MEMMO, Giovan Maria
MEMMO (Memo), Giovan Maria. – Nacque a Venezia, alla fine del 1503 o all’inizio del 1504, da Nicolò di Francesco e da Elisabetta di Giustiniano Giustinian.
Famiglia patrizia, del ramo di S. Marcuola, quella del M., dalle anguste condizioni economiche e di modesto rilievo politico; non del tutto stinta, tuttavia, la figura del padre, che risulta provveditore ai Dazi, della Quarantia criminal, capo della Quarantia, podestà a Budua, castellano a Pontevico, podestà a Cologna Veneta nel 1509 (e come tale tra i «venuti via» dopo il disastro d’Agnadello).
Giovinetto il M. frequentò la «schola» del pubblico precettore d’umanità Stefano Piazzoni. Questi, nel suo Praeexercitamentorum libellus (Venezia 1526, pp. n.n.; volto in italiano da E.A. Cicogna, Venezia 1840), enumerandovi i suoi migliori alunni segnalava il M. per una «declamatio» alla presenza d’insigni personalità attestante preparazione «in iure civili» e vocazione «ad causas forenses». Laureato in diritto a Padova, il M. sul finire del 1521 fu tra gli adolescenti patrizi versanti 10 ducati per un’anticipata ammissione al Maggior Consiglio. Il 10 febbr. 1529 sposò Francesca di Alessandro Zorzi; rimasto vedovo si risposò, il 7 ag. 1532, con Correra di Gian Francesco Correr.
Dalla seconda moglie ebbe due figli: Nicolò (nato, secondo gli alberi genealogici, all’incirca nel 1540, e morto nel 1605) e Giovan Battista (nato nel 1550 e morto il 1° ott. 1575). Nicolò, prima di imboccare la via della politica che lo porterà sino all’ingresso in Senato e nella zonta ordinaria di questo, punterà ai benefici ecclesiastici, senza comunque assumere veste ecclesiastica e nemmeno gli ordini minori, se sposò, il 22 ott. 1567, Lucrezia Priuli di Girolamo. Giovan Battista fu avvocato alle corti, ma una morte precoce interruppe una carriera appena avviata.
Il M. iniziò la sua carriera come avvocato alle corti; nell’«eletion» a savio agli Ordini dell’11 marzo 1532 è tra i 9 respinti per tentato broglio. Riammesso, comunque, tra i votabili nelle elezioni del 19settembre e 28 nov. 1532, fu eletto savio agli Ordini nel 1534; ufficiale alla Ternaria nova nel 1538-39, ufficiale al Dazio del vin nel 1542-43, provveditore sopra i Conti nel 1559-60, provveditore sopra i Dazi nel 1566-68; questa sequenza di cariche minori senza l’impennata d’un rettorato o di una ambasciata non è certo tale da conferire al M. un qualche risalto pubblico.
Forse anche per questo, il M., per entrambi i figli, preferì l’avvio alla volta d’una qualche rendita ecclesiastica. E, ancora nell’ottobre del 1551, al nunzio papale Ludovico Beccadelli chiese «una riserva» per Nicolò, non invano, se quello lo provvide di «un benefitio curato a Concordia che s’intitola santa Maria de Bresco». Ma doveva fruttar poco se, nell’ag0sto del 1553, il M. fece «instanzia» di «nuova provvisione». Qualcosa, a forza d’insistere, ottenne, se il figlio – che il nunzio Giovanni Antonio Facchinetti (il futuro papa Innocenzo IX) diceva essere «huomo», una definizione che induce ad anticipare la data di nascita del 1540 a lui assegnata, «d’honeste letture, di vita esemplare et di buonissimi costumi» – di lì a una decina d’anni è «decano di Cividal». Ciò non toglie che il M. chiese e richiese per lui «benefitio o pensione» di maggior consistenza, non senza che il nunzio Facchinetti lo raccomandasse caldamente a Roma tra la fine del 1567 e l’agosto del 1568, interessando lo stesso cardinal nipote Michele Bonelli, il quale, a sua volta, ne accennò al prozio materno, il pontefice Pio V, disponibile, a tutta prima, anche questi a «dar titolo» a Nicolò. Ma intercettate le aspirazioni di Nicolò dai concomitanti appetiti dei «Gabrielli» o