BURIGOZZO, Giovan Marco
Nato a Milano, in data imprecisabile, era un umile "merzaro", ma non completamente illetterato, come lascia intendere lo stile della sua cronaca, uno stile certamente ignaro di ricercatezze letterarie, carico di dialettismi e di pesantezze gergali, e tuttavia apprezzabile per una sua rozza precisione linguistica e narrativa, in cui si esprime una visione del mondo estremamente convinta, se pure altrettanto circoscritta. Il B. doveva avere anche esperienze e conoscenze che andavano al di là della sua modestissima condizione sociale: egli stesso fa cenno ad un suo viaggio a Venezia, che non era impresa da poco per un uomo del suo ceto e del suo tempo.
La cronaca del B. inizia con l'anno 1500 e giunge sino al 1544: essa coincide perciò con il momento più drammatico della vita milanese, con le vicende che portarono al dominio della città e dello Stato di volta in volta i Francesi, gli Sforza e finalmente gli Spagnoli, in un sanguinoso ripetersi di guerre, di assedi, di carestie, di epidemie, in un panorama italiano e internazionale raramente rischiarato da un momento di pace e di speranza. Il B. fu spettatore attento e appassionatamente partecipe degli eventi della sua città e del suo tempo e la Cronica costituisce per molti rispetti una fonte storica di grande importanza, e anzi, in taluni casi, addirittura insostituibile.
Non che sui grandi eventi dell'epoca la testimonianza del B. sia particolarmente larga e sicura: al contrario, la sua informazione è spesso pateticamente sommaria e lacunosa, ancora più spesso incongrua. Già l'editore della Cronica milanese, Cesare Cantù, rilevava i curiosi abbagli dell'umile "merzaro", per il quale il principe d'Orange era un borgognone e il pontefice Paolo III apparteneva alla famiglia Orsini.
Neanche le vicende milanesi, del resto, trovano nella narrazione del B. una fonte specialmente ricca e attendibile. Egli apparteneva a un ceto drasticamente escluso dalla direzione della vita politica e amministrativa dello Stato, non godeva di parentele, né di relazioni, né, tanto meno, di protezioni tra i ceti dirigenti, tra i "gentiluomini" o tra i burocrati dell'amministrazione milanese, dove gli fosse possibile attingere le sue notizie. In nessuna occasione, neppure marginalmente, egli apparve tra i protagonisti della vita cittadina, condannato dalla modestia della condizione sociale, e, ancora di più, dalle ristrettezze economiche che ne facevano una troppo umile appendice del ceto mercantesco, a essere soltanto oggetto e vittima degli avvenimenti. Ma è proprio qui il maggiore motivo di interesse della sua dimessa narrazione.
Nella cronaca del B. la storia del tempo, i grandi avvenimenti politici, militari, religiosi, i protagonisti di un'epoca fastosa e gloriosa, riproposti in una dimensione insolita ma non per questo meno reale sembrano perdere la loro patina prestigiosa, dissacrati dall'ottica parziale, ma sostanzialmente non deformante di un osservatore paziente, e però non rassegnato. Si esprime nel B. la sorda protesta dei più umili ceti cittadini, non certo i più infelici, se si paragonano le loro sofferenze e miserie a quelle delle plebi rurali, ma tutt'altro che disposti a esaltarsi per l'epica grandiosità degli eventi: ed è una testimonianza che non suggerisce soltanto qualche discutibile tocco di colore plebeo alla ricostruzione storiografica, né autorizza improbabili alternative metodiche di rivalutazioni storiche dei ceti subalterni, al limite del folclore e dell'etnologia, ma rispecchia propriamente i limiti della grande politica del tempo, definisce nei margini dell'assurdo delirio ideologico la sfrenata gara di supremazia tra le potenze, la riduzione dello Stato a mera espressione di una volontà di dominio, col sacrificio di ogni organico rapporto con la società civile.
