CECCHI, Giovan Maria
Nacque a Firenze il 15 maggio 1518da Bartolomeo o Baccio di Sano Cecchi, famiglia del quartiere di Santa Croce, e da una Sannini, figlia di un farsettaio.
Primogenito di altri due fratelli, Agostino e Bartolomeo, il C. si assunse gli oneri di capofamiglia da quando, nel 1530, il padre fu ucciso da tal Fabrino del Grilla da Castagno. Non risulta che l'assassino venne perseguitato sotto il ducato di Alessandro de' Medici; gli eredi, rimasti orfani anche della madre, che morì quasi subito dopo il marito, richiesero invece a Cosimo I che facesse giustizia.
Non si hanno notizie precise circa gli studi e la sua preparazione letteraria, che dové tuttavia essere precocemente indirizzata verso le forme teatrali di imitazione classica (Plauto, Terenzio) che avevano avuto di recente i più prestigiosi rappresentanti nell'Ariosto e nel Machiavelli. A questa predilezione per un preciso genere letterario è da aggiungersi un naturale impulso narrativo, che dalla frequentazione della novellistica boccaccesca poteva verosimilmente risolversi in attività di commediografo, come, peraltro, era da riscontrare (esempio vivente, il Lasca) una confluenza verso la rappresentazione scenica di una ricerca linguistica orientata nel senso "realistico" della tradizione dantesca, e passante, attraverso la documentazione dell'attività berniana, fino all'ipotesi di una fiorentinità privilegiata ed esteticamente sufficiente da cui non si era sottratto neanche il Machiavelli teorico della lingua.
Alle soglie del parassitismo accademico della Crusca documentano siffatti atteggiamenti del C. alcune sue opere, che vennero pubblicate a Firenze: Descrizione di molti proverbi e detti e parole della nostra lingua (1557), Lezione ovvero Cicalamenti di maestro Bortolino del canto de' Bischeri sopra il sonetto [del Berni] Passeri e Beccafichi (1582),che, lungi dal risolversi in occasionale condiscendenza alla moda del tempo, gettano una luce sulla maggiore produzione teatrale del C., permettendo di stabilire nessi tra la fantasia scenica e una pigra consuetudine linguaiola.
Di politica il C. non si interessò direttamente, assuefacendosi senza travagli al regime mediceo. Invano si ricercherebbero nella sua opera echi di quella opposizione che si era manifestata in maniera drammatica durante l'assedio di Firenze: episodio che pure dové costtuire un evento centrale nella vita del giovane Cecchi. Notaio, come il padre, dal 1542 al 1577, esercitò con successo la professione ed ebbe uffici minori: fu proconsole notaio dei pellicciai e cancelliere dei maestri dei contratti. Esercitò il commercio della lana ed amministrò con saggezza il patrimonio domestico provvedendo ad una famiglia abbastanza numerosa (dalla moglie Marietta Pagni ebbe quattro figli: Baccio, Ginevra, Nicolò, Marietta, per i quali realizzò matrimoni onorevoli). Alternava le amicizie di affari (con gli Adimari, i Baldesi) con le relazioni più strettamente inerenti all'attività di commediografo e fu in rapporti quotidiani con alcune tra le più rinomate compagnie fiorentine dell'epoca (la brigata dei Fantastici, la compagnia di S. Sebastiano dei Fanciulli, quella di S. Marco) che davano spettacolo sia in teatro sia in conventi, educandati e confraternite.
Iniziò la propria attività come classicista e la concluse come autore di testi edificanti in quel clima alquanto ristretto di cultura e già votato all'indirizzo controriformistico che fu la Firenze di Cosimo I e poi di Francesco I. Non si esibì mai in enunciazioni di principio, non dettò teorie sulla lingua e sul teatro né intrattenne relazioni degne di nota con i maggiori letterati del tempo. Scrisse soltanto per il teatro (più di sessanta lavori in prosa e una mastodontica serie di versi sciolti - ad imitazione dell'Ariosto - sia per commedie originali sia per rifacimenti di precedenti stesure in prosa) con una superficialità e una coscienza in fondo così manifesta del proprio dilettantismo, da confessare di non aver mai più di dieci giorni per dar vita a una rappresentazione. In vecchiaia dovettero ancor più ulteriormente restringersi gli orizzonti di cultura e immiserirsi gli intendimenti di una attività sempre esteriore, bilanciata fra edonismo e moralismo. Si rendono più insistenti le definizioni che l'autore fornisce di sé come "dolcione", "omiciatto fatto del ceppo che non ha perduto di vista la cupola o poco", "fatto alla piazza", mentre in un'ottava edita dal Rigutini (per nozze Tanganelli-Bojer, Firenze 1880) il C. si rappresenta in un clima di scettica e disincantata indifferenza per tutto ciò che lo circonda ("S'io vedessi volar non un cavallo, / ma un asino, lo reputo il Pegaso, / e fatto omai per tante cose il callo, / a ogni odore ho accomodato il naso. E non mi lievo sebben canti il gallo, / se il dì non vedo, e fo come fa Maso, / che, domandato, usa di dire: / Farò, farò quel ch'e 'sa riuscire".