Gabriel, un’influente famiglia ottimatizia, donde partì, nel 1568, una denuncia a carico del M. al Consiglio dei dieci; con questa lo si accusava d’assidua frequentazione della nunziatura. Convocato dai Dieci, il M. si giustificò accampando una «lite» di pertinenza dell’auditore di Facchinetti e la propria domanda – avanzata «molti mesi» innanzi – di «licenza» di frequentare la nunziatura. «Licentiato» il M. dai Dieci, non per questo i Gabriel desistono dal molestarlo, ora «per via de l’avogadore». In ballo la «badia», da darsi «in commenda», di S. Stefano a Spalato, dalla rendita annua di 400 scudi, di cui era stato beneficiario l’arcivescovo di Spalato Marco Correr, morto nel 1566. Perfino bramato da Nicolò e dal padre questo titolo. Ma lo chiesero, sostenuti dal Collegio, anche i Gabriel. Il M. si sarebbe accontentato d’una spartizione dei «frutti» tra Nicolò e Giovan Battista, l’altro suo figlio, il quale – come assicura Facchinetti – «attende a’ studii et è di buona indole». E poi ridusse ancora le sue pretese: sarebbe bastata per Nicolò una pensione di 100 scudi. E, intanto, a fine maggio del 1569, il papa tra i due litiganti scelse un terzo, ossia un certo abate Pesaro, forse Antonio Pesaro di Leonardo. Un duro colpo per il M., al quale non restò che approfittare della morte del fratello, con tutta probabilità naturale, Maresio, per avanzare la richiesta per il figlio Nicolò di «una capella dello studio in Roma» di cui quello era titolare. Così Nicolò avrebbe goduto d’una rendita di 50 scudi annui. Ma secco il diniego romano: il papa «fa mal volentieri gratie».
Senza il prestigio di un’affermazione politica, senza la soddisfazione d’una remunerata, ancorché modestamente, sistemazione dei due figli nella cornice dei benefici ecclesiastici, il M. non era che «gentilhuomo» veneziano «da ben sì, ma povero», come scrive Facchinetti di lui impietosito al punto da sostenere sempre quanto il M. chiedeva. Aveva, infatti, a cuore la sorte di questo patrizio. Forse il futuro pontefice non ignorava che il M. era, malgrado le condizioni disagiate, un intellettuale. Ma, con tutta probabilità, non ritenne utile farlo presente a Roma. Fatto sta che il M. un po’ si risarcì sul versante culturale, conseguendo in questo una certa fama.
Fu stampato a sue spese e dedicato al patriarca d’Aquileia, il cardinale Marino Grimani, il volume dell’Opera (Venezia, Bernardino Bindoni, 1537) del matematico greco Apollonio di Perge (o Pergeo) nella traduzione latina, più criticata che lodata, dello zio paterno Giovan Battista Memmo, in fama di «filosofo», amico di N. Tartaglia nonché, dal 1530, su designazione senatoria, lettore «mathematicarum artium». E fatto rivivere dal M., lo zio – il quale, «massimo philosopho a tempi nostri», gli fu «maestro» nella sua formazione intellettuale – nei Tre libri della sostanza et forma del mondo (ibid., G. Griffio - G. Farri e fratelli, 1545), un trattato tra l’astronomico e il filosofico in forma di dialogo, nel quale Giovan Battista Memmo risponde diffusamente allo stesso M. che, con le sue domande, gli fa da spalla. Due i dedicatari di questi dialoghi: uno è Carlo V, al quale il M., suo «humil servo», ha fatto pervenire il proprio testo ancora manoscritto, essendone rimeritato con il titolo di cavaliere; l’altro è Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore cesareo presso la Serenissima, che è uomo colto, appassionato intenditore e collezionista di codici, di studi cultore e promotore. Indicative le due dediche d’un deliberato omaggio, con il quale il M. idealmente si colloca oltre e fuori Venezia, guardando all’imperatore e ponendosi nel contempo, sotto la protezione del suo rappresentante a Venezia.
