CORNIANI, Giovan Giacomo
Figlio di Rocco di Cristoforo e di Vittoria Magnarin di Giovan Battista, nacque ai primi di giugno del 1631 - fu battezzato infatti l'11 di quel mese - a Rio San Martino, una piccola "villa" del Trevigiano dove i genitori, che vi possedevano alcune terre, avevano cercato scampo alla peste.
La famiglia si chiamava in realtà Fedeli, ma al cognome originario Rocco aveva affiancato e poi sostituito quello di Corniani, in segno di riconoscenza "per l'educatione affettuosissima" datagli da Bernardino Corniani, fratello della madre Vittoria. Legato per tradizione "alla profession del Palazzo" - tanto lui che il padre erano infatti avvocati - egli fece compiere ai sette figli gli studi legali, ed il 16 luglio 1649 ottenne per loro l'ambito riconoscimento della cittadinanza originaria, indispensabile per l'accesso alla Cancelleria ducale, dai cui ranghi si traeva il personale amministrativo dei principali organi istituzionali veneti. Oltre al C., tuttavia, solo Gianfrancesco e Lauro, entrambi notai "primari" dell'Avogaria di Comun, si impiegarono nei pubblici uffici, mentre Marcantonio preferì esercitare l'avvocatura e Bernardino intraprese la carriera ecclesiastica, diventando vescovo di Pola, il silenzio dei documenti famigliari sugli altri due, Cristoforo e Giambattista, fa supporre che morirono piuttosto precocemente.
Entrato nella Cancelleria ducale il 19 luglio 1649 come notaio straordinario, il C. svolse il consueto periodo di apprendistato in Maggior Consiglio e in Senato; ma già nel febbraio del 1652 gli venne affidato un primo incarico di rilievo, con la nomina a segretario dell'ambasciatore in Spagna Giacomo Querini. Al ritorno a Venezia, nel maggio del 1656, ottenne in riconoscimento dei suoi servizi una "provvigione" di 10 ducati al mese. Nel 1660 fu promosso notaio ordinario e nel settembre del '62 segretario del Senato. Qualche tempo dopo affrontava la sua prima missione diplomatica con l'elezione alla residenza di Milano.
Anticipato al luglio del 1663 il trasferimento nella capitale lombarda per la morte del residente in carica Taddeo Vico, il C. non tardò a cogliere l'estrema gravità della crisi in cui si dibatteva il governo spagnolo, incapace di fronteggiare la minacciosa politica francese in Italia, oppresso com'era dalle incessanti richieste di denaro da parte di Madrid, mentre gran parte delle truppe di stanza in Lombardia si trovava in stato di aperta insubordinazione per l'esiguità delle paghe e d'altro canto l'esasperazione della popolazione per il protrarsi indefinito delle spese militari sembrava sul punto di esplodere. Ben lungi dal costituire un motivo di soddisfazione, il vuoto di potere creato dalla debolezza spagnola suscitava non poche preoccupazioni in Venezia, cui sembrava preludere a "qualche gran perturbatione della quiete d'Italia", tanto meno auspicabile in un momento in cui i Turchi, conclusa la pace con Leopoldo I, erano liberi di concentrarsi sui domini veneti e si profilava concretamente la necessità di una comune difesa del Friuli. Tali timori trovavano piena rispondenza nei dispacci del C., attento ad ogni notizia o illazione sui preparativi e le mosse delle truppe francesi, pur confessandosi spesso incapace di intenderne i "dissegni" e "combattuto nell'animo per rapportarli confusi", e sin troppo apertamente avverso egli stesso alla Francia, che accusava "di far guerra a tutti i Principi d'Italia con la gelosia, indebolendoli et obligandoli a spender et armarsi... senza provar dal sur, canto un minimo incommodo".
La missione del C. dovette comunque finire anzitempo. In seguito a ripetuti incidenti tra la sua servitù e la "sbiraglia" milanese, si era infatti consolidata una violenta ostilità, che agli inizi di agosto del 1644 era sfociata in un attacco notturno contro la casa del residente, con la scusa che due evasi vi si sarebbero rifugiati. L'episodio, che aveva suscitato grande clamore, si era concluso con la perquisizione della casa del C., che invano reclamava il rispetto dei suoi privilegi diplomatici. "Non sicuro nel proprio domicilio, offeso, e discreditato senza causa", egli chiedeva pertanto il permesso di un immediato rimpatrio, che veniva senz'altro accordato mentre la residenza stessa rimaneva interrotta per due anni.
La vicenda si rifletté forse negativamente sulla sua carriera, che di fatto non conobbe ulteriori progressioni. Egli continuò comunque per alcuni anni a lavorare in Senato, e nel '70 e '71 fu anche segretario in Collegio. Solo con l'anno successivo poté tornare all'attività diplomatica, ma in una sede, come Firenze, ormai decisamente periferica: tant'è vero che, conclusa questa missione, il governo veneto ritenne di eliminare la rappresentanza diplomatica, riducendola al solo consolato di Livorno.