Al limite fra una serena autocritica e la confessione di una oggettiva limitatezza nello spazio d'azione che è comune a rappresentanti di ben diverso calibro dell'intellettualità fiorentina tardorinascimentale, tali attestazioni rivelano soprattutto un compiaciuto ed equivoco contrasto con la notorietà, gli agi e la stima personale che il C. seppe conquistarsi nell'estrema stagione della vita. Estraniandosi progressivamente da una consuetudine cittadina, amò trascorrere lunghi periodi della senilità in un podere presso Lastra a Signa, nella villa a San Martino a Gangalandi, ove morì il 19 ott. 1587, lostesso anno in cui si spensero Francesco I e Bianca Capello. Ebbe onoranze funebri quali si addicevano a un possidente benefattore di pie istituzioni.
È invalso l'uso di distinguere la produzione del C. in commedie "osservate" (quelle di più decisa imitazione classica e in cui vengono, appunto, osservate le unità aristoteliche), commedie morali, drammi spirituali e farse. Questa distinzione ha una sua ragione d'essere pur essendo estrinseca e potendosi spesso trarre qualche motivo valido per trasferire alcune composizioni da un settore all'altro.
Tra le commedie "osservate" in cinque atti, si segnalano: La Dote, La Moglie (rappresentata nel 1545), Il Corredo (rappresentata nel 1546), Gli Incantesimi (rappresentata nel 1547), I Dissimili (rappresentata nel '48), L'Assiuolo (rappresentata nel '49), Lo Spirito, Il Donzello (rappresentata nel '50e replicata dieci anni più tardi), La Maiana (rappresentata nel '56), I Rivali, Il Medico (rappresentata nel 1557e replicata nel 1585 col titolo Il Diamante), Gli Scimiti o I Forzieri, Il Martello (preceduta da una prima versione in tre atti col titolo Gli Aggirati), Le Pellegrine (dedicata nel 1567 a Cosimo de' Medici), Le Cedole, Le Maschere (composta intorno al 1585 e rappresentata ancora nel 1622).
Delle commedie cosidette "morali" fanno parte, per non citare che le più note, Lo Sviato, Il Figliuol prodigo (rappresentata nel 1570) Il Duello della vita attiva e della contemplativa, Il Duello del disprezzo dell'amore e beltà terrena, Cleofas e Luca.
Sono da annoverarsi tra i drammi spirituali in cinque atti: La Morte del re Acab (rappresentata nel 1559 e replicata nel '75). La Coronazione del re Saul (rappresentata nel '69) Il Tobia, Il Cieco nato, Il Riscatto, La Conversione della Scozia, Sant'Agnese (rappresentata nel 1582), La Dolcina, L'Esaltazione della Croce (rappresentata nel 1585).
Infine tra le farse in tre atti vanno ricordate: La Serpe e la mala nuora (successivamente redatta in forma di commedia col titolo: Serpe ovvero Suocera e nuora), Acquavino (rappresentata del 1579), La Gruccia, Il Putto risuscitato, L'Acquisto di Giacobbe, I Malandrini, Il Sammaritano, La Pittura (prima stesura de Gli Incantesimi), Gli Aggirati (prima stesura della commedia "osservata" Il Martello).
Appena un cenno meritano la tragedia Datan e Abiron, un libro di Sermoni e un Sommario de' magistrati di Firenze, mentre qualche interesse rivela, sotto l'aspetto della diceria stravagante o scherzosa, del ritratto ben congegnato letterariamente più che sotto quello del ragguaglio storico, lo scritto Delle cose della Magna, Fiandra, Spagna e Regno di Napoli, composto probabilmente intorno al 1575.
