SEMPRONIO, Giovan Leone
– Primogenito di cinque fratelli, nacque a Urbino il 28 marzo 1603, da Sempronio e Maria Veterani, in una famiglia nobile originaria di Fossombrone.
Il padre, tre volte gonfaloniere della città, era stato uditore e consigliere di Ranuccio I Farnese a Parma. Educato nel prestigioso collegio Ancarano di Bologna vi studiò poi, malvolentieri, per cinque anni diritto. Prese parte con il nome di Vigilante alla locale Accademia della Notte, fondata nel 1622 da Matteo Peregrini e posta sotto la protezione del cardinale Ludovico Ludovisi.
L’Accademia, la cui impresa era un cielo stellato con il motto «VERTITVR INTEREA», era frequentata da personaggi illustri della cultura bolognese, fra cui Claudio Achillini, Cesare Rinaldi, Andrea Barbazza. In linea con la tradizione del tardo Rinascimento padano, essa si rifaceva soprattutto al magistero poetico dellacasiano.
Non sappiamo quando Sempronio vi aderì, certo partecipò con quattro sonetti alla prima raccolta di Lezioni e rime di quei della Notte..., stampata da Clemente Ferroni (Bologna 1624, pp. 72 s.), oltre che alle due successive (Rime di quei della notte..., rispettivamente Bologna 1627, pp. 30-36, e 1631, pp. 27-50).
Nel 1623 fece ritorno a Urbino dove esercitò l’avvocatura e ricoprì alcuni incarichi pubblici: amministratore del consiglio comunale dei Quaranta e gonfaloniere nel 1640 e 1645 (Provasi, 1901, p. 2). Urbino, che era stata una delle più raffinate corti del Rinascimento, dopo la devoluzione allo Stato pontificio nel 1631 (alla morte di Francesco Maria II Della Rovere: ma de facto già dal 1624 con la morte senza eredi maschi dell’ultimo duca Federico Ubaldo), era avviata a una rapida e inesorabile decadenza. A questo periodo risale la partecipazione di Sempronio all’Accademia degli Assorditi, la cui impresa era la nave di Ulisse con il motto «CANITIS SVRDIS». Vi prese parte col nome di Fuggitivo almeno dal 12 maggio del 1623, giorno in cui recitò una lezione sulla vigilanza. Il 3 agosto di quell’anno vi lesse il primo atto della tragedia Il Conte Ugolino. Mancano altre notizie fino al settembre del 1631, quando intervenne nelle sedute accademiche; il 26 febbraio 1632 fu eletto vicepresidente. Dell’attività accademica di Sempronio dal 1632 al 1646 nulla sappiamo perché manca la documentazione archivistica relativa. Nell’agosto del 1632 aspirò senza successo a un posto di bibliotecario della libreria dei manoscritti. Il 19 maggio 1639 ricevette l’eredità dallo zio.
Come abbia trascorso gli ultimi anni di vita ci è ignoto, solo sappiamo che fu tormentato da una «dolorosa infermità» (forse la gotta).
Morì in Urbino, a soli 43 anni, il 31 dicembre 1646.
L’unica opera da lui pubblicata in vita fu La selva poetica (Bologna 1633), edita presso Ferroni e dedicata al cardinale Giovan Francesco Guidi di Bagno. Il titolo fu forse ispirato dalla Selva di Parnaso di Antonio Bruni, uscita nel 1615: ma se Bruni proponeva una selva in senso proprio, assemblando vari metri e soggetti, La selva di Sempronio contiene solamente sonetti (come le Rime del 1602 di Giovan Battista Marino). La selva poetica si struttura come un ‘bosco’ letterario in cui le diverse piante corrispondono ad altrettante sezioni tematiche: mirto/amorose, palma/eroiche, cedro/sacre, cipresso/lugubri, alloro/morali. Ogni sezione è preceduta da una prosa introduttiva sulle valenze simboliche dell’albero in questione e sulla sua presenza nella mitologia, nella letteratura, nell’impresistica, nell’iconologia.
Le donne cantate nel Mirto, quasi certamente fittizie, sono assai numerose e sono descritte secondo il modulo della predicazione multipla e pluriprospettica tipico della poesia barocca. Il celebre sonetto Move zoppa gentil piede ineguale fu lodato da Matteo Peregrini nel trattato Delle acutezze (1639, p. 255), mentre la purezza della lingua toscana della Selva fu elogiata dal severissimo Leone Allacci: «quam facile non modo atque expedite sed quam ornate insuper, ac facunde» (Dedicatoria a G.F. Slingelando in Allacci, 1635, p. n.n. [ma 3]). Notevole nell’Alloro la serie di venticinque sonetti sull’orologio, uno degli oggetti feticcio dell’immaginario barocco. La selva venne ristampata postuma a Bologna nel 1648 con l’aggiunta di una Seconda parte (costituita da sonetti amorosi, celebrativi, funebri, sacri, morali, non ordinati in sezioni), per cura del fratello Carlo, decano della cattedrale di Urbino: nell’avvertenza A chi legge egli parla di «odi pindariche, bizarie, canzonette e drammi per musica, canzoni, idilli, ottave et altri» inediti in suo possesso e accenna sia alla tragedia il Conte Ugolino sia al poema il Boemondo, entrambi usciti postumi. La terza edizione della Selva, comprendente parte prima e seconda, uscì ancora a Bologna nel 1675 insieme con le poesie di Ciro di Pers e Girolamo Preti.
