1601, in cui le sue opere appaiono unite (e legate da una precisa dialettica interna) a quelle dello zio, hanno poi contribuito a una fortuna sottile ma persistente, non ancora indagata in tutte le sue articolazioni e i suoi contesti.
Opere. Giovan Francesco Pico è stato autore di una messe cospicua e tematicamente non omogenea di scritti, dalle vicende redazionali ed editoriali talora complicate. Di essa è stato possibile rendere conto qui solo in parte. Una sorta di catalogo ragionato dei suoi lavori è nella celebre lettera a Giraldi del 1516 (Opera omnia, II, Basileae, Henricpetri, 1573, pp. 1365-1369). Il più completo regesto moderno delle edizioni e dei manoscritti nell’Appendice bibliografica del lavoro, tuttora fondamentale, di C.B. Schmitt, G. P. della Mirandola (1469-1533) and his critique of Aristotle, The Hague 1967, pp. 182-229. E si veda anche W. Cavini, Un inedito di Giovan Francesco P. della Mirandola: la ‘Quaestio de falsitate astrologiae’, in Rinascimento, s. 2, XIII (1973), pp. 133-171.
Per le edizioni moderne delle opere: Le epistole de imitatione di G. P. della Mirandola e di Pietro Bembo, a cura e con un’introduzione di G. Santangelo, Firenze 1954; Libro detto Strega, o delle illusioni del demonio, del sig. G. P. della Mirandola, nel volgarizzamento di Leandro Alberti, a cura di A. Biondi, Venezia 1989; G. Pico della Mirandola, Vita di Hieronimo Savonarola (Volgarizzamento anonimo), a cura di R. Castagnola, premessa di G.C. Garfagnini, Firenze 1998; Id., Vita Hieronymi Savonarolae, a cura di E. Schisto, Firenze 1999; Id., Compendio delle cose mirabili di Caterina da Racconigi, a cura di L. Pagnotta, Firenze 2010. Cfr. anche G.M. Cao, Pico della Mirandola goes to Germany, with an edition of G. Pico’s De reformandis moribus oratio, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, XXX (2004), pp. 463-525.
Fonti e Bibl.: G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, IV, Modena 1783; Cronaca della nobilissima famiglia Pico scritta da autore anonimo, Mirandola 1874; F. Ceretti, La genealogia del conte Giovanni Francesco II Pico, in Atti e memorie per le province modenesi, s. 4, I (1892), pp. 103-122; Id., Lettere inedite del conte Giovanni Francesco II Pico, ibid., s. 5, III (1904), pp. 123-139. Si vedano, inoltre: L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Convegno internazionale, Mirandola… 1963, I-II, Firenze 1965; W. Cavini, Appunti sulla prima diffusione in Occidente delle opere di Sesto Empirico, in Medioevo, III (1977), pp. 1-20; P. Zambelli, L’eredità pichiana in mano agli inquisitori: il caso di Gianfrancesco (1990), in Ead., L’ambigua natura della magia. Filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Milano 1991, pp. 177-210; Giovanni e G. P. L’opera e la fortuna di due studenti ferraresi, a cura di P. Castelli, Firenze 1998; G.C. Garfagnini, «Questa è la terra tua». Savonarola a Firenze, Firenze 2000, pp. 191-227, 251-291; C. Vasoli, Giovan Francesco P. e i presupposti della sua critica ad Aristotele, in Renaissance readings of the corpus Aristotelicum, a cura di M. Pade, Copenhagen 2001, pp. 129-146; G.M. Cao, Scepticism and orthodoxy. G. P. as a reader of Sextus Empiricus, with a facing text of Pico’s quotations from Sextus, Pisa-Roma 2007; M. Muccillo, La concezione dell’immaginazione nel Rinascimento tra platonismo e aristotelismo (Marsilio Ficino e Giovan Francesco P. della Mirandola), in La mente, il corpo e i loro enigmi: saggi di filosofia, a cura di G. Coccoli, Roma 2007, pp. 11-35; L. Pappalardo, Le strategie dell’apologetica cristiana nelle opere giovanili di G. P. della Mirandola: il De studio divinae et humanae philosophiae, in Archivio di storia della cultura, XXIV (2011), pp. 3-30.