Di questa abbondante produzione oggi soltanto qualcuna tra le più fortunate commedie "osservate" può riproporsi all'interesse dello spettatore moderno interessato non tanto all'opera di imitazione del teatro classico ("...confessa Terenzio / non si poter dire cosa, la qual dettasi / non sia dell'altre fiate", dichiarava lo scrittore nel prologo alla Dote) quanto all'esuberanza inventiva del C., all'intreccio di azioni secondarie che interferiscono nello svolgimento della trama, alla creazione di personaggi minori che talvolta riescono ad essere più convincenti dei protagonisti. Nell'Assiuolo, ad esempio, la commedia forse più nota del C., la storia (boccaccesca e machiavelliana) degli amori di Giulio e Rinuccio per la medesima donna (Oretta) si - sdoppia in quella del soddisfacimento che il primo ottiene possedendo l'amata e il secondo lai sorella di lei Violante proprio tramite lo stratagemma ideato in favore di Giulio dallo scaltro servo Giorgetto. Anche negli Incantesimi la duplicità della trama è fissata sulle voglie che assillano i vecchi Baldo e Nicolozzo per la giovane e avvenente Violante data in sposa allo Stramba. La storia si complica sulla traccia dei raggiri che certi imbroglioni inventano ai danni dei due pretendenti, i quali credono ingenuamente negli incantesimi per poter conseguireil fine dei loro desideri, fino a che non vengono caricati a suon di bastonate dal marito di Violante.
E pure nei casi in cui si ha l'impressione di assistere a una vicenda più lineare (ma si tratta quasi sempre di una sconcertante ovvietà: nella Stiava l'orditura "romanza" della commedia prevede che padre e figlio si innamorino della medesima fanciulla, che ovviamente è stata rapita dai corsari molti anni prima: alla fine trionfa l'amore tra i giovani e il vecchio si trova ad avere per nuora colei che avrebbe voluto avere per amante) la rappresentazione si complica per il peso scenico dei personaggi di contorno che hanno unapersonale esperienza da far valere, per le tirate retoriche dei protagonisti, per le troppo lunghe pause narrative che finiscono per sviare l'attenzione del pubblico.
Vero è che nel C. viene meno il ritmo della rappresentazione rinascimentale; ciò che il Vallone ha identificato come una propensione narrativa del commediografo fiorentino si rivela in realtà come una pregiudiziale che inficia l'agilità del gioco scenico e concorre a segmentare lo svolgimento della trama in una serie di inutili ristagni. Ne fornisce forse l'esempio più convincente il finale del troppo celebre Assiuolo, in cui i due studenti ex rivali si riconciliano e confermano la reciproca amicizia "raccontando" trionfalmente il felice esito dei loro amori, sì che l'esito della commedia coincide con una pausa di sentore novellistico, nonostante il tentativo di rivitalizzarne in extremis l'intreccio tramite l'introduzione di un nuovo e tardivo personaggio, Uguccione, fratello di Oretta.
Troppo schematici e privi di un effettivo contenuto drammatico, si rivelano peraltro alcuni tipici personaggi da repertorio: il vecchio Ambrogio nell'Assiuolo, Filippo e Nastagio nella Stiava, mentre troppo saccenti sono i servi e gli imbroglioni, i parassiti, gli uomini d'arme, le false devote, le mezzane (ne presentano una vera galleria alcune tra le più sciatte commedie "osservate", come Il Serviziale e Il Medico), che costituiscono tuttavia i veri centri motori dell'esperienza letteraria del C. in quanto sono questi i personaggi che accendono la sua fantasia linguistica, rappresentando un malizioso costume cittadino in cui si sintetizza la "mediocritas" morale dell'autore e un ambiguo sentimento della libertà legato alla licenza delle espressioni, al mezzo scandalo delle parole ardite cauterizzate dal potere esorcizzante del proverbio o del ribobolo gustoso.