Non veneziano pure il cardinale fiorentino Niccolò Ridolfi, cui il M. dedicò L’Oratore (ibid., G. Farri e fratelli, 1545). Quest’opera, concepita a Padova – al M. più congeniale perché albergo delle «buone lettere» e «tranquillo porto» per la riflessione–, riproduce «ragionamenti» tra i nobili marciani Niccolò Querini, Giovanni Antonio Venier e Marcantonio Contarini (quest’ultimo podestà di Padova nel 1540), il dotto docente di diritto civile allo Studio Marco Mantova Benavides e lo stesso Memmo.
I dialoganti, memori del De oratore ciceroniano e con in mente pure i trattati di comportamento e di retorica del tempo, convergono nel proporre una figura dalla cultura compiuta e nel contempo contrassegnata da senso civico e da una ricca esperienza di uomini e paesi. Valorizzato quale mezzo espressivo il volgare in coincidenza con quanto propugnato dalla patavina Accademia degli Infiammati capeggiata da Sperone Speroni, il quale, strenuo assertore della lingua italiana, aveva stabilito che nel sodalizio «niuna lezione si leggesse che volgar non fosse» e aveva sostenuto la causa di questo nei Dialoghi pubblicati a Venezia nel 1542.
Ulteriore scritto a stampa del M. – probabile autore d’un anonimo Trattatelo di rettorica rimasto inedito (cfr. Ambrosini)– è il Dialogo…nel quale dopo alcune filosofiche dispute si forma un perfetto prencipe et una perfetta repubblica e parimente un senatore, un cittadino, un soldato et un mercatante… (ibid., G. Giolito de’ Ferrari, 1563).
Il testo era stato anticipato dai Ragionamenti di cose di governo…, rimasti manoscritti: questi riproducono un conversare che sarebbe avvenuto, all’incirca negli anni Quaranta, nel palazzo veneziano di Giovanni Corner, dove la visita del vescovo di Vicenza cardinale Niccolò Ridolfi invita al dialogo quanti vi si ritrovano, ossia il vescovo di Fiesole Baccio Martelli, Gian Giorgio Trissino, Hurtado de Mendoza, il patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani, il vescovo di Torcello Gerolamo Foscari, l’abate Francesco Loredan, il cavaliere gerosolimitano Giustiniano Giustinian, questi ultimi due in rapporto con Danese Cattaneo; e un po’ tutti gli ecclesiastici sopra menzionati interessati a M. Sanmicheli e A. Palladio. Il Dialogo è, invece, ritmato in tre tempi, in tre giorni, in tre ambienti: la casa romana di Bernardo Navagero, rappresentante marciano presso la S. Sede dal settembre del 1555 al marzo del 1558 e futuro cardinale; il «fresco» della vasta «vigna» sul versante meridionale di Monte Cavallo del patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani, tutta tripudio di «verdura», profumo di fiori, cinguettio d’uccelli; la «bellissima loggia» spalancata, quasi a signoreggiarla, sulla splendida «vigna» suburbana del cardinale veneziano Alvise Corner. Un’ambientazione stimolante ai pacati conversari che affascina un uomo come il M. costretto a un tenore di vita modestissimo e perciò incantato se numerosi servitori s’adoperano premurosi a porgere frutti deliziosi, a versare preziosi vini, ad allestire solleciti un «sontuoso desinare». Felice il M. quando a Roma nel maggio del 1556 per alcuni suoi «particolari negotii» è ammesso all’ascolto della conversazione di un’eletta cerchia costituita, oltre che dagli ospitanti Navagero, Grimani, Corner, dal fratello di quest’ultimo Federico commendatore di Cipro, dal vescovo di Torcello Girolamo Foscari, dal vescovo di Lesina Zaccaria Dolfin, dal priore di Roma e prossimo cardinale il fiorentino Bernardo Salviati, dai patrizi veneti Pietro Giustinian e Girolamo Dolfin e dall’ambasciatore cesareo a Roma Bernardino Hurtado de Mendoza, fratello del Diego dedicatario del trattato del M. sulla «sostanza» e «forma del mondo». Conversevole