PANDOLFI, Giovan Giacomo
PANDOLFI, Giovan Giacomo. – Nacque nel 1567 a Pesaro da Giovanni Antonio (Tesini, 1985), pittore di fama.
Il padre, anche se scomparso prematuramente, a Perugia nel 1580, senz’altro avviò il figlio all’arte. In seguito Pandolfi dovette frequentare la bottega di Federico Zuccari, tradizionalmente considerato suo maestro (Becci, 1783, p. 80), forse a Loreto, quando Zuccari dipingeva nella Santa Casa (1583).
Nulla si conosce della sua giovinezza prima del 1592, anno in cui risulta residente a Rieti (Sacchetti Sassetti, 1955). Il primo impegno documentato è il «rinnovamento» nel 1594 della dispersa Immacolata del palazzo comunale di quella città (ibid., p. 3).
Coeve sono le più antiche tele reatine riferibili a Pandolfi (l’Incredulità di s. Tommaso nella chiesa di S. Chiara e il S. Biagio in S. Francesco), mentre firmata e datata 1595 è la Trasfigurazione della chiesa di S. Caterina. Tali dipinti, più che a Zuccari, appaiono vicini a Girolamo Siciolante e, soprattutto, a Girolamo Muziano, le cui opere Pandolfi potrebbe aver studiato a Orvieto (Abbate, 1982; Barroero - Saraca Colonnelli, 1991) o a Roma, dove con ogni probabilità aveva soggiornato anteriormente al 1592.
Quelli di Rieti furono anni tormentati da difficoltà economiche e da frequenti vertenze giudiziarie (Sacchetti Sassetti, 1958, p. 8). Comunque, nell’ultimo lustro del secolo non gli mancarono occasioni di lavoro nella città: dalla tempera su muro con la Madonna e santi in S. Domenico (1596) alla tela con la Madonna della Cintola in S. Agostino e alle versioni gemelle dell’Ascensione per le chiese di S. Francesco e di S. Lucia (1600 circa).
Nel 1598 diede incarico al suocero, Giovanni Maria Tesei, dimorante a Roma, di ritirare presso don Pandolfi Pucci tutti i quadri e gli attrezzi adatti alla pittura che egli stesso gli aveva lasciato in custodia, forse come cauzione in seguito a un prestito di denaro (ibid., p. 10; Cleri, 1983, p. 177). La notizia appare rilevante, dal momento che accerta una frequentazione giovanile dell’Urbe.
Sin dal 1596 gli era stata commissionata la decorazione della cappella del Crocifisso nella chiesa di S. Cataldo a Montenero in Sabina (Sacchetti Sassetti, 1955, pp. 14-16); l’impresa però sarebbe stata compiuta, per volontà dell’arciprete Lucio Lavi, solo nel 1613, data vergata sulla pala d’altare, copia dalla Deposizione in S. Croce a Senigallia di Federico Barocci. A questa fase potrebbero risalire anche gli affreschi che ornano il sacello, inglobanti, tra i santi, Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610 (Barroero - Saraca Colonnelli, 1991, p. 51).
Era rientrato nelle Marche agli albori del secolo: nel 1601, a Pesaro, chiese in prestito 6 scudi, lasciando in pegno un quadro della Natività; nel 1603 fu coinvolto in una rissa (Calegari, 2002, p. 207). Gli anni successivi appaiono caratterizzati da un’intensa produzione di tele destinate a chiese di Pesaro e della provincia. La prima opera nota di questa fase è l’Assunta del 1604, oggi in collezione privata (Arcangeli, 1981, p. 81); di poco successive sono la Sacra Famiglia e la Madonna del Soccorso in S. Agostino a Pesaro, la S. Lucia della chiesa di S. Giovanni Battista a Gradara (1607), la Madonna del Carmelo con santi e il piccolo Federico Ubaldo della Rovere della pieve di Apecchio (1607 circa), la Madonna di Loreto e i ss. Martino e Michele nella chiesa di S. Martino (1608) e il Rosario in S. Paolo a Pesaro, la Madonna col Bambino e santi in S. Pietro in Rosis a Ginestreto. In questi dipinti la chiarezza dell’impaginazione e l’adozione di alcuni tipi fisici lasciano trasparire una stretta contiguità con Zuccari; tuttavia la dolcezza espressiva, la «finezza di esecuzione», la «felicità timbrica» rivelano un indubbio interesse per Barocci (Arcangeli, 1981, pp. 81-83).
Elementi ‘zuccareschi’ e ‘barocceschi’, congiunti a un’acuta resa dei dettagli di estrazione fiamminga (Calegari, 2005, p. 223), si incontrano nella produzione degli anni Dieci: basti ricordare la Madonna della Misericordia del Municipio di Gradara (1611), la Madonna in gloria tra santi e il piccolo Federico Ubaldo della Rovere in S. Filippo Neri a Sant’Angelo in Vado (1614), la Madonna e santi in S. Caterina a Urbania (1615) e il S. Carlo in S. Giovanni a Pesaro (1616).
Nel 1617-19, assieme allo scenografo Giovanni Cortese, fu impegnato nell’oratorio del Nome di Dio a Pesaro, in cui realizzò le tele montate nel soffitto, raffiguranti al centro il Trionfo del Nome di Dio e negli scomparti laterali l’Inferno, l’Immacolata, le Gerarchie ecclesiali e temporali. In esse appare riconfermato il legame con Zuccari (Calegari, 2009, pp. 45, 58), come dimostra l’ispirazione nei primi due riquadri agli affreschi e alla pala dipinti dal maestro nella cappella degli Angeli nel Gesù di Roma (1594-95).
