FAITANI (Faetani), Giovan Matteo
Nato verosimilmente a Rimini tra febbraio-marzo del 1505 e i primi mesi del 1506 da Matteo e Bartolomea Veneri, fu battezzato con il nome di Pandolfo, come risulta da un atto notarile datato 17 febbr. 1527 con cui il giovane, "asserens se esse maiorem viginti annis", rinuncia a qualsiasi diritto presente e futuro sui beni di famiglia in favore dei fratelli Giorgio, di due anni maggiore, e Giulio, all'epoca ancora minorenne.
Il 19 maggio dello stesso anno, nello stesso convento di S. Giorgio di Ferrara dove già aveva compiuto il periodo di noviziato, egli fece professione di vita monastica nella Congregazione benedettina olivetana, assumendo il nome di Giovan Matteo e trascorrendo poi un biennio studio nella casa madre di Monte Oliveto Maggiore (1528-30). I dieci anni successivi si svolsero all'insegna di trasferimenti continui entro una fitta rete di comunità conventuali sparse tra Lombardia, Emilia e Romagne, secondo le consuetudini mobilità continua vigenti nella Congregazione: una mappa che si può ancora ricostruire scorrendo i monumentali registri manoscritti delle cosiddette Familiarum tabulae, conservate nell'Archivio dell'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, con l'avvertenza che l'anno olivetano viene computato a partire dalla data del capitolo generale (vale a dire, grosso modo, dal maggio dell'anno corrente al maggio di quello successivo).
Nel frattempo il F. scalava rapidamente tutti i gradini della gerarchia monastica, finché nel 1539 venne eletto abate visitatore e nel capitolo del maggio 1542 conseguì la nomina a vicario generale della Congregazione. A mandato scaduto (1544), insieme con l'incarico di visitatore per il biennio successivo, gli fu conferito il titolo di abate del monastero riminese di S. Maria Annunciata Nuova di Scolca, dove rimarrà per ben tredici anni - dal 1544 al 1558, con l'unica parentesi del 1555-56 - in totale deroga alle consuetudini olivetane di rotazione continua delle cariche. Tuttavia, dopo questo brillante giro di anni - un cursus honorum che lasciava intravvedere la possibilità di una rapida ascesa al generalato - la carriera del F. cominciò a segnare stranamente il passo. Difficile sottrarsi all'impressione di un allontanamento progressivo dai vertici della gerarchia, di una specie di dorato esilio riminese - almeno in parte condizionato anche da gravi motivi di salute - per un personaggio che nel frattempo era forse diventato di ostacolo alla linea politica dominante all'interno della Congregazione. Un accenno di ripresa sembrò profilarsi nel biennio 1555-57, quando il F. era nuovamente abate visitatore, ma si trattava di un recupero di breve durata.
Nei quattro anni successivi ci si scontra con il completo silenzio dei documenti: dal maggio 1558 al maggio 1562 il nome del F. scompare dagli elenchi delle Familiarum tabulae, quasi per una radiazione temporanea, riemergendo soltanto nel 1562-63 tra i semplici conventuali di un monastero del tutto periferico e secondario, S. Angelo di Gaifa, nell'archidiocesi di Urbino, dove aveva già soggiornato nel 1555-56, allora però in veste di abate. Qui il F. rimarrà ininterrottamente e senza mai più ricoprire alcuna carica o titolo - quasi si trattasse di un provvedimento disciplinare o di una specie di confino - sino all'anno della morte, avvenuta in circostanze drammatiche e mai del tutto chiarite, che le fonti olivetane pongono concordemente nel 1567 (vale a dire tra il maggio 1567 e il maggio 1568).