il raduno spontaneo, disposto a parlare, disposto a sentire. Ordinato il ragionare insieme nel disciplinato succedersi degli interventi: al «ragionamento», mai interrotto, svolto da un interlocutore succede il «ragionamento» dell’interlocutore subentrante. E «sommamente lodato» ogni «ragionamento» dagli astanti. Il dialogo si fa espressione d’una sorta di virtuale società delle buone maniere, nella quale si fa omaggio al mito di Venezia, si esalta l’agricoltura, si riconosce la passata grandezza della mercatura veneziana, non senza, tuttavia, che non affiori – in concomitanza con la diserzione, da parte del ceto ottimatizio marciano, del mare per volgersi alla terra – la persuasione del carattere deteriore del commercio marittimo troppo mirante al lucro e, come tale, incompatibile con il disinteresse auspicabile nelle funzioni pubbliche. Da destinare queste a cittadini tranquillamente fruenti di «rendite» terriere. Assolutamente inammissibili all’amministrazione dello Stato gli «artefici», per definizione «privi di virtù», e, a maggior ragione, la «plebe». Riscontrabile, lungo lo svolgersi dei ragionamenti, il riecheggiamento – talvolta sussurrato, talvolta banalizzato, talvolta camuffato; è del 1559 la messa all’Indice del segretario fiorentino – di taluni passi machiavelliani. E, a volte, isolabili ritagli, ricalchi, citazioni pressoché letterali. Sicché, accennando a Venezia che, errando, non ha costituito una milizia propria, ecco il secco enunciato che «non si può, né deve far fondamento una repubblica in altre armi che nelle proprie». Sicché posto l’accento sull’importanza della «pratica» e dell’«esperienza». Sicché sull’umanistica predilezione per il principe umano, colto, magnanimo prevale – nel «ragionamento» di Federico Corner – quella per il sovrano energicamente operativo, la cui «vera et principal professione» sia quella della «peritia militare», non già di quelle «scientie et dottrine» con le quali non risulta «alcuno habbia guadagnato dominio o stato». Instrumentum regni la religione: con la religione Numa Pompilio diventa «patrone» dell’altrimenti «feroce popolo» romano. Evidente il rimbalzo da N. Machiavelli secondo il quale il secondo re dell’antica Roma, «trovando uno popolo ferocissimo», con la religione lo riduce alle «obedienze civili».
Il Dialogo del M. fu pubblicato in coincidenza con la conclusione dell’assise tridentina; il terzo libro è dedicato a Bernardo Navagero, «legato apostolico e presidente del sacro concilio di Trento» e dal 1561 cardinale. Forse così il M. si cautelava: i sentori machiavelliani non gli sarebbero stati rimproverati visto che la prolungata conversazione del 1556 ha preso le mosse nel palazzo romano dell’allora ambasciator Navagero. Quanto agli altri due libri – il primo dei quali riprende antecedenti «ragionamenti» che, non pubblicati, son stati dedicati, ancora il 28 dic. 1548, al futuro re di Spagna Filippo d’Asburgo e, con testo pressoché identico, nel 1554, a Francesco Venier, appena eletto, l’11 giugno, doge – la dedica va all’«invitta maestà» del re dei Romani Massimiliano. Fiero del cavalierato conferitogli da Carlo V, il M. – che nel dicembre del 1562 era stato «membro, benché minimo» della delegazione veneta inviata a complimentarsi, appunto, con Massimiliano per l’elezione, del 30 novembre – è animato dalla speranza che, con il favor divino, il dedicatario «debba ritornar al mondo l’età aurea». Proprio quando Venezia sta sublimando la propria media entità in aurea mediocritas, il M. fa appello a una generalizzata pax asburgica, mentre, nel primo libro in cui si delinea il profilo del principe perfetto, questo finisce con l’assumere il sembiante di Carlo V, dal M. rimpianto.