In questo periodo Pandolfi ebbe intensi rapporti con la corte roveresca. Ne sono prova diverse opere disperse citate negli inventari, tra cui un ritratto del 1619 di Federico Ubaldo (Calzini, 1916, p. 78), e il coinvolgimento, nel 1623, nell’esecuzione degli apparati scenografici allestiti per il matrimonio tra Claudia de Medici e Federico Ubaldo a Pesaro. Rimangono di questa fase numerose altre opere di destinazione chiesastica nelle quali affiora un’attenzione per il chiaroscuro più accentuato e per il realismo di Giovan Francesco Guerrieri (Calegari, 2005, p. 229). Tra i prodotti avanzati, in cui, analogamente alla fase precedente, Pandolfi alterna opere di considerevole impegno formale ad altre in cui ripropone stancamente schemi già collaudati (Arcangeli, 1979, p. 102), vanno ricordati il Rosario in S. Martino a Farneto, il Crocifisso e santi della Cattedrale di Pesaro, le Storie del Battista in S. Pietro in Valle a Fano (1628), il Martirio di s. Bartolomeo in San Francesco a Mercatello sul Metauro, il S. Girolamo della Pinacoteca civica di Pesaro (1630), il Rosario del Museo di Pergola (1633) e gli ultimi interventi nell’oratorio del Nome di Dio.
In questo contesto, tra il 1634 e il 1636, «ancorché aveva le mani stroppiate dalla chiragra» (Becci, 1783, p. 81), Pandolfi dipinse, accanto allo scenografo Nicolò Sabbatini, la fascia monocroma sotto il soffitto con angeli e putti impegnati in opere di misericordia, i dieci teloni con scene vetero- e neotestamentarie sulle pareti, le Sibille ai lati dell’organo, i Santi a monocromo sui sedili e la pala con gli Angeli e il monogramma di Cristo sull’altare della sagrestia. La cupa religiosità dell’oratorio è esaltata dai toni spenti, dalle «immagini inquiete», «dalla tensione compositiva affannata, dall’eccitazione coloristica convulsa» (Calegari, 1976, p. 37) adottati dall’anziano pittore, che, pur mostrando una timida curiosità verso soluzioni più moderne, rimane saldamente ancorato alla cultura di partenza.
Per quanto concerne la grafica, già Carlo Cesare Malvasia (1678), dopo aver accennato al discepolato presso di lui di Simone Cantarini, ne parla come di un «bravo disegnante». Giudizio che appare confermato dalle ricerche, specialmente degli ultimi anni (Calegari, 2005, pp. 230 s.; Goguel, 2013), che hanno individuato un buon numero di fogli sparsi in diverse raccolte. Tra i disegni migliori, in sintesi, si possono rammentare l’Annunciazione della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (1592), che anticipa l’Annunciazione in S. Matteo a Roncaglia, presso Pesaro (Calegari, 2002, p. 207), la Visitazione dei Musei di Stato di Berlino, preparatoria del dipinto di S. Maria in Porto a Pesaro (1620 circa), l’Assunzione del Louvre, la Madonna e santi del Prado, il S. Giorgio della Biblioteca universitaria di Varsavia: fogli tanto zuccareschi che, prima di essere riconosciuti a Pandolfi, Philip Pouncey li aveva riferiti in gran parte a un ‘Master of the Zuccaro drawing at Windsor’ (Goguel, 2013, pp. 21 s.).
La scomparsa dell’artista si colloca poco dopo il 1636, anno in cui portò a termine la decorazione del citato oratorio del Nome di Dio.
Fonti e Bibl.: C. Malvasia, Felsina Pittrice, Bologna 1678, pp. 436, 447; A. Becci, Catalogo delle pitture che si conservano nelle chiese di Pesaro, Pesaro 1783, pp. 15, 22 ss.; E. Calzini, Di G.G. P. e di un suo quadro ignorato, in Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana, VI-X (1916), pp. 75-78; A. Sacchetti Sassetti, La giovinezza di G.G. P. da Pesaro, Rieti 1955; G.M. Calegari Franca, L’Oratorio del Nome di Dio in Pesaro: alcune note sull’opera di G.G. P., in Notizie da Palazzo Albani, V (1976), 1, pp. 33-37; L. Arcangeli, in Pittori nelle Marche tra ’500 e ’600 (catal.), Urbino 1979, pp. 96-99, 102 s.; Id., in 1631-1981. Un omaggio ai Della Rovere, Urbino 1981, pp. 81-86; F. Abbate, in Un’antologia di restauri (catal.), Roma 1982, pp. 62-67; B. Cleri, G.G. Pandolfi a S. Angelo in Vado, in Notizie da Palazzo Albani, XII (1983), 1-2, pp. 176-180; F. Tesini, in Progetti e ricerche della città di Pesaro, 8, Pesaro 1985, p. 89; L. Barroero - L. Saraca Colonnelli, Pittura del ’600 a Rieti, Rieti 1991, pp. 9, 42-51; G. Calegari, G.G. P., i Della Rovere e la corte di Spagna, in I Della Rovere nell’Italia delle corti. Luoghi e opere d’arte, Atti del convegno… Urbania 1999, Urbino 2002, pp. 205-222; Id., in Nel segno di Barocci, Roma 2005, pp. 220-233 (con bibl.); Pittura baroccesca nella provincia di Pesaro e Urbino, a cura di B. Cleri, Pesaro 2008, pp. 49, 75 s.; G. Calegari, La chiesa del Nome di Dio a Pesaro, Pesaro 2009; Id., Scoperte e restauri: nuove opere del P. (catal.), Pesaro 2009; C. Monbeig Goguel, G.G. P., dessinateur des Marches, in Paragone, 2013, nn. 109-110, pp. 18-33 (con bibl.); U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, p. 193.