Lo stesso C., nei dispacci inviati tra il giugno 1672 e il maggio 1677, si trovò spesso a lamentare "la sterilità di questa Corte" e la totale assenza di notizie "che corrisponder possino alla gravità dell'ecc.mo Senato". In compenso, egli rimaneva libero di spaziare su questioni di minor contingenza sotto il profilo politico-diplomatico ma certo più interessanti nell'aspetto documentario, e accanto ai resoconti delle vicende di corte, movimentate dalle gelosie tra i ministri del granduca e la nobiltà e dalle stravaganze della granduchessa, poteva inviare anche accurate relazioni sulle critiche condizioni economiche e sociali della Toscana, e di Firenze in particolare, e sull'affannosa ricerca di soluzioni - come l'introduzione di nuove lavorazioni laniere o il richiamo da Venezia di artigiani vetrai (contro cui il C. si batté con "infervorata diligenza" ma con scarsi risultati) - che offrissero occupazioni alternative "alla povertà... fatta in gran parte otiosa" a causa dell'inarrestabile declino dell'industria della lana. Quanto alle relazioni dirette tra Repubblica e granducato, fatta eccezione per le frequenti quanto inefficaci proteste contro le azioni di corsari muniti di patenti medicee, il C. non dovette affrontare che una questione di rilievo, relativa al sequestro nel porto di Livorno di un'ingente quantità di zecchini falsi destinati a sconvolgere i mercati dei cambi in Oriente. Il granduca aveva dapprima predisposto con decisione le misure necessarie perstroncare tali traffici e per punire i colpevoli, ma quando era emerso che all'origine della falsificazione stava la stessa sorella di Luigi XIV si era precipitosamente arrestato, finendo dopo lunghi imbarazzi per capitolare di fronte alle proteste della corte francese, arrivando persino a dissequestrare gli zecchini falsi a dispetto delle riconosciute ragioni dei Veneziani e dei reclami del residente.
Dopo il ritorno a Venezia, il C. dovette attendere altri dodici anni, occupati nel servizio al Senato, prima di tornare ad una nuova lunga fase di attività diplomatica, che lo avrebbe poi impegnato sino al momento della morte: tenne infatti per tre volte la residenza di Napoli, dal giugno 1689 al novembre 193, dal giugno 1697 al giugno 1700 e dal giugno 1703 al giugno 1707.
Anche Napoli, come Firenze, offriva ben pochi spunti d'interesse politico, destinati del resto ad infrangersi nel rigoroso rifiuto veneziano di qualsiasi coinvolgimento nel gioco politico europeo: quando per esempio nel maggio 1691, dopo l'attacco francese a Nizza, il viceré conte di Santo Stefano fece ripetutamente cenno al C. dell'opportunità di una lega antifrancese di principi italiani, la risposta non sufficientemente fredda del residente gli procurò un immediato ed aspro rimbrotto da parte del Senato. Assai più vivi erano però i legami commerciali che, nonostante l'evidente declino della colonia veneta, continuavano a sussistere tra Viceregno e Repubblica, e che esigevano dal C. impegno e attenzione assidui. Ingente era ancora il volume di merci - olio, vino e cereali - importati dalle province adriatiche, e assai spesso il residente doveva intervenire per portare a compimento acquisti già stipulati e poi bloccati da una politica annonaria capricciosa e imprevedibile. Intensa era anche la navigazione di transito, che occorreva proteggere da un uso vessatorio delle norme sanitarie e soprattutto doganali. A richiedere i maggiori sforzi fu comunque la difesa dei privilegi della comunità mercantile veneta, soprattutto la giurisdizione esercitata sui sudditi veneti dal delegato della nazione, che il Consiglio di S. Chiara voleva ristretta alle sole cause sommarie, col prevedibile risultato di svuotarla di qualsiasi significato. La rigorosa reazione veneziana, sia a Napoli sia a Madrid, aveva dovuto urtare contro i potenti interessi dei proprietari delle cariche, assai influenti nel Consiglio d'Italia. Dopo una contesa prolungatasi per quasi un decennio, e nonostante le sentenze favorevoli emanate dal Collaterale, la giurisdizione delegata continuò ad essere sottoposta a sempre rinnovati attacchi. C'era infine la spinosa questione della pirateria, che si poneva sotto un duplice aspetto: quello della pirateria napoletana e siciliana a danno dei Veneti, richiedente defatiganti trattative - "massime in questo governo, dove il differire è tanto connaturale"- per la restituzione delle merci depredate; e quello della pirateria segnana, ancor più delicato, perché metteva a nudo l'incapacità della Repubblica a garantire la sicurezza adriatica, minando i presupposti della sua sovranità. Appunto nel 1703 la completa impunità dei Segnani servì di pretesto al viceré Villena per l'invio in Golfo di galere armate, mentre già vi incrociavano alcu e golette francesi e mentre del resto le truppe di Eugenio di Savoia violavano non meno impunemente la Terraferma: era una permanenza doppiamente inquietante, sia per gli ostacoli e le angherie subiti dai navigli veneti, sia perché si temevano le conseguenze diplomatiche di un'azione spagnola nei territori imperiali. Ma a nulla valsero le flebili proteste del C. e le sue assicurazioni sulla capacità di vigilanza da parte di Venezia, quotidianamente smentite dalla realtà dei fatti.