Del resto l'ostilità dell'onesto "merzaro" non va, o non va soprattutto, ai massimi protagonisti della storia contemporanea, ai supremi responsabili dei destini umani, ai promotori di quegli interminabili conflitti, perché il fiducioso B. vede in questi soltanto gli strumenti della volontà di Dio, della sua vendicativa giustizia. La sua animosità si rivolge piuttosto contro i "gentiluomini", signori apparentemente esclusivi della vita cittadina, in nome dei "veri homini", che sono per lui quelli del suo ceto, uomini la cui modesta ma alacre fatica alimenta in effetti l'amata Milano. Questo spirito di corpo suggerisce al B. atteggiamenti curiosamente esclusivi, a un tempo verso i "gentiluomini" e verso la plebe, alla quale riserva un sussiegoso disdegno, sebbene la sua condizione civile sia più prossima a questa che non ai maggiori mercanti e artigiani. Così, narrando come, nel 1525, all'appressarsi dell'esercito francese, si formarono tra la cittadinanza compagnie volontarie per difendere le mura, sottolinea che i volontari, in numero di 20.000, erano tutti "gente menudra", e si abbandona a un patetico compiacimento: "era una gran cosa questa, de questa concordanza de tutta questa generazione, perché de queste compagnie non se ne impazava gentilomo nessuno". E, d'altra parte, ricordando le prediche in duomo di un romito senese, e il favore che avevano incontrato, sottolinea che soltanto la "canaglia ignorante et femenesse" gli avevano mostrato "fede admirabile, cosa che io mai non ebbe".
Un aspetto particolare, ma importante, della Cronica è stato specialmente studiato e assunto come espressione tipica dei sentimenti e della ideologia del popolo milanese: la sua religiosità. Agli storici della vita religiosa milanese - in particolare al Barbieri e allo Chabod - il B. appare come l'esponente caratteristico del tradizionalismo religioso di vasti ceti della sua città. Cattolico fervente, devoto seguace della Chiesa ufficiale, la sua condanna degli eretici e degli innovatori non concede niente neppure alle necessità di riforme disciplinari, ormai unanimemente sentite anche dalla gerarchia ortodossa. Chi se ne faceva portavoce, a parere del B., "era causa di gran male, perché nel suo predicar non faceva se non dir male de preti et frati; et altre cose assai inconveniente". Soltanto una volta il B. protesta contro "questa indulgenza così larga" che un frate vendeva in duomo; ma il caso era effettivamente clamoroso, tanto che il frate venne riconosciuto come impostore. E c'era nel B., assai pronunciato, il compiacimento per il fasto opulento della liturgia cattolica, per le "cose grande de apparato e de offizii e de luminari", che era pure espressione tipica del sensualismo intrinseco alla religiosità ortodossa cinquecentesca, semmai con una accentuazione particolare per la sua fedeltà al tradizionale rituale ambrosiano, il "vero stilo", del quale vede con rammarico e rimpianto il progressivo abbandono a causa dei tempi "così contrarii".
Ma il vero monumento eretto dal B ai suoi tempi rimaneva per lui la cronaca, continuata con affettuosa cura per quasi mezzo secolo di una vita estremamente incerta e affannosa; sentendosi in punto di morte, era costretto a interromperla, e ne avvertiva il lettore, ma si compiaceva di pensare che un suo figliolo l'avrebbe continuata. Avvertiva, infatti, il lettore che avrebbe potuto leggere il seguito degli avvenimenti "nella cronica di mio filiolo; imperocché, per la morte che mi è sopragiunta, non posso più scrivere". Se il B. fu buon profeta per quello che riguardava la sua prossima, fine, che in effetti non dovette tardare oltre il 1544, non lo fu altrettanto per il destino della sua amata cronaca: non risulta infatti che essa fosse effettivamente continuata.
Fonti e Bibl.: Cronica milanese di G. B merzaro dal 1500 al 1544, in Archivio storico italiano, III (1842), pp. 419-552; F. Barbieri, La controriforma nello Stato di Milano da Sant'Antonino a San Carlo Borromeo, in Boll. della Soc.pavese di storia patria, XIII (1913), pp. 123 ss.; F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, Roma 1962, ad Indicem;G. L. Barni, La vita culturale a Milano dal 1500 alla scomparsa dell'ultimo duca Sforza, in Storia di Milano, VIII, Milano 1957, pp. 433 ss.