Carente il Dialogo del M., nella misura in cui, se vi è delineato il senatore, non avviene altrettanto con la figura del «gentilhuomo» creatura del principe. Intenzione del M. è far discorrere del cortigiano in un quarto libro – dedicato, ancorché inedito (cfr. Ambrosini), questa volta al cardinale Alessandro Farnese, delle «qualità più convenienti ai sacerdoti» –, nel quale, sempre nella vigna del cardinale Corner, la conversazione, ancora una volta sollecitata da Navagero, si prolunga tra gli stessi interlocutori cui s’aggiungono quattro prelati, tra i quali i cardinali Alessandro Farnese e Giovanni Morone. Il tema è tale da permettere un allineamento con le indicazioni della Controriforma e da autorizzare la dedica a un personaggio di spicco della corte romana dal quale il M. – nel frattempo in difficoltà a Venezia per la denuncia dei Gabrieli – s’attende protezione. Grato – ritiene il M. – al cardinal Farnese un dissertare nel quale si stabilisce come dev’essere l’uomo di Chiesa: umile, casto (donde la celebrazione del celibato che offre il destro a una furente invettiva misogina di Bernardo Salviati), dalla condotta irreprensibile, ardente di fede e carità, tutto amore per il prossimo, tutto brama di giustizia, tutto proteso alla santità.
Forte di questo quarto libro edificante e della dedica a Farnese, il M. si recò a Roma, sperando, con l’appoggio del cardinale (il quale, si augura, potrebbe anche diventar papa), d’ottenere un qualche vantaggio per i figli e anche una qualche sistemazione romana per sé nella «felice ombra» di Pio V. E nell’andare a Roma il M., nel maggio del 1569, fece tappa a Macerata; qui il M. discorre con Giovanni Girolamo Albano e suo figlio Giovan Battista riportato nel Dialogo del ragionevole amore et vera amicitia, anche questo non pubblicato (cfr. Ambrosini), anche questo dedicato al cardinale Farnese, protettore dei «tribulati» e dei «poveri virtuosi» tra i quali il M. si colloca. Certo che il potente cardinale più che tanto non favorì il M., se questi tornò a Venezia a mani vuote e da qui, ormai prossimo alla morte, dedicò a Bianca Cappello – l’avventuriera appena divenuta granduchessa – un libretto manoscritto, e tale rimasto (ibid.), con l’esposizione delle Virtù convenevoli ad un vero principe cristiano, che praticamente riproduce la prima giornata del Dialogo del 1563.
Si era ormai evidentemente essiccata la sua vena scrittoria se il M. ricicla, spacciandolo per nuovo, un testo già pubblicato. Ed era agli sgoccioli il suo ostinato sperare se – dopo aver guardato all’impero e alla Roma dei papi – ne collocò i residui nella protezione di Bianca Cappello, disposto per questo perfino a trasferirsi a Firenze.
Con addosso il dolore per la scomparsa del secondogenito e l’amarezza dei cattivi rapporti con il primogenito, per una somma da questo sottratta, il M., da tempo vedovo, morì a Venezia il 29 sett. 1579, e fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Servi.
Il M. è ricordato, lungo il Seicento, tra gli scrittori patrizi e collocato tra gli autori di «filosofia» e «politica», menzionato nel secolo successivo da Marco Foscarini per eleganza e chiarezza espositiva ma non per il pensiero, che, non originale, non oltrepassa quello corrente dei «suoi tempi». La sua statua – opera, ultimata nel 1787, dello scultore Giovanni Ferrari – è tra le tante del padovano Prato della Valle, che Andrea Memmo, alla lontana suo discendente, allorché provveditore a Padova nel 1775-76, aveva voluto trasformare in grandiosa piazza monumentale ricca, appunto, di statue «prataiole», ognuna da erigersi a spese d’un committente. Commissionata – con tutta probabilità il 22 dic. 1784, in occasione del suo passaggio per Padova – da Pietro duca di Curlandia (figlio di Carlo di Sassonia, nipote, quindi, d’Augusto III), nella sequenza delle statue ad personam, reca il numero XXX.
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G. Benzoni