Anche la situazione interna del Viceregno trova nel C. - specie nei primi tempi della permanenza a Napoli - un osservatore scrupoloso e talvolta acuto, benché assai più attento alle questioni economiche e finanziarie (le vicende dei banchi, gli appalti delle entrate, la politica monetaria del Benavides) che a quelle politiche e sociali. Col passare del tempo i dispacci si riducono però ad un asciutto resoconto degli affari correnti, in cui persino le alterne vicende della guerra di successione non trovano eco. Il C. era del resto fermamente convinto che "senza concorso di questi popoli" non vi fosse "forza esteriore... capace di invaderlo e fermarvi il piede". Ancora il 5 apr. 1707, quando già i Francesi stavano evacuando la penisola, scriveva come a Napoli si vivesse "in una pace tranquilla"; e il 24 maggio, alla vigilia della sua partenza e a meno di un mese dall'arrivo degli Austriaci, aggiungeva persino che "il miracolo della liquefatione del sangue di San Gennaro" aveva suscitato "universal confidenza di non temere il tentativo dricciato contro questo Regno".
Mancano notizie precise sulla morte del Corniani. Di certo essa avvenne in quello stesso 1707, tra il 4 giugno ed il 12 ottobre, data in cui fu effettuato l'inventario post mortem dei suoi beni. Come si apprende dal testamento del fratello Lauro, il C. si era sposato con Perma Anselmi - probabilmente in età avanzata, essendo la moglie già alle terze nozze - ma non ebbe figli.
Fonti e Bibl.: La genealogia dei Corniani in Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia veneta, II: G. Tassini, Cittadini, VIII, c. 837, e Ibid., Storia veneta, s: T. Toderini, Cittadini, V, c. 667; numerose notizie sulla famiglia nel "processo" per la cittadinanza originaria, Ibid., Avogaria di Comun, busta 388, n. 4; vedi, inoltre, i testamenti del padre Rocco e del fratello Marcantonio, Ibid., Notarile, Testamenti, Agostino Zon, busta 1271, cc. 405v-409 e 440v-442, quello di Lauro, ibid., Francesco Dies, busta 1172, cc. 160-169v, quello di Paola, vedova di Gianfrancesco, ibid., Lodovico Bruzzoni, busta 83, n. 82; l'inventario dei beni del C. è Ibid., Giudici di Petizion, Inventari, busta 404, n. 19; per la carriera e le provvigioni, Ibid., Cancellier Grande, Ordine della Cancell. ducale, Registro di fedi e mandati, n. 2 (1638-1657), cc. n. num., passim;Ibid., Consiglio dei dieci, Miscell. codd., reg. 63, c. 192; Ibid., Senato, Terra, Deliberazioni, reg. 152, c.192; per i dispacci, Ibid., Senato, Disp. ambasciat., Milano, filze 107-108; Firenze, filze 78-81; Napoli, filze 99-102, 104 n. 195, 105-106, 107 n. 2, 109-111, 112 n. 1; vedi, inoltre, Ibid., Senato, Corti, regg. 40, 41-49-54, 66-70, 74-77, 80-84 passim;Venezia: Bibliot. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 1667 (= 8459): Cancelleria ducale, c. 12; è dedicata al C. un'incisione della "Città di Venetia", Ibid., Mss. It., cl. VII, 201 (= 7461): R. Curti, Serie delle famiglie nobili venete, I, c.3. Vedi, infine, Relazioni degli Stati europei lette al Sen. dagli amb. ven. nel sec. decimosettimo, s. I, Spagna, II, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, Venezia 1860, pp. 231, 252 s.; Calendar of State Papers... Venice, XXXV, a cura di A. B. Hinds, London 1937, pp. 223, 266, 268; XXXVII, a cura dello stesso, ibid. 1939, pp. 35, 48, 82, 330; I libri commemoriali della Rep. di Venezia, a cura di R. Predelli, VIII, Venezia 1914, p. 93; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., V, Venezia 1842, p. 340; F. Nicolini, Frammenti veneto-napoletani, in Studi di storia napolet. in on. di M. Schipa, Napoli 1926, p. 28 (estratto); Id., L'Europa durante la guerra di successione di Spagna, I, Napoli 1937, p. 25; L. Bittner-L. Gross, Repertorium der diplomatischen Vertreter aller Länder seit dem Westfälischen Frieden, I, Berlin 1936, pp. 552, 553; G. Mazzatinti, Inv. dei mss. delle Bibliot. d'Italia, LXXXI, p. 78.