I critici - come l'Allodoli - che, di fronte a siffatti limiti, hanno tentato di anteporre alle commedie "osservate" le composizioni di contenuto religioso o edificante, hanno celato dietro la caratteristica della bonomia, del perbenismo spontaneo e in fondo disinteressato il ripiegamento pigro e intellettualmente equivoco al conformismo di una precisa politica culturale. Iacopo da Varazze (citato come fonte nel prologo della Gruccia) sostituisce Terenzio, il racconto biblico prende il posto del Decameròn nella stessa misura in cui il convento delle "reverende in Cristo madri" diviene il luogo di una rappresentazione non più scollacciata e ridanciana - anche se innocua nelle intenzioni e prevedibile nell'esito - ma ligia ai fini del "documento" edificante. Non vengono tuttavia meno in questo tipo di spettacolo né la dispersione degli intrighi (un esempio tipico: il Tobia, ove la trama di avventure che hanno come protagonisti Tobia il giovane, Sara e Azaria, l'arcangelo Raffaele si sovrappone nettamente a quella interpretata dal personaggio che dà il titolo all'opera), né l'esteriorità stupefacente delle soluzioni (nello Sviato Lamberto, giovane fiorentino, è raggirato dal diavolo che, sotto l'aspetto di un amico di famiglia, il sensale Mico, lo sta conducendo di giorno in giorno sulla cattiva strada; ma un vecchio, sotto le cui sembianze si cela un angelo, riesce a svelare la trama ingannevolmente architettata dal demonio e a ricondurre Lamberto alla salute dell'anima), né il bozzettismo schematico e insieme esuberante delle figure di contorno (al prodigio narrato nella Sant'Agnese fa riscontro l'ambiente tutto terreno e folkloristico di una miriade di personaggi disegnati alla brava, con un largo margine di indizi che rivelano tutt'al più l'esperto mestierante: Diluvia e Lascone, servi famelici; Gorizia, la cui origine tedesca si rivela per un'insaziabile disposizione al bere; Coppette, un ragazzo che non ha peli sulla lingua; Elpina, una pusillanime che manifesta lo squallore della propria indole assoggettandosi alle più arbitrarie richieste dei potenti). Quando non vi affiorano talune riserve direttamente rilanciate dalla cultura controriformistica, com'è quella - abbastanza aspra anche se velata con toni di tolleranza - e di paternalismo - contenuta nella Gruccia, ove si dimostra che "persino" un ebreo può essere più accettabile socialmente e più caro a Dio di un indegno cristiano.
Con quest'opera, tesa alla rievocazione dei miracoli di s. Nicola, siamo nell'ambiente della sacra rappresentazione, col relativo recupero di un'intera attrezzatura popolaresca (nel taglio scenico, nel linguaggio, nella spontaneità sentimentale dei personaggi) che corrispondeva alla più autentica vena del C. e collimava nel contempo con gli ideali retorici e più largamente persuasivi della Controriforma. Altrove, ad esempio nella Morte del re Acab, le matrici culturali ostentate dallo scrittore fiorentino sono più pretenziose e il tema dell'astuzia militare, che serpeggia nel fosco dramma spirituale, induce al ricordo del Machiavelli. Nella Conversione della Scozia non sono infrequenti gli echi della grande epica cinquecentesca, mentre affiorano con qualche insistenza, anche nei drammi di ispirazione devota, situazioni rapportabili alla trattatistica d'amore persino orecchiata attraverso l'impudica riproposta dell'Aretino. Ma sono poi spunti, questi, che rivelano ancora una volta l'indifferenza e il profondo senso di dilettantismo con cui si esercitò troppo lungamente il C., quando non testimoniano una sostanziale compatibilità di autori e di testi (ritenuti a torto compromettenti) nella prassi culturale che si stava forgiando a Firenze nell'ultimo scorcio del Cinquecento.
La fortuna, anche editoriale, del C. fu limitata ma assai significativa, potendosi individuare i tre momenti di maggior rigoglio nell'accademismo cruscante, nel purismo linguistico ottocentesco e nel movimento letterario di "strapaese" e "stracittà". La prima edizione veneziana (1550) comprende La Dote, La Moglie, I Dissimili, Gli Incantesimi, La Stiava, L'Assiuolo. Nel 1561 vide la luce a Firenze Il Serviziale, cui fece seguito nel 1585 il primo volume (di tre in preparazione) di commedie del C. comprendente La Dote, La Moglie, Il Corredo, La Stiava, Gli Incantesimi, Il Donzello, Lo Spirito, ristampate a Milano nel 1850 nell'edizione delle Commedie di G. M. Cecchi. Le Maschere e Il Sammaritano furono pubblicate per la prima volta a Firenze nel 1818 e due anni più tardi, sempre a Firenze, apparve la Dichiarazione di motti, proverbi, detti e parole della nostra lingua fatta da G. M. Cecchi a un forestiere che ne mandò a chiedere l'applicazione.