Gravitano pesantemente nell’orbita farnesiana le due opere postume: il poema in venti canti Boemondo o Antiochia difesa (Bologna 1651), pubblicato dal fratello Ferdinando e dedicato a Ranuccio II Farnese, e la tragedia il Conte Ugolino (Roma 1724), uscita a cura del bisnipote Giovan Francesco con dedica al cardinale Annibale Albani, nipote di Clemente XI. Il Boemondo è un poema d’ispirazione tassiana, considerato da molti, insieme al Conquisto di Granata di Girolamo Graziani, tra i pochissimi felicemente riusciti nel Seicento. Narra, tra battaglie, incanti, amori, erranze, viaggi iniziatici e interventi celesti, l’antefatto della Gerusalemme liberata, ossia la difesa di Antiochia, strappata nel corso della prima crociata da Boemondo I d’Altavilla al re Cassiano tra il 1097 e il 1098. Molto evidenti sono le filigrane attualizzanti. Non solo molto spazio è dedicato alle peripezie degli amanti Gildippe e Odoardo, presunti ‘antenati’ della casa Farnese, ma alcune imprese di Boemondo stesso alludono a episodi di cui fu protagonista Alessandro Farnese durante le guerre di Fiandra. Né vi manca l’eco dell’affaire Galileo. In uno dei momenti di massima decadenza e sfortuna del genere tragico, colpisce la tragedia (in cinque atti e quattro cori, senza prologo) Il Conte Ugolino, già completata nel 1632 stando alla Dedicatoria della Selva. Nonostante il titolo, la tragedia si occupa quasi interamente di Manfredi, nipote di Ugolino. L’argomento dantesco, decostruito e attualizzato in chiave storica, è mescolato all’elemento amoroso e romanzesco (gli amori di Manfredi e Angioina). Anche se il modello è il Torrismondo tassiano, nel Conte Ugolino sono molto visibili le allusioni alle molte congiure che insanguinarono il piccolo ducato farnesiano e il dissidio amore/onore/ ragion di Stato.
Opere. Fra le opere o edizioni non citate nel testo: La selva poetica, Bologna 1675; Prologo ed intermezzi composti da G.L. Semproni per la Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli, Rocca San Casciano 1899; Il mirto. Sonetti amorosi, a cura di G. Cerboni Baiardi, Urbino 1961.
Fonti e Bibl.: L. Allacci, De erroribus magnorum virorum in dicendo, Roma 1635; M. Peregrini, Delle acutezze, che altrimenti spiriti, vivezze, concetti volgarmente si appellano, Genova 1639; G.M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, I, 5, Roma 1698, p. 345; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, IV, Bologna 1739, p. 688; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, I, Bologna 1781, p. 19; A. Lazzari, Dizionario storico degli uomini illustri di Urbino, in G. Colucci, Antichità picene, XXVI, Fermo 1796, p. 262; F. Ugolini, Storia dei conti e dei duchi di Urbino, II, Firenze 1859, pp. 462-494; P. Provasi, G.L. S. e il secentismo a Urbino, Fano 1901; E. Bertana, La tragedia, Milano 1906, ad ind.; B. Croce, Lirici marinisti, Bari 1910, pp. 94-101; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano 1912, p. 265; M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, I, III, Bologna 1929, s.v.; G.G. Ferrero, Marino e i marinisti, Milano-Napoli 1954, ad ind.; G. Getto, Lirici marinisti, Torino 1962, pp. 205-216; M. Scotti, S. G.L., in Enciclopedia dantesca, Roma 1970, p. 155; Storia letteraria d’Italia, Il Seicento, a cura di C. Iannaco - M. Capucci, Milano 1986, ad ind.; V. Bonito, L’occhio del tempo. L’orologio barocco tra letteratura, scienza ed emblematica, Bologna 1995; E. Raimondi, La metafora ingegnosa. La letteratura a Bologna nell’età del Reni, in Id., Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna 1995, pp. 21-53; Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia poetica del Seicento, a cura di V. Bonito, Palermo 1996, pp. 92-116; Storia della letteratura italiana, V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma 1997, pp. 688-692, 728 s.; Antologia della poesia italiana, a cura di C. Segre - C. Ossola, II, Quattrocento-Settecento, Torino 1998, pp. 967 s.; L. Giachino, G.L. S. tra «lusus» amoroso e armi cristiane, Firenze 2002; D. Foltran, Per un ciclo tassiano. Imitazione, invenzione e ‘correzione’ in quattro proposte epiche fra Cinque e Seicento, Alessandria 2005, pp. 187-211; T. Artico, Un imperfetto capitano nell’epica barocca. Il “Boemondo” di G.L. S. come antitesi di Goffredo, in American International College, XV (2015), 1, pp. 31-40; S. Bazzichetto, La Selva delle donne di G.L. S., in Canzonieri in transito. Lasciti petrarcheschi e nuovi archetipi letterari tra Cinque e Seicento, a cura di A. Metlica - F. Tomasi, Milano-Udine 2015, pp. 111-130.