Sembra ormai accertato che il F. venisse giustiziato a Gubbio per avere assassinato nel monastero di Gaifa un confratello molto più giovane (l'anno di nascita è sconosciuto, ma quello della professione religiosa è il 1550), don Tommaso Casarossi, pure lui riminese e allora abate di quel convento. Impossibile far luce definitiva sulle circostanze del delitto a causa dell'omertà delle fonti, in particolare quelle interne alla Congregazione. Soltanto due sono infatti le testimonianze che accreditano questo finale a tinte forti: un breve accenno contenuto nella pressoché contemporanea Cronica delle famiglie nobili riminesi, compilata dal medico Giovanni Antonio Rigazzi circa nel settimo decennio del sec. XVI (l'apografo più antico è il manoscritto S.C.-MS., 1339 della Biblioteca civica Gambalunga di Rimini), e un appunto inserito nel Necrologium Olivetanum (1337-1744), manoscritto conservato nell'Archivio dell'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, compilato fino al 1520 da un fra' Luca Garganelli da Bologna - di qui la denominazione corrente di "Necrologium Bononiense" - e per l'anno che ci interessa, il 1567, da un don Angelo Maria Costa da Genova, il quale tuttavia scriveva a metà del sec. XVII (anche se non si può escludere che si servisse di registri o elenchi provvisori in seguito eliminati o dispersi). In quest'ultima testimonianza si legge anche un implicito accenno al movente del delitto, che s'intuisce connesso a feroci lotte per il potere, a vecchi rancori e rivalità interne al microcosmo monastico, sottratte purtroppo a una qualsiasi verifica storica. Del tutto oscure rimangono invece le ragioni del trasferimento del F. nella cittadina umbra, a meno di non ammettere come già operante nel Cinquecento la dipendenza amministrativa di S. Angelo di Gaifa dal monastero di S. Pietro di Gubbio, documentata soltanto a partire dallo scorcio del secolo successivo.
Le ulteriori scarse fonti disponibili, a stampa e manoscritte, fanno emergere dall'ombra soltanto pochi tratti imprecisi e sfuggenti. Apparentemente dettagliato, ma nella sostanza piuttosto generico ed evasivo, il breve profilo accennato da S. Lancellotti nel libro secondo delle Historiae Olivetanae, 1623, p. 204), che rimane la fonte di tutte le posteriori variazioni sul tema, da B. Tondi (L'Oliveto dilucidato, Venezia 1686, p. 75) a M. Belforti (Chronologia brevis, Mediolani 1720, p. 91), per arrivare al sommario e talvolta impreciso compendio di M. Scarpini (I monaci benedettini di Monte Oliveto, San Salvatore Monferrato 1952, pp. 187 s.). Collazionando per brevità queste fonti, emergono i seguenti nodi fondamentali: 1) i rapporti di particolare familiarità con papa Giulio III, cardinale protettore della Congregazione negli anni in cui il F. fu visitatore e vicario generale (la tradizione storiografica troverebbe conferma in una canzone e in un sonetto composti dal F. in suo onore). Stando sempre al Lancellotti, Giulio III sarebbe anche venuto materialmente incontro al F., soccorrendolo in occasione di contrasti e difficoltà non meglio specificati. A ripetuti incidenti di percorso sembra alludere ai primi del sec. XVIII anche il Belforti, con un rapido accenno ("multoties de se periculum fecit") che rimane tuttavia oscuro da interpretare; 2) i rapporti con Giorgio Vasari; 3) gli interessi letterari del F.: secondo una tradizione orale riportata dal Lancellotti, purtroppo priva di ulteriori riscontri, egli avrebbe addirittura composto due canti supplementari all'Orlando furioso di Lodovico Ariosto, nonché varie iscrizioni latine per lo stesso monastero di Scolca, che risultavano ancora leggibili nei primi decenni del sec. XVII.
Sull'erudizione letteraria del F. insistono concordemente le fonti antiche: tuttavia, a giudicare dalla scarsissima produzione superstite (esclusivamente poetica, in latino e in volgare), non sembra che i suoi sparsi esercizi di stile abbiano mai valicato la soglia di una pratica letteraria dilettantistica intesa come strumento di distinzione sociale. Oltre alla canzone già ricordata in onore del pontificato di papa Giulio III, inclusa in un'antologia di rime di autori contemporanei pubblicata a Cremona nel 1560 per i tipi del Conti: Rime di diversi autori eccellentiss[imi], a cura di Giovanni Offredi, pp. 180 ss. (un esemplare si trova alla Biblioteca Trivulziana di Milano, Triv. Coll. L.1031/9), si conoscono altre due canzoni del F., rispettivamente per Carlo V e Massimiliano II d'Asburgo imperatori, e nove sonetti di argomento celebrativo contenuti in un rarissimo opuscolo stampato a Perugia nel 1565 (un esemplare si trova alla Biblioteca civica Gambalunga di Rimini, B.S. 525, op. 3). Inedito fino al secolo scorso è invece rimasto quello che cronologicamente è il primo e senz'altro più interessante componimento superstite del F., una canzone in morte dell'Ariosto dedicata al futuro duca di Ferrara Ercole II d'Este (databile quindi ad annum, 1533), che fu pubblicata per la prima volta sul Giornale arcadico del 1821 (XI, I, pp. 243 ss.) dal poligrafo perugino G. B. Vermiglioli, il quale la traeva da un codice miscellaneo del sec. XVI allora in suo possesso. Un accenno contenuto nei vv. 113-114 del commiato permette di ipotizzare la conoscenza personale del poeta da parte del F., forse addirittura una certa familiarità segnata dai comuni interessi letterari, risalente con ogni verosimiglianza agli anni di noviziato nel convento ferrarese di S. Giorgio.
Quanto alla produzione latina del F., si conoscono tre epigrammi in numero, pubblicati postumi a Parigi nel 1576 per i tipi del Gorbin (Carmina illustrium poetarum Italorum, a cura di Giovan Matteo Toscano, I, p. 284). Si tratta di un distico De gigantibus a Iulio restitutis, in cui sembra verosimile riconoscere un'allusione alla sala dei Giganti dipinta da Giulio Romano nel mantovano palazzo del Te; di un secondo distico, sempre di argomento pittorico, dove è il ritratto ("imago") di tal messer Biagio a lamentarsi in prima persona "de rudi pictore ... a quo male fuerat effigiata", mentre il terzo componimento, De Amore ad Baias dormiente, rappresenta una lontana variazione sul tema di un epigramma greco di un certo Mariano Scolastico (Antol. Palat., IX, 627), mediata da un'altra imitazione tardo-antica dello stesso motivo (per un esame dettagliato dell'intera questione si veda Hutton, 1935 e 1940-41, da aggiornare con quanto detto in questa sede per quanto riguarda le edizioni e lo scioglimento della riserva sull'attribuzione al Faitani).
Finora tuttavia il nome del F. è rimasto pressoché esclusivamente legato a quello di Giorgio Vasari, con cui intrattenne ben documentati rapporti in una circostanza storicamente molto importante, vale a dire la conclusione e revisione (autunno-inverno 1547-48) del manoscritto della prima edizione delle Vite, uscite poi a Firenze nel 1550 per i tipi di Lorenzo Torrentino. Si ignorano i tempi e le circostanze dei primi contatti tra i due, che avvennero verosimilmente con la mediazione di don Miniato Pitti e don Ippolito da Milano, anch'essi monaci olivetani e tra i primi e più affezionati committenti e corrispondenti del pittore (tra l'altro in diverse occasioni colleghi dello stesso F. in qualità di abati visitatori). Da una testimonianza indiretta del Pitti veniamo comunque a sapere che il F. nell'aprile del 1545 aveva indirizzato al pittore una lettera, della quale purtroppo ignoriamo completamente il contenuto; il tenore confidenziale dell'accenno lascia tuttavia supporre che la conoscenza fra i due risalisse già qualche tempo prima.
I contatti ripresero nel novembre dello stesso anno, quando il F., ricorrendo ancora una volta all'autorevole mediazione del Pitti, si rivolse al Vasari per commissionargli una grande pala per l'altar maggiore del monastero di Scolca. Il progetto venne temporaneamente accantonato, per concretarsi in forma più ampia soltanto due anni dopo (dell'intero complesso decorativo, già ultimato nella primavera del 1548, è attualmente superstite soltanto lo scomparto centrale della grande Adorazione dei Magi). Il contratto definitivo, che prevedeva esplicitamente la presenza del pittore sul posto, fu stipulato a Firenze il 9 ag. 1547; tuttavia il Vasari partì per Rimini soltanto alla fine di settembre o ai primi di ottobre dello stesso anno. A quel tempo egli aveva ormai pressoché terminato la prima stesura delle Vite, sostenuto dall'appoggio dei suoi corrispondenti da Roma Annibal Caro e Paolo Giovio, sui consigli dei quali egli faceva affidamento anche per una finale revisione della forma letteraria. Un momento senz'altro poco indicato per intraprendere un viaggio, ma il F. aveva da parte sua offerto al Vasari l'interessante contropartita di curare personalmente la correzione del manoscritto che un suo monaco avrebbe nel frattempo diligentemente copiato.
Su queste circostanze l'unico resoconto resta quello fornito dallo stesso Vasari nel Libro dei ricordi e nella sua autobiografia, stesa tuttavia a distanza di molti anni dai fatti, e nella prospettiva ormai radicalmente cambiata della Giuntina. In questa posteriore rielaborazione l'artista fornisce al solito una versione piuttosto idealizzata e selettiva degli eventi, in cui il F. appare nient'altro che una comparsa del tutto occasionale sul teleologico orizzonte del complemento della prima edizione delle Vite. Dal confronto con altre serie documentarie sappiamo tuttavia che il F. era già da qualche tempo in contatto col pittore, per lo meno in qualità di committente; non è comunque da escludere una sua eventuale collaborazione anche in veste di informatore artistico per la Romagna (a dir la verità non molto aggiornato, nonostante gli interessi testimoniati dai suoi distici latini), secondo una pratica ben documentata dal metodo di lavoro del Vasari soprattutto per la seconda edizione delle Vite.
A questo proposito risulterebbe di fondamentale importanza il ritrovamento di quell'imprecisato numero di lettere del F. all'artista, di cui ignoriamo purtroppo arco cronologico e tematico, che tra la fine del sec. XVI e i primi del successivo erano ancora in possesso dei suoi eredi, come risulta da un elenco di corrispondenti "le lettere de' quali si trovano la maggior parte appresso il Cav.re Vasari suo nipote", stilato dallo stesso Giorgio Vasari il Giovane in calce al ben noto codice Riccardiano 2354 (si veda la scheda curata da C. Davis per il catalogo della mostra aretina del 1981, che fa bene il punto della situazione attuale).
A prescindere da questa congettura non documentata, l'attenzione degli studiosi si è da tempo soffermata sul problema del carattere e dell'effettiva estensione del contributo del F. a quel primo apografo riminese delle Vite, nel frattempo scomparso come tutti i materiali preparatori per l'edizione del 1550. L'opinione più accreditata è ancora sostanzialmente quella espressa ai primi del secolo da W. Kallab - il quale con grande equilibrio confutava le conclusioni del tutto aprioristiche cui era giunto U. Scoti Bertinelli in un pionieristico saggio del 1905 - ripresa e divulgata da J. v. Schlosser Magnino. Il F. si sarebbe dunque limitato a verificare la correttezza ortografica e solo esteriormente grammaticale del testo, senza alcuna possibilità di incidere effettivamente sulla sostanza linguistica e di contenuto delle biografie, sottoposte di lì a poco alla ben più autorevole competenza degli amici romani del Vasari (ai quali il manoscritto, ormai sostanzialmente completato, venne infatti spedito ai primi di dicembre del 1547). Una cautela indubbiamente giustificata dalla scarsità e difficoltà interpretativa degli elementi in nostro possesso, nonché dall'assoluta impossibilità di effettuare riscontri con la prosa del F., di cui non rimane alcun esempio superstite, e soprattutto dal fatto che in quell'anno e mezzo che separa la redazione dell'apografo riminese dall'avvio in tipografia del manoscritto (vale a dire dal dicembre 1547-gennaio 1548 all'estate del 1549), e poi ancora fino al termine della stampa dei due volumi (marzo 1550), nel testo delle Vite "vennero a sovrapporsi vari strati, da quello dei compositori all'editing degli Accademici" fiorentini (Rossi, 1986, p. XXXII; si veda anche Vasari-Frey, I, p. 211).
Volendo tuttavia avanzare alcune ipotesi di lavoro, destinate eventualmente a prendere corpo in seguito ad ulteriori ritrovamenti documentari (in particolare quelle lettere del F. al Vasari citate nell'elenco in calce al Riccardiano 2354), potrà forse tornare utile interrogarsi anche su di una possibile collaborazione del F. alla stesura di quegli epitaffi latini - sulla provenienza dei quali non si è ancora indagato a sufficienza - che strutturano in modo così caratteristico la morfologia delle Vite nella prima edizione, e che il Vasari insistentemente chiedeva ai suoi amici letterati (G. B. Adriani e Pietro Aretino - il quale rispose tuttavia con un rifiuto - ma anche A. Caro, F. Segni, G. B. Strozzi, senza dimenticare il non dichiarato apporto del Giovio). In tal caso il distico latino sulla sala dei Giganti di Giulio Romano in palazzo Te (e forse anche quello sullo sconosciuto ritratto di tal meser Biagio) potrebbe eventualmente rappresentare il relitto di un progettato intervento del F. in tal senso, scartato poi dal Vasari in favore dei contributi di penne più accreditate.
Fonti e Bibl.: La biografia del F. è stata ricostruita in base alla seguente documentazione, a stampa e manoscritta: Arch. di Stato di Rimini, Archivio notarile, Notaio Silvio Medaschi, prot. XIII (1526-27), cc. 24r-25r; Monte Oliveto Maggiore, Arch. dell'Abbazia, Liber professorum et mortuorum A. cc. 43v e 126r; Familiarum tabulae, III (1518-1557), cc. 105v, 118r, 127v, 145v, 156r, 166v, 178v, 190r, 201v, 218r, 226v, 238r, 252v, 253r, 263v, 265v, 270r, 278v, 290r, 304r, 310r, 315r, 320r, 325v, 335r, 347r, 354r, 363r, 373r, 387r, 398r, 407v, 423v, 424v, 430v, 444v, 447v, 449v, 454r, 459v, 463v; IV (1558-1598), cc. 3v, 78r, 92r, 120v, 233v, 248r; Liber mortuorum, sive necrologium, c. 38v; Necrologium Olivetanum (1337-1744), p. 199; si veda anche Bologna, Bibl. Com. dell'Archiginnasio, ms. B. 1037, e Arch. dell'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cronologia olivetana (1337-1913), ad annum; Catalogus monachorum congr. Oliv. defunctorum, c.216r; [G. Delfinoni], Necrologium Olivetanum, c. 127r; [C. Besozzi], Necrologium Olivetanum, col. 278; Chronicon cancellariae, I, cc. 100v, 114v, 161r; Rimini, Bibl. Civ. Gambalunga, ms. SC-MS. [= Stanza chiusa, manoscritti] 85: M. Bruni, Carmina, cc. 21v-22r; ms. SC-MS. 195: G. Urbani, Raccolta di scrittori e prelati riminesi 268; ms. 1339: G.A. Rigazzi, Cronica delle famiglie nobili riminesi, cc. 33r e 34v (vedi anche mss. SC-MS. 184, c.23r e 24v; SC-MS. 185, pp. 85 e 90; SC-MS. 186, cc. 13v e 15v; SC-MS. 284, cc. 233r e 235r; SC-MS. 1136, cc. 187r e 188r; e inoltre Forlì, Bibl. Comun. A. Saffi, Collez. Piancastelli, ms. VII/117); Monte Oliveto Maggiore, Arch. dell'Abbazia, S. Lancellotti, Istoria olivetana (ms. autografo - dat. Pavia 1620 - contenente il testo italiano del vol. poi pubblicato in trad. latina a Venezia nel 1623), ed. del libro I a cura di G. F. Fiori, Badia di Rodengo 1989, pp. 156, 171, 176, 200; ed. del libro II (solo per la parte riguardante i monasteri dell'Emilia-Romagna) a cura di G.F. Fiori, in Centro Storico Olivetano. Documenti, I (1982), p. 35; Id., Historiae Olivetanae. Libri duo, Venetiis 1623, pp. 79, 86, 89, 105, 204; C. Clementini, Raccolto istorico della fondazione di Rimini, II, Rimino 1627, p. 213; S. Lancellotti, Istoria olivetana de' suoi tempi. Libri XII, a cura di G. F. Fiori, Badia di Rodengo 1989, p. 106; B. Tondi, I fasti olivetani, Venezia 1684, p. 116; C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini..., I, Rimini 1884, pp. 315 ss.; Id., Rimini dal 1500 al 1800, II, Rimini 1888, pp. 704 s.; Id., Compendio della storia di Rimini, II, Rimini 1896, pp. 286 s.; A. Tosi, Minuzie di storia riminese, X e XI. L'Abate G. M. F., in Ildiario cattolico (Rimini), XIV (1938), nn. 2-3 (17 febbraio e 19 marzo); V. Cattana, Gli olivetani nelle Marche, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, pp. 186, 189, 191 s. 219 s.
Per la produzione letteraria, accanto alle edizioni e ai mss. gia citati nel testo, si veda Milano, Bibl. Ambrosiana, ms. Ambr. I.56 inf., c. 17 (con numerose varianti rispetto alle versioni a stampa; vedi anche Inventario Ceruti dei manoscritti della Bibl. Ambros., II, Trezzano sul Naviglio 1975, pp. 450 s.); R. Gherus [Ian Gruter], Delitiae Cc. italorum poetarum ... illustrium, s.l. (ma Francoforte) 1608, I, p. 944; M. Toscano, Anthologia Epigrammatum, Burdigaliae 1620, p. 145; Carmina illustrium poetarum italorum [a cura di G. G. Bottari], IV, Florentiae 1719, p. 182; Paris, Bibl. Nat., Nouv. acq. lat. 737: F.-J.-M. Noël, Erycina ridens…, c. 208r; G.B. Vermiglioli, Opuscoli, III, Perugia 1826, pp. 75-79; e inoltre F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, II, Milano 1741, pp. 363 s.; Bologna, Bibl. Univ., ms. 4300: F. e A. Battaglini, Scrittori riminesi, I, c. 394v; J. Hutton, The Greek Anthology in Italy to the year 1800, Ithaca, N. Y-London 1935, pp. 258, 566; Id., Analogues of Shakespeare's sonnets 153-54. Contributions to the history of a theme, in Modern philology, XXXVIII (1940-41), in part. pp. 394 s., 397 s.; M.E. Cosenza, Biographical and bibliographical Dictionary of the Italian humanists…, 1300-1800, Boston 1962, II, p. 1346; V, p. 676.
Per i rapporti con Giorgio Vasari, si veda in particolare: G. Vasari, Le vite ... (1568), a cura P. Barocchi e R. Bettarini, v (Testo), Firenze 1984, pp. 294, 466; VI (Testo), ibid. 1987, pp. 144, 390; K. Frey, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, I, München 1923, pp. 147, 157 s., 162, 168, 172 nota, 176 nota, 201 s., 204 s. nota, 206 nota, 210 (ma vedi la posteriore versione a stampa in A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, II, Firenze 1959, p. 50, n. 319), 211 nota, 216 s., 219; II, ibid. 1930, p.866 (Ricordi, 173); G. Vasari, Illibro delle ricordanze, a cura di A. Del Vita, Arezzo 1938, pp. 58 s.; A. Del Vita, Inv. e regesto dei manoscritti dell'archivio vasariano, Arezzo 1938, pp. 72, 80; Rimini, Bibl. civica Gambalunga, ms. SC-MS. 1172: G. Martinelli, Memorie di Scolca [1775], c.8v (ed. a cura G. F. Fiori, in Centro storico olivetano. Documenti, VIII [1986], p. 34); G. Viroli, L'opera e il soggiorno di G. Vasari a Rimini e l'abate riminese G.M.F., in La Romagna, s. 2, V (1908), pp. 511-541; A. Tosi, Alcune notizie su due quadri del Vasari scomparsi, in Cronache d'arte, I (1924), pp. 276 s.; Id., G. Vasari a Rimini, in Il Vasari, XII (1941), pp. 43-49; P. Barocchi, Vasari pittore, Milano 1964, pp. 30 s., 119; P. G. Pasini, Ilquadro del Vasari nel duomo di Rimini, in Rivista diocesana (Rimini), n. 33, marzo-aprile 1968, pp. 51-57; Giorgio Vasari (catal.), Firenze 1981, pp. 66, 207, 215 ss., 337 s.; P. G. Pasini, I benedettini a Rimini e nel riminese, in La regola e l'arte, Bologna 1982, pp. 109, 113 ss.; L. Corti, Vasari. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1989, p. 70.
Per il dibattito storiografico sul carattere ed entità dell'intervento del F. nella revisione dell'apografo della prima edizione delle Vite, si veda U. Scoti Bertinelli, Vasari scrittore, Pisa 1905, pp. 35-40, 204 ss.; W. Kallab, Vasaristudien, a cura di J. von Schlosser, Wien-Leipzig 1908, pp. 79-80, 144, 147, 249, 440-446 (da integrare e se occorre rettificare alla luce dei dati emersi dal carteggio vasariano nell'edizione del Frey); G. Gronau, recens. al vol. di Scoti Bertinelli, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXIX (1906), pp. 174, 176 s., 179; J. von Schlosser Magnino, La letteratura artistica, Firenze 1964, pp. 291 s.; T. S. Boase, G. Vasari. The man and the book, Princeton 1979, pp. 45 s.; A. Rossi, Nota testologica, in G. Vasari, Le vite..., a cura di L. Bellosi-A. Rossi, Torino 1986, pp. XXXI-XXXII.