Nel clima di emulazione che animò gli editori Barbera e Le Monnier nei confronti del riscoperto autore fiorentino si ebbero, nel giro di due anni, le Commedie inedite a cura di G. Tortoli (Firenze 1855) e Le Commedie a cura di G. Milanesi (ibid. 1856), cui fece seguito - dopo una serie di ristampe parziali fra cui si segnala quella dell'Assiuolo a cura di E. Camerini (Milano 1860) - l'edizione delle Commedie a cura di A. Dello Russo (Napoli 1864). Allo stesso Dello Russo si deve l'edizione delle Poesie (ibid. 1866). A Milano, nel 1863, apparve l'Assiuolo, commedia di G. M. Cecchi, e Saggio di proverbi, per L. Fiacchi. Nel 1867 apparve a Bologna Il compendio di più ritratti circa l'anno 1575 nelle cose della Magna, Fiandra, Spagna, e Regno di Napoli, e, dopo una parziale ristampa di Commedie realizzata dal Sonzogno (Milano 1883) a cura di O. Guerrini, l'edizione dei Drammi spirituali inediti in 2 volumi (Firenze 1895-1900) curata da R. Rocchi. Nel corso dell'Ottocento si vogliono ancora segnalare le edizioni, talvolta pregevoli, de Le Maschere e Il Sammaritano (Firenze 1818), de I Malandrini (Firenze 1853), della Dolcina (Siena 1878), del Riscatto (Firenze 1880).
Ai primi del Novecento apparve La Pittura in appendice allo studio di U. Scoti-Bertinelli (1907) e Il Sammaritano (per intero) nel volume Le più belli pagine di G. M. Cecchi scelte da F. Allodoli (Milano 1928) al quale si deve in gran parte la notorietà del C. nel nostro secolo. Opere del C. furono inserite in quasi tutte le maggiori sillogi esistenti sul teatro del Cinquecento: Commedie giocose del Cinquecento, a cura di A. G. Bragaglia, Roma 1946; Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, I, Milano 1959; Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino, I, Milano 1962.
Bibl.: L. Fiocchi, Lettera sulla vita e le opere del C., nel vol. I della "Serie di testi di lingua" di G. Poggioli, Livorno 1813; A. Cesari, Ragionamento premesso alle commedie di Terenzio, Verona 1816; E. Camerini, Profili letterari, Firenze 1870, ad Indicem; C. Arlia, La "Dolcina", atto scenico fatto da G. M. C.,in Il Propugnatore, XVI (1883), pp. 1 ss.; A. Lombardi, Il prologo degli "Incantesimi" e la "Dolcina" di G. M. C., in Giorn. stor. d. lett. ital.,III (1884), pp. 74 ss.; A. Gregorini, Di una rassomiglianza fra "I Rivali" del C. e la "Casina" di Plauto, ibid., XII (1893), pp. 417 ss.; C. Mazzi, Un catal. degli scritti di G. M. C., in Riv. delle bibl. e degli arch., VII (1896), pp. 157 ss.; D. Biancali, La tragedia ital. nel Cinquecento, Roma 1901, passim; F. Rizzi, Le commedie "osservate" di G. M. C., Rocca San Casciano 1904; Id., Delle farse e commedie morali di G. M. C., ibid. 1907; U. Scoti-Bertinelli, Sullo stile delle commedie in prosa di G. M. C., Città di Castello 1906; Id., Di una farsa ined. di G. M. C. (La Pittura), in Miscell. di studi critici pubbl. in onore di G. Mazzoni, a cura di A. Della Torre-P. L. Rambaldi, Firenze 1907; A. Torelli, Il teatro italiano, Milano 1924, pp. 133ss.; A. Vallone, La vocaz. al racconto del C., in Humanitas, V (1950), pp. 303 ss.; Id., Avviamenti alla commedia fiorentina del Cinquecento, Asti 1951, ad Ind.; M. Apollonio, Storia del teatro ital., I, 2,Firenze 1951,pp. 154 ss.; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1954, pp. 370 ss.; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., ad Indicem; Enc. d. Spettacolo, III, coll